Il numero 2 sembra accompagnare la sorte di Edith Stein: nata alla fede cristiana il 1° gennaio 1922, durante la festa della Circoncisione di Gesù, martirizzata ad Auschwitz nel 1942. A 52 anni. Edith Stein riassume tutto: l’ebraismo e il cristianesimo, o forse solo Gesù, un ebreo osservante e, al tempo stesso, uno strano ebreo: un ebreo che trascende l’ebraismo per giungere alla pienezza di un’umanità totale, ricapitolativa, senza più religione, perché di ognuno.
Edith Stein fu la prima a svelare questa realtà scandalosa ancor oggi, l’appartenenza di Gesù al suo popolo, allora del tutto accantonata se non addirittura negata con forza. È stata di ognuno (e di ognuna) mantenendo la propria originalità.
A lato: il fonte battesimale di Edith Stein nella cattedrale di Bad Berzagern. Sotto: un monumento alla filosofa.
Mi occupai di lei già
anni fa. Ma, in occasione del settantesimo della morte (cadrà, più precisamente, il 9 agosto prossimo) e del 90° del battesimo, in tempi, se non altrettanto calamitosi come quelli in cui le toccò vivere, senz’altro assai duri, funestati da miseria, violenza, intolleranza, misoginia e razzismo, la sua figura splende più attuale che mai. Giovanni Paolo II la beatificò nel 1998 dopo averla proclamata compatrona d’Europa, e fu una grande intuizione, perché Edith Stein (Teresa Benedetta della Croce dopo aver preso i voti come Carmelitana) impersona il dramma, la complessità, il cuore pulsante del nostro continente. La crisi dell’antropologia cristiana attuale può essere risolta a partire dal suo pensiero, dalla sua attenzione costante, direi costitutiva, alla natura della donna, al suo porla al centro della sua speculazione. Edith comprese che solo una “ruah” (spirito) femminile avrebbe potuto salvare il mondo. La “ruah” femminile, che altrove essa chiama empatia, è la capacità d’immedesimarsi negli altri, il dono di provare pietà e compassione, il compito d’educare la gioventù e la politica alla pace. La “ruah” femminile è collaborazione fattiva e paritaria con l’uomo. Edith pose al centro della sua riflessione anche la questione della sessualità, il significato profondo della relazione dei corpi – e spingeva a una corretta educazione sessuale nelle scuole già negli anni Trenta. Studiare la sua filosofia, oggi, significa non solo comprendere lo spirito e il dramma del
Novecento, ma le premesse per gettare una luce sulla realtà d’oggi: la tragedia dell’individualismo, la prevaricazione tra i sessi che diventa, in ultima analisi, dominio dell’uomo su qualsiasi altro essere vivente: donna, certo, ma anche natura. L’intelligenza “pura”, il raziocinio freddo può portare alla spersonalizzazione e alla spietatezza, e a un’oggettività forse più terribile perché impersonale: questo il rischio della maschilità non illuminata dalla grazia. E un abbandono totale alla vita istintiva, con rischio della castrazione dell’uomo che le è affidato: ecco il rischio della femminilità non guidata. Fonte della sua riflessione è la “donna forte” biblica.
Un ebraismo, il suo, mai rinnegato, anche dopo la conversione. Un ebraismo che la segna fino alla fine, fino al campetto di Auschwitz dove i prigionieri venivano fatti spogliare in attesa di andare a rinfrescarsi nelle “docce”. Chissà cos’ha pensato in quegli ultimi istanti, la filosofa che anni prima, inascoltata, aveva supplicato il Papa di pronunciare una netta parola di condanna contro i persecutori del suo popolo. Forse aveva già compreso che quella “scientia crucis” da lei elaborata, quell’assumersi del cristiano della passione di Cristo e dell’uomo reietto, toccava la sua persona in modo particolare, totale, ultimativo? In quegli anni spaventosi, Edith Stein è stata l’eterno ebreo, la sua parabola ha incarnato e s’è, diciamo, incistata nella vicenda d’un intero popolo e dell’intera umanità. Ma è stata anche – insieme, non malgrado – l’eterno Gesù e l’eterno Cristo, che proprio di lei, di una donna, in quell’epoca e in quel luogo, aveva assunto le sembianze.