e aggiungo e i cervelli e non solo in fuga per i salari da fame e sfruttamento .
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
Cosa ti ha portato , mi chiede la mia amica , a pensare a questo ?
una frase di cui non ricordo con precisione le parole , di Don Giuseppe Diana un prete anti camorra non ricordo esattamnte le parole di un prete che affermava che se aiuti una persona povera sei un santo se invece denunci il perchè è in quello stato sei un sovversivo
Ti Capisco, sembra una riflessione profonda su come le azioni e le intenzioni delle persone possano essere interpretate in modi molto diversi. il pensiero che hai menzionato sembra voler sottolineare come l’aiuto verso i bisognosi possa essere visto come un atto di santità, mentre cercare di capire e denunciare le cause della povertà possa essere visto come un atto di ribellione o sovversione. Ma vedi la chiesa non è un palco politico \ sindacale
Ma chissà perché con salari fermi da trent’anni, l’inflazione che si mangia il carrello della spesa, i giornali che invocano la guerra, i diritti in ritirata, la sanità pubblica gravemente ammalata e un dieci per cento della popolazione che balla intorno alla soglia di povertà, gli italiani fanno sempre meno figli. È davvero un mistero, porca miseria, chi l’avrebbe mai detto? Vabbè, comunque auguri ai 379.000 piccoletti nati nel 2023, pochi ma buoni, benvenuti! E mentre loro se ne stanno beati e ignari nelle loro culle e carrozzine, noi, qui, dobbiamo fare i conti con i giovani italiani che mancano, dannazione.Questo è un problema che ci esporrà a enormi rischi, per esempio quello di leggere altri tweet del ministro Valditara, una specie di incontro di wrestling con la grammatica e la sintassi, dove la grammatica e la sintassi hanno la peggio. Oppure – altro rischio molto sbandierato – di essere vulnerabili ad assalti stranieri all’arma bianca. Nel caso qualcuno ci attaccasse, il nostro esercito è fatto quasi tutto da graduati adipe-muniti, età media altina, reddito basso ma sicuro. Perché, come pare si stia riflettendo negli ambienti della Difesa, non ricorrere ad arruolamenti tra gli immigrati? Una specie di legione straniera, insomma. Non saranno gli “otto milioni di baionette” del Puzzone, d’accordo, ma qualcosa si può fare, e già si ventila – secondo numerose indiscrezioni – di attirare volontari con la promessa della concessione della nazionalità italiana. Insomma, ai “patrioti” che ci governano, che i soldati di truppa abbiano un’altra patria non importerebbe granché.E così assisteremmo al divertente paradosso che se imbracci un fucile ti facciamo diventare italiano, mentre se sei uno straniero – anche nato in Italia – e frequenti le elementari, o le medie, o le superiori, o ti laurei e diventi dottore no, non sei pronto.Naturalmente non è una cosa nuova, questa di prendere stranieri e di fargli fare i lavori che gli italiani non vogliono più fare, basta dare un’occhiata a qualunque cantiere, a qualunque consegna di cibo a domicilio, a qualunque lavoro sottopagato, senza formazione e meno ancora diritti. Insomma, al fronte gli stranieri li mandiamo già, fronte interno, basti vedere i funerali dei lavoratori caduti al cantiere Esselunga di Firenze poco più di un mese fa: per quattro quinti di provenienza straniera (Tunisia e Marocco), alcuni fuori da ogni regola, che meriterebbero almeno una lapide: “Caduti sul fronte appalti & subappalti”.Insomma, la “sostituzione etnica” tanto temuta dal ministro cognato è in atto, e riguarda soprattutto i lavori di merda, rischiosi e sottopagati. Un vero peccato che non si possano mettere gli stranieri a fare anche altre cose che gli italiani non vorrebbero fare. Per esempio i malati. Quel 6,6 per cento di italiani che hanno dovuto chiedere prestiti per pagarsi cure che la Costituzione gli garantirebbe gratis, oppure quei 9 milioni che si dichiarano in difficoltà perché non riescono ad accedere alla sanità pubblica, non potrebbero essere sostituiti da pazienti stranieri? In cambio potremmo dargli la cittadinanza, dopo il funerale. O ancora, oltre al soldato, o all’operaio edile, o al consegnatore di pizze, agli stranieri potremmo affidare anche lavori che gli italiani non sono in grado di fare con i necessari requisiti di “dignità e onore”, come per esempio il ministro del Turismo. È possibile che tra Ghana, Togo e altri Paesi esotici se ne trovi uno non iscritto al registro degli indagati. Proviamo!
Non è la prima volta che vengono registrati insulti omofobi sul luogo di lavoro: questa volta è toccato a Sara
Sara Silvestrini . La sua è una storia di ordinaria vergogna, omofobia e grande![]() |
| Da sinistra, Federica Chiarentini e Sara Silvestrini con l’avvocato Alfonso Gaudenzi da https://www.ilrestodelcarlino.it/ravenna |
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| Il supermercato Lidl al centro del ciclone |
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| foto simbolo |
DI FRASI come queste se ne trovano decine: è il racconto del lavoro nella ristorazione che viene premiato sui media tradizionali. Poi c’è la realtà, l’altro lato della barricata. I numeri: nell’italia in uscita dalla pandemia, il settore alberghiero e della ristorazione è penultimo nella classifica delle retribuzioni (peggio solo l’agricoltura) e ai primi posti per utilizzo di personale irregolare (numeri della Fondazione Di Vittorio, anno 2021). Le imprese del turismo hanno quasi un terzo dell’organico con contratti part time (28,7%), il 70% dei quali involontari. Anche le testimonianze dello sfruttamento quotidiano, della negazione dei diritti basilari, del lavoro al di fuori della legge e al di là della decenza sono ampiamente documentate da chi le ha subìte, basta andarle a cercare. Il Fatto Quotiiano ( FQ ) ha parlato con un giovane capo partita di una cucina stellata di Milano: un lavoratore più che qualificato, con una responsabilità importante. “Come molti colleghi – racconta, sotto promessa di anonimato – per accedere alle cucine degli stellati ho seguito una scuola di alta formazione gestita dallo stesso chef del ristorante. Queste scuole costano tra i 10 e i 15mila euro. I partecipanti vengono poi impiegati in quelle cucine da stagisti, per completare l’abilitazione, al posto di chi va in ferie. Gratis o con rimborsi spese di 200 o 300 euro. Per i più bravi, che vengono presi, si lavora con turni massacranti, dalle 9 alle 23. Io, da capo partita, svolgo anche le seguenti mansioni: carico e scarico merci e pulizia della cucina. Lavoro 7 giorni su 7, guadagno 1.200 euro al mese, senza straordinari, inquadrato come lavapiatti. Così sul mio contratto pagano meno tasse”.

Il dibattito sul delivery dura da tempo. Gli ingredienti della miscela che compongono questo servizio la rendono, da sempre, potenzialmente esplosiva, ne abbiamo scritto più volte anche su queste pagine. É un servizio che, già prima della pandemia che l’ha reso spesso imprescindibile, era amato e conosciuto dai clienti, che ne facevano ricorso per comodità, perché poco abili in cucina, o per concedersi qualche piccolo lusso senza uscire di casa, perché soli, per convivere con ritmi lavorativi stringenti. Dunque, la domanda dei consumatori si può considerare il primo ingrediente ormai ineluttabile. Il secondo è l’offerta e non è una novità, infatti, già nell’era analogica, ossia prima dell’avvento delle piattaforme di delivery digitali, si poteva alzare la cornetta e chiamare un esercizio pubblico, il più delle volte una pizzeria di quartiere, e farsi recapitare a casa una pizza da un fattorino dello stesso locale. Fattore, dunque, da registrare come positivo dal momento che, non solo aumenta i ricavi e i margini dell’impresa, ma permette di garantire posti di lavoro. Terzo ingrediente, emerso, appunto, con la nascita delle società di delivery, terze rispetto ai servizi di consegna svolti in proprio da dipendenti dei ristoranti, è lo sviluppo esponenziale delle possibilità che questa nuova modalità offre, sia ai ristoratori sia ai clienti. I primi possono approfittare di un servizio a costi variabili, aumentando, così, la propria offerta senza incidere sui costi fissi. I secondi possono allargare a tutto il territorio cittadino la varietà di ristoranti e cucine dove ordinare un pasto. Già su questo ingrediente, però, qualche naso che si storce da parte dei ristoratori ci sarebbe, infatti, nel breve tempo in cui questi servizi hanno preso piede, le società che gestiscono i cosiddetti rider, che prima, nella fase ancora autarchica del servizio, si chiamavano fattorini, hanno gradualmente, ma inesorabilmente, aumentato i propri margini di guadagno, con punte di sgradevole speculazione nel periodo che stiamo vivendo, quando le frequenti situazioni di quarantena che i vari decreti governativi o regionali impongono, hanno aumentano a dismisura la domanda. Alcuni ristoratori, vedendo diminuire al limite della convenienza in propri margini, si stanno ribellando e stanno pensando ad alternative per la consegna . L’ingrediente, però, forse più dibattuto e che agita le coscienze di molti, è l’attività dell’ultimo anello di questa catena, che, non a caso, definiamo così, perché, nello sfruttamento di cui i rider sono vittime, si rivedono alcuni dei comportamenti eticamente inaccettabili che, in piena rivoluzione industriale, prima che dell’introduzione delle tutele minime per la dignità di ciascun lavoratore, erano proprie della catena di montaggio di un qualsiasi reparto di una fabbrica.Il dibattito è aperto da tempo perché sul piatto della bilancia ci stanno due fattori di cui è difficile capire l’equilibrio: da una parte, innegabilmente, quello del rider è un lavoro, tuttavia, a oggi, la dignità di questo lavoro è ben al di sotto della soglia di tolleranza, così molti clienti vivono nel dilemma, contrastante e lacerante, di essere parte di un sistema che, al contempo, ripaga e sfrutta il lavoratore. Come uscirne ? Tra i primi a sottolinearne le storture, nonché i rischi per la salute e la sicurezza personale dei lavoratori delle piattaforme di Food Delivery, furono gli ideatori del gruppo di opinione chiamato “DOOF, l’altra faccia del food”, un team di persone esperte del settore ristorazione guidati da Valerio Massimo Visintin, critico gastronomico del Corriere della Sera, che, in diversi convegni di settore, affrontarono l’argomento cercando di ipotizzare una soluzione che garantisse tutti i soggetti coinvolti, a partire dai lavoratori, pagati il giusto e tutelati nei propri diritti essenziali, ai ristoratori e agli intermediari beneficiati di un equo guadagno, fino ai clienti rassicurati di svolgere la propria parte senza essere e, soprattutto, sentirsi complici di un’ingiustizia. In questo contesto si arrivò a coniare il termine DOOF Delivery, quasi a voler ribaltare, con l’uso delle parole, i termini della questione, trovando, finalmente, una soluzione etica che potesse rispondere a tutti i dilemmi esposti e annullare il carico esplosivo della miscela degli ingredienti, trasformandola in un vantaggio positivo per tutti i protagonisti. Un servizio, ipotizzarono allora Visintin, Samanta Cornaviera e il sottoscritto, che avesse anche un côté solidale, magari impiegando personale che avesse perso l’impiego o che, comunque, per un qualsiasi motivo, si trovasse in difficoltà economica. Sono passati alcuni anni e la pandemia, avendo fatto esplodere il mercato del delivery – oggi non più solo legato al cibo – se da una parte ha estremizzato le situazioni già al limite della sopportazione generando proteste e accentuando ingiustizie, dall’altra ha permesso che la creatività e la lungimiranza di alcune istituzioni stimolassero la nascita di qualcosa che a quel servizio di Doof Delivery immaginato a tavolino assomigliasse. In questi giorni il Comune di Milano ha selezionato alcuni progetti dal bando del Crowfundig Civico, una nuova modalità, messa a punto per finanziare progetti sociali e culturali nei quartieri dove il Comune, gli enti non profit e i cittadini uniscono le forze per migliorare la città. In pratica, attraverso la piattaforma “Produzioni dal basso”, chiunque può contribuire sostenendo i diversi progetti accolti. Ogni realtà selezionata ha 60 giorni per raccogliere una parte delle risorse (il 40%) attraverso piccole donazioni dei cittadini. Il Comune finanzierà il resto dei costi (il 60%) con un contributo a fondo perduto fino a 60.000 Euro. Tra questi progetti uno è proprio dedicato alla consegna a domicilio; nasce a Dergano, un quartiere della periferia nord di Milano, un luogo che ha dimostrato in questi anni grande fermento e sensibilità, promuovendo realtà come le social street o associazioni che hanno avuto come scopo creare uno spirito di comunità e solidarietà che, guarda caso, proprio durante i periodi di quarantena pubblica forzata, ha contribuito a fornire servizi essenziali a tutti i cittadini, in particolare quelli più fragili alleviando i tanti disagi vissuti. In questo contesto virtuoso è nata SO-DE (Social, Solidale, Sostenibile – DElivery), non tanto lontano da quel Doof Delivery, ma, giustamente adeguato a tutti i servizi che questa neonata attività vuol fornire, partendo dalla consegna di cibo, fino a libri, piante, abbigliamento, insomma qualsiasi cosa trasportabile, ma non solo, anche una rappresentazione teatrale mobile. Non è, però, importante ciò che si offre, anche se dare lavoro anche ad artisti, colpiti duramente dallo stop di questi mesi, vale molto; è fondamentale, invece, l’aspetto legato alle tutele dei lavoratori che beneficeranno di un contratto di lavoro subordinato vero, con tutte le tutele, corso di formazione compreso, finalizzato a gestire al meglio il proprio mestiere, imparando a fare piccole riparazione al mezzo di trasporto, a conoscere il codice della strada, a migliorare le proprie competenze in materia di relazioni interpersonali, nonché apprendere le basi delle norme sulla sicurezza del lavoro. Il progetto, inoltre, essendo immaginato per un quartiere, ha l’ambizione di far diventare questi “So-De-Rider”, selezionati, peraltro, nelle categorie più fragili, un persona di famiglia, un po’ come quei portieri dei grandi palazzi dei film americani che conoscono tutto degli abitanti e, spesso, nella narrazione cinematografica sono degli angeli custodi. Non c’è che augurarsi che questa scintilla alimenti un fuoco rigoglioso e spinga anche le multinazionali del delivery a rivedere le proprie pratiche, magari capendo che l’etica col tempo le farà guadagnare di più, cancellando i sensi di colpa che attanagliano ristoranti e clienti.
Arrivata a Roma nel 2005 con la speranza di trovare un lavoro, Laura, 27 anni, si è dovuta accontentare per anni di lavori precari e sottopagati. Dopo lo scandato delle escort di Berlusconi, si è incuriosita riguardo al fenomeno e, mossa dalla disperazione e dalla voglia di riscatto, ha pubblicato un annuncio su un popolare sito di incontri sessuali. Oggi guadagna dai cinque mila euro in su al mese. Ma ammette: "Questo lavoro ti toglie molto di più di quanto ti dà". Ulteriori dettagli sulla sua situazione . La seconda storia è di chi lo fa per noia e sfizio
gnità. Ebbene in questi giorni, molti lavoratori, al Nord come al Sud, sono in mutande. Per lo più nel chiassoso silenzio dei media, in tutt'altre faccende affaccendati. "Devi attirare l'attenzione delle telecamere, altrimenti non esisti": frase che suona grottesca perché non esce dalla bocca di Fabrizio Corona, ma da uno degli operai della Esab di Mesero, alle porte di Milano, che da giorni, coi compagni, grida sui tetti - il Vangelo coglie sempre nel segno - la sua lotta e la sua resistenza ai licenziamenti. Il regime videocratico impone leggi ferree: tanto vale sfruttarle a proprio vantaggio, visto che le protezioni sociali si affievoliscono sempre più. Hanno creato anche un blog, Quelli del tetto. La rete sembra essere rimasta l'unica arma per far udire le voci libere e disperate.
ashir, quello delle str
agi silenziate del Darfur, che solo due anni fa è stato ricevuto dalle alte cariche del nostro Paese e dal Papa, la si confronta con quella di Lubna, e non occorre aggiungere altro.Nella CASA DELLE VEDOVE, le più coraggiose vi arrivano da sole, sognando di raggiungere il paradiso dove saranno liberate dal ciclo della morte e della rincarnazione.
Ma la maggior parte viene accompagnata, o meglio «scaricata» a sua insaputa, dalla famiglia del marito, ormai defunto.
Con lui del resto hanno perso tutto, persino il cognome da sposate.
Eppure a portare a Vrindavan migliaia di donne ogni anno non è tanto la fede, ma la disperazione. Questa cittadina dell' Uttar Pradesh, 150 chilometri a sud-est di Nuova Delhi, da 500 anni è un rifugio per le donne spogliate di tutto che qui vivono, se va bene, di elemosine e offerte.
Un lungo purgatorio in terra, un viaggio senza ritorno verso l' oblio: a casa non arriverà neanche la notizia della loro morte.
Vrindavan, una città santa quasi tutta per loro: su 56 mila anime, quasi 15 mila sono vedove.
Un abitante su quattro.
Cinquemila in più rispetto a dieci anni fa.
A lanciare l' allarme è il rapporto del Fondo di sviluppo dell' Onu per le donne e Guild of Service, organizzazione umanitaria laica indiana.
Rifiutate dalle famiglie d' origine, diventate un peso per quella del marito, praticamente impossibilitate a risposarsi, le vedove si ritrovano a vagare come fantasmi tra i templi per guadagnarsi da vivere: tre rupie (6 centesimi di euro) e una ciotola di riso per 4 ore di canti e preghiere al giorno. È anche per questo che Vrindavan è segnalata dalle guide: le donne avvolte nei loro sari bianchi, che mendicano nelle strade polverose e cantano «hare Krishna» nei 5 mila templi della città, sono diventate senza volerlo delle attrazioni.
Molte sono giovanissime, andate in sposa da bambine a uomini più vecchi con il culto (diffuso) delle vergini: una bocca da sfamare in meno in casa.
A Vrindavan 2 su 5 sono convolate a nozze prima dei 12 anni e quasi una su tre è rimasta vedova prima dei 24.
Del resto si stima che nel Subcontinente 1 indiana su 4 convoli a nozze prima dei 18 anni previsti dalla legge e che quasi 1 su 5 prenda marito sotto i 10.
Rimaste sole, un tempo le bruciavano sulla stessa pira dell' uomo.
Ora, almeno, vivono. Rifugiate negli ashram. Dove però soprattutto se giovani vengono sfruttate sessualmente da chi dovrebbe proteggerle.
Della città delle vedove parla un film:
“Water, il coraggio d’amare” per la regia di Deepa Mehta.
Patrocinato da Amnesty International e inserito nella campagna di sensibilizzazione "Mai più violenze sulle donne" .
La pellicola è stata e candidata all'Oscar 2007. Water. Il coraggio di amare è un film toccante e con una messa in scena accurata e coinvolgente. Un film che si colloca nella tradizione del miglior cinema di impegno civile.
India, 1938: Chuyia è una bambina di otto anni, con lo sguardo, la spontaneità, la voglia di giocare di qualsiasi coetanea, solo che lei è diversa:
è una baby-sposa, a cui, per colmo di sfortuna, muore il marito.
Così, come prescrivono i rigidissimi rituali religiosi indù, la piccola è costretta a lasciare la famiglia e l'adorata mamma, per essere segregata in una "Casa delle vedove":
una sorta di lager dove - tra amicizie, umanità dolente, prostituzione occulta, divieti di ogni genere - finirà, dopo l'ennesimo trauma, per perdere definitivamente l'innocenza e tutta la luce che aveva negli occhi.
La denuncia della regista si fa aspra e inflessibile:
la vedovanza che impone alle donne indiane di allontanarsi dal resto della società, le trasforma in fantasmi abbandonati da tutti, riunite dalle lacrime per una vita passata, spesso infelice, ma sicuramente più libera.
L'arrivo nella casa delle vedove di una piccola bambina mescola destini e scatena passioni, sentimenti di tenerezza e desideri appropriativi.
Film-denuncia e set bruciato…
Lavoro osteggiato dalle autorità bengalesi e preso di mira dai fondamentalisti indù che distrussero il set e minacciarono di morte la Metha e le attrici.
Il linguaggio del corpo da solo non basta a prevenire femminicidi o violenze, ma può essere un segnale precoce utile se integrato con educ...