Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
21.11.24
qualche giorno fa è stato approvato il ddl che dichiara la GPA «reato universale». Ora sì che eviteremo sfruttamento e mercimonio...
La mia posizione sulla GPA è nota ab illo tempore, mi ha provocato già diverse discussioni, anzi, no, insulti, accuse (di non essere davvero una femminista, per esempio, da chi, evidentemente, pensa di detenere il copyright, e di poter distribuire patenti, come una sorta di motorizzazione per femminismi), e persino condanne ed epurazioni social, con un certo invasamento e senza nemmeno possibilità d'appello; anche per questo, non ne parlo da molto tempo.
Pure con l'avvento dell'abominevole disegno di legge che parla di «reato universale» del governo Meloni, ne ho parlato poco
E, forse, farei bene a continuare così.
Ma, invece, oggi no: oggi ribadisco di nuovo quello che già dissi precedentemente su queste pagine che, quando si parla della GPA e la si vuole per forza definire "utero in affitto", non volendo capire, o facendo finta di non sapere, che è utero in affitto quando c'è mercificazione, sopraffazione e ricatto sociali, di classe, ma non è sempre così, perché ci sono casi nei quali, è, appunto, una scelta libera, e, quindi, è giusto definirla "gestazione per altri, altre, altrə", ed è giusto, ma, soprattutto, sarebbe utile, che è ciò che più conta, che venga realmente conosciuta e compresa, e regolamentata, in modo da rendere la sua attuazione etica, il più etica possibile, e non impedirla; anche perché, se non accade questo, non è che non si farà più, continuerà a farsi nel modo meno etico possibile, e la mercificazione e lo sfruttamento e il ricatto sociale nei confronti di una donna saranno solo resi più semplici; regolamentare è l'unico modo per controllare e per limitare gli abusi, normare e legittimare, e non impedire generalmente in base a discorsi pretestuosi, arroganti, miopi, di gente che non vuole ascoltare davvero l'altra, l'altrə, l'altro, e, spesso, pure moralistici. È solo regolamentandola, ponendo criteri e limiti chiari e definiti, tracciando delle linee cristalline, che puoi tenere sotto controllo e avere reale contezza di qualcosa. È un po' come per l'aborto (non sto dicendo che i due fenomeni sono sovrapponibili, né identici, ma solo che questo elemento è il medesimo): non è che quando non c'era una legge che lo legittimava e lo regolamentava, non avvenisse (perché se una persona ne ha bisogno, sente di doverlo fare, vuole farlo, lo fa comunque, è questo il punto, questo non si può impedire): avveniva comunque, ma clandestinamente, su un tavolo e con grucce non sterilizzati, avendo molto spesso, come conseguenza, la morte delle donne che vi ricorrevano.
Comprendere, legittimare, legalizzare e regolamentare un fenomeno serve sempre, soprattutto, per avere la possibilità di tenere sotto controllo qualcosa che già e comunque accade, e senza norme e legittimazione nella sua forma peggiore e/o più dannosa, pericolosa, per tentare di evitare il più possibile le forme di abuso, per limitare i danni.
E aggiungo che i femminismi, in particolare il transfemminismo intersezionale, per meritare davvero di essere considerati tali, per avere realmente una ragion d'essere, per avere un'utilità e sperare veramente di essere agenti di cambiamento, di rivoluzione, devono rifuggire qualunque semplificazione, ogni manicheismo, l'approccio moralista, giudicante, normativo ed escludente, e i giudizi e i pre-giudizi facili, la negazione e/o il rifiuto aprioristico di ciò che esiste attorno solo perché non ha che fare direttamente con noi e fatichiamo a comprenderlo, le banalizzazioni, in favore, invece, della complessità, dell'ascolto, della capacità di comprensione, dell'inclusione, della varietà di istanze, di proposte, di vissuti, dell'apertura mentale, della propensione alla conoscenza effettiva e profonda di qualcosa o qualcuno prima di decidere di assumere un posizione radicale e di esprimerci su quel qualcosa o qualcuno, che ci permetta di escludere con ragionevole sicurezza di essere realmente nelle condizioni di farlo, e della propensione all'accettazione delle differenze e prima ancora del fatto che queste esistano, che è bello, giusto, sano che sia così, e che non si può e non si deve pretendere che ciò che è adatto a/libera/fa star bene noi, sia necessariamente rappresentato dalle stesse cose che fanno per/liberano/fanno star bene altre donne, e, più in generale, altre persone.
E da transfemminista intersezionale, e da anticapitalista convinta e radicale, mi permetto di ricordare che il problema è sempre il capitalismo, è sempre che ci siano ricchi sempre più ricchi, che, in una società come questa, possono fare ciò che vogliono, e poveri, povere, poverə sempre più poveri, povere, poverə, che, invece, sin troppo spesso, quasi sempre, si ritrovano a non avere reale possibilità di scelta, e a subire quelle altrui.
Per cui, è su questo che, se davvero si volesse fare qualcosa per evitare lo sfruttamento e gli abusi dei primi ai danni deə secondə, le politiche dovrebbero puntare, e legiferare. Ed è su questo che le sedicenti femministe, specie se anche sedicenti intersezionali e anticapitaliste, dovrebbero far sentire la loro voce.
E non sulla criminalizzazione della GPA in sé e per sé, in quanto tale, con tanto di plauso per l'«invito» alla delazione da parte dei medici alle istituzioni.
Perché, se «il corpo è mio e decido io», posso decidere di non fare figli ma anche di portare avanti una gravidanza per un'altra donna — amica, sorella, cognata, collega, compagna di lotte, pure semplice buona conoscente —, o altra persona, a me più o meno cara, che non può (ricordate, per dire, Phoebe che, nella serie tv Friends, negli anni '90, sceglieva di portare avanti una gravidanza per il fratello e la cognata ? )
E, in questo, non c'è alcuna mercificazione, né sfruttamento, c'è solo libertà di scelta (condivisibile o meno, ma tant'è; e, se non condividi, semplicemente, non lo fai, esattamente come per l'interruzione di gravidanza, o per il sex work, ma non ti permetti di arrogarti il diritto, che non hai, di dire a un'altra donna cosa deve fare o non fare ).
La mercificazione e lo sfruttamento sono possibili solo laddove c'è un divario di risorse e di mezzi, laddove vige il capitalismo, laddove tutto ruota intorno al profitto dei soliti pochi e alla subordinazione di tutte le altre, tuttə lə altrə, tutti gli altri.
Allora, se volete davvero sconfiggere mercificazioni, sfruttamento, abusi dovuti a questo, oltre, chiaramente, nella fattispecie del discorso specifico, a rendere più semplici, fattibili, meno assurdamente burocratizzate e costose le adozioni, è di anticapitalismo che dovete parlare. E, guarda caso, io, a molte e molti di voi, che, ora, sento ergersi ridicolmente a paladini e difensori «delle donne», di questo non ho mai sentito parlare.
Abbiate il coraggio di mettere al centro del discorso politico la lotta di classe e la lotta alle ingiustizie sociali. Il sovvertimento della società capitalistica. E pure l'anticolonialismo, l'eterno sfruttamento di certi Paesi e di chi li abita (guarda caso sempre occidentali) nei confronti di altri e di chi qui è nato, nata, natə e vive (sempre gli stessi, sempre quelli).
Altrimenti, è solo fuffa ipocrita, liberticida, reazionaria, moralista, autoritarista. Altro che femminismo.
17.8.24
Suicida dopo il licenziamento per 280 euro, la collega si sfoga al funerale: «Siamo sfruttati». Il parroco la zittisce: «Non è il sindacato»
in sottofondo
sopra il tetto del comune -maldestro
Cosa ti ha portato , mi chiede la mia amica , a pensare a questo ?
una frase di cui non ricordo con precisione le parole , di Don Giuseppe Diana un prete anti camorra non ricordo esattamnte le parole di un prete che affermava che se aiuti una persona povera sei un santo se invece denunci il perchè è in quello stato sei un sovversivo
Ti Capisco, sembra una riflessione profonda su come le azioni e le intenzioni delle persone possano essere interpretate in modi molto diversi. il pensiero che hai menzionato sembra voler sottolineare come l’aiuto verso i bisognosi possa essere visto come un atto di santità, mentre cercare di capire e denunciare le cause della povertà possa essere visto come un atto di ribellione o sovversione. Ma vedi la chiesa non è un palco politico \ sindacale
3.4.24
Cantiere o esercito? La sostituzione etnica funziona solo coi lavori di merda da l Fatto Quotidiano3 Apr 2024 ALESSANDRO ROBECCHI
Ma chissà perché con salari fermi da trent’anni, l’inflazione che si mangia il carrello della spesa, i giornali che invocano la guerra, i diritti in ritirata, la sanità pubblica gravemente ammalata e un dieci per cento della popolazione che balla intorno alla soglia di povertà, gli italiani fanno sempre meno figli. È davvero un mistero, porca miseria, chi l’avrebbe mai detto? Vabbè, comunque auguri ai 379.000 piccoletti nati nel 2023, pochi ma buoni, benvenuti! E mentre loro se ne stanno beati e ignari nelle loro culle e carrozzine, noi, qui, dobbiamo fare i conti con i giovani italiani che mancano, dannazione.Questo è un problema che ci esporrà a enormi rischi, per esempio quello di leggere altri tweet del ministro Valditara, una specie di incontro di wrestling con la grammatica e la sintassi, dove la grammatica e la sintassi hanno la peggio. Oppure – altro rischio molto sbandierato – di essere vulnerabili ad assalti stranieri all’arma bianca. Nel caso qualcuno ci attaccasse, il nostro esercito è fatto quasi tutto da graduati adipe-muniti, età media altina, reddito basso ma sicuro. Perché, come pare si stia riflettendo negli ambienti della Difesa, non ricorrere ad arruolamenti tra gli immigrati? Una specie di legione straniera, insomma. Non saranno gli “otto milioni di baionette” del Puzzone, d’accordo, ma qualcosa si può fare, e già si ventila – secondo numerose indiscrezioni – di attirare volontari con la promessa della concessione della nazionalità italiana. Insomma, ai “patrioti” che ci governano, che i soldati di truppa abbiano un’altra patria non importerebbe granché.E così assisteremmo al divertente paradosso che se imbracci un fucile ti facciamo diventare italiano, mentre se sei uno straniero – anche nato in Italia – e frequenti le elementari, o le medie, o le superiori, o ti laurei e diventi dottore no, non sei pronto.Naturalmente non è una cosa nuova, questa di prendere stranieri e di fargli fare i lavori che gli italiani non vogliono più fare, basta dare un’occhiata a qualunque cantiere, a qualunque consegna di cibo a domicilio, a qualunque lavoro sottopagato, senza formazione e meno ancora diritti. Insomma, al fronte gli stranieri li mandiamo già, fronte interno, basti vedere i funerali dei lavoratori caduti al cantiere Esselunga di Firenze poco più di un mese fa: per quattro quinti di provenienza straniera (Tunisia e Marocco), alcuni fuori da ogni regola, che meriterebbero almeno una lapide: “Caduti sul fronte appalti & subappalti”.Insomma, la “sostituzione etnica” tanto temuta dal ministro cognato è in atto, e riguarda soprattutto i lavori di merda, rischiosi e sottopagati. Un vero peccato che non si possano mettere gli stranieri a fare anche altre cose che gli italiani non vorrebbero fare. Per esempio i malati. Quel 6,6 per cento di italiani che hanno dovuto chiedere prestiti per pagarsi cure che la Costituzione gli garantirebbe gratis, oppure quei 9 milioni che si dichiarano in difficoltà perché non riescono ad accedere alla sanità pubblica, non potrebbero essere sostituiti da pazienti stranieri? In cambio potremmo dargli la cittadinanza, dopo il funerale. O ancora, oltre al soldato, o all’operaio edile, o al consegnatore di pizze, agli stranieri potremmo affidare anche lavori che gli italiani non sono in grado di fare con i necessari requisiti di “dignità e onore”, come per esempio il ministro del Turismo. È possibile che tra Ghana, Togo e altri Paesi esotici se ne trovi uno non iscritto al registro degli indagati. Proviamo!
22.6.22
Maltrattata perché lesbica, il giudice condanna a tre mesi il caporeparto della Lidl Insultata e umiliata sul posto di lavoro perché omosessuale, Sara Silvestrini, 40enne di Lugo, ha vinto la battaglia in tribunale contro coloro che l’hanno derisa e contro il sindacatoi che faceva filone con il padrone
Non è la prima volta che vengono registrati insulti omofobi sul luogo di lavoro: questa volta è toccato a Sara
Sara Silvestrini . La sua è una storia di ordinaria vergogna, omofobia e grande![]() |
Da sinistra, Federica Chiarentini e Sara Silvestrini con l’avvocato Alfonso Gaudenzi da https://www.ilrestodelcarlino.it/ravenna |
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Il supermercato Lidl al centro del ciclone |
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foto simbolo |
15.4.22
si cerca personale per la stagione estiva ma non se ne trovano ”. Imprenditori e chef si lamentano sui giornali, ma senza dire le condizioni proposte
"I ragazzi hanno perso il valore del lavoro: io da giovane raccoglievo le mele per due soldi, e lo facevo con passione. Adesso l’obiettivo è opposto, non lavorare. Lo ripeto: colpa del reddito di cittadinanza, una vera catastrofe"Flavio Briatore si schiera con Alessandro Borghese dopo le polemiche per le frasi su giovani e lavoro. Poi svela quanto paga i suoi dipendenti: https://fanpa.ge/Inqup
DI FRASI come queste se ne trovano decine: è il racconto del lavoro nella ristorazione che viene premiato sui media tradizionali. Poi c’è la realtà, l’altro lato della barricata. I numeri: nell’italia in uscita dalla pandemia, il settore alberghiero e della ristorazione è penultimo nella classifica delle retribuzioni (peggio solo l’agricoltura) e ai primi posti per utilizzo di personale irregolare (numeri della Fondazione Di Vittorio, anno 2021). Le imprese del turismo hanno quasi un terzo dell’organico con contratti part time (28,7%), il 70% dei quali involontari. Anche le testimonianze dello sfruttamento quotidiano, della negazione dei diritti basilari, del lavoro al di fuori della legge e al di là della decenza sono ampiamente documentate da chi le ha subìte, basta andarle a cercare. Il Fatto Quotiiano ( FQ ) ha parlato con un giovane capo partita di una cucina stellata di Milano: un lavoratore più che qualificato, con una responsabilità importante. “Come molti colleghi – racconta, sotto promessa di anonimato – per accedere alle cucine degli stellati ho seguito una scuola di alta formazione gestita dallo stesso chef del ristorante. Queste scuole costano tra i 10 e i 15mila euro. I partecipanti vengono poi impiegati in quelle cucine da stagisti, per completare l’abilitazione, al posto di chi va in ferie. Gratis o con rimborsi spese di 200 o 300 euro. Per i più bravi, che vengono presi, si lavora con turni massacranti, dalle 9 alle 23. Io, da capo partita, svolgo anche le seguenti mansioni: carico e scarico merci e pulizia della cucina. Lavoro 7 giorni su 7, guadagno 1.200 euro al mese, senza straordinari, inquadrato come lavapiatti. Così sul mio contratto pagano meno tasse”.
Il fil rouge che collega tutti interventi ed dichiarazioni di chi se la prendono con il Reddito o quelli che accusano direttamente i candidati alle offerte di lavoro è uno: non vengono mai citate le condizioni contrattuali che vengono proposte ai lavoratori né si ritrovano mai in rete annunci di lavoro postati dagli imprenditori che rilasciano queste interviste ( vedi il leggi anche riportato ad inizio post ) Dieci ore al giorno, se va bene, sei giorni su sette. Lo stipendio? Forfettario e pagato in parte con bonifico e in parte in contanti. Ovvero in nero. Questo è solo un esempio delle offerte di lavoro in cui si imbattono i lavoratori della ristorazione e del turismo in cerca di un impiego per la stagione. “Non riusciamo a trovare personale”. “Il reddito di cittadinanza ha rovinato il mercato”. “Cerco camerieri e non li trovo”. Da settimane sui quotidiani di tutta Italia è tornata a farla da padrone la sempreverde campagna contro i giovani che non hanno voglia di lavorare, edizione “mancano lavoratori per la stagione estiva”.In coda alla sequela di protesta di ristoratori e albergatori che si lamentano di non trovare dipendenti per le proprie attività, a mettere il carico da 90 sulla classica polemica di inizio primavera è stato uno degli chef televisivi più famosi d’Italia: Alessandro Borghese. In un’intervista concessa al Corriere della Sera, ha dichiarato di essere alla perenne ricerca di collaboratori “ma fatico a trovare nuovi profili”. E poi, ancora: “Sarò impopolare, ma non ho alcun problema nel dire che lavorare per imparare non significa essere per forza pagati. Io prestavo servizio sulle navi da crociera con “soli” vitto e alloggio riconosciuti. Stop. Mi andava bene così: l’opportunità valeva lo stipendio. Oggi ci sono ragazzetti senza arte né parte che di investire su se stessi non hanno la benché minima intenzione”. Sarà vero anche se genmeralizzato che c'è gente pigra e poco incline al sacrificio , ma Borghese(e chissà anche gli altri se andiamo a farli le pulci ) omette dettagli della sua biografia che potrebbero aiutare a decifrare il contesto: è figlio dell’attrice Barbara Bouchet e dell’imprenditore Luigi Borghese, si è diplomato all’american Overseas School of Rome, una scuola privata che costa poco meno di 25mila euro l’anno. L’agiatezza familiare non è una colpa, sia mai, ma dovrebbe consigliare prudenza a chi parla di lavoro gratuito ed mancanza di sacrifici da parte dei giovani
ILfil rouge, come dice il FQ che collega tutti gli articoli di quello che ormai è divenuto un vero e proprio genere letterario è uno: non vengono mai citate le condizioni contrattuali che vengono proposte ai lavoratori né si ritrovano mai in rete annunci di lavoro postati dagli imprenditori che si lamentano sui giornali. Molto spesso, le febbrili ricerche di cui raccontano si limitano alla pubblicazione di sintetici post su Facebook. Fine dello sforzo, che secondo loro dovrebbe essere ricompensato dall’arrivo di decine di curricula. Raramente i quotidiani che raccontano le vicissitudini degli imprenditori del settore della ristorazione e del turismo danno voce all’altra parte in causa, i lavoratori, chiedendo che tipo di proposte in media ricevano per coprire la stagione, estiva o invernale che sia.
COSA OFFRE IL MERCATO – “La maggior parte delle volte le offerte vengono esplicitate per telefono oppure dal vivo, senza lasciare prove. Capita però che alcuni datori di lavoro scrivano via mail nero su bianco condizioni che hanno ben poco di legale”. Daniele sta cercando lavoro per la stagione estiva e recentemente si è imbattuto in due offerte particolari arrivate da due hotel 4 Stelle. La prima struttura, sul Lago di Garda, cercava un pasticciere che lavorasse 10 ore al giorno per 6 giorni su 7. Sessanta ore di lavoro a settimana. “Non ho idea del compenso perché mi sono fermato quando ho letto che proponeva uno stipendio tutto incluso, dunque comprendente di tfr, ferie, 13sima, 14sima per aumentare il compenso mensile, da pagare tramite bonifico e una parte in contanti. Mi sono fermato a questa proposta, scritta nero su bianco come fosse una cosa normale”.
Il secondo hotel, sempre un 4 stelle, è una struttura di Bellaria piuttosto conosciuta. “Mi ha offerto 1900 euro al mese, sempre omnicomprensivi di tutto, per lavorare come capo partita sette giorni su sette, mattina, pranzo e cena, quindi almeno 12 ore al giorno – racconta Daniele – Alla mia richiesta di avere almeno un giorno libero a settimana, mi hanno risposto che il compenso si sarebbe abbassato a 1600 euro al mese. Sempre per 12 ore al giorno. Questo è quello che si trova in giro”.
“E POI MI DICONO CHE NON VOGLIO LAVORARE” – Un caso? Non esattamente. E date le esperienze passate e le offerte sempre peggiori che girano nell’ambiente, Daniele sta pensando di abbandonare il settore: “Onestamente, dopo anni di sacrifici, mi sono accorto che non vivo più, soprattutto facendo il paragone con amici che hanno lasciato la ristorazione. Loro hanno sabato e domenica liberi, ferie pagate, otto ore al giorno. Io mai avuti questi ‘privilegi’”, si sfoga. “Ho lavorato 13 ore per 20 euro a Ferragosto 2020, dopo il periodo della prima ondata Covid con la scusa che ‘la pandemia ha colpito tutti, ora questi sono i compensi’. Sto valutando di lasciare il settore perché non riesco a trovare nessuno che garantisca il minimo. Non ho mai percepito tredicesima, a volte nemmeno il TFR. Può un ragazzo rivolgersi sempre ad un avvocato per ricevere quello che gli spetta e poi essere etichettato come uno che non ha voglia di lavorare?”, conclude.
22.12.21
Da fattorini a rider SO-DEIl delivery etico è possibile?

Il dibattito sul delivery dura da tempo. Gli ingredienti della miscela che compongono questo servizio la rendono, da sempre, potenzialmente esplosiva, ne abbiamo scritto più volte anche su queste pagine. É un servizio che, già prima della pandemia che l’ha reso spesso imprescindibile, era amato e conosciuto dai clienti, che ne facevano ricorso per comodità, perché poco abili in cucina, o per concedersi qualche piccolo lusso senza uscire di casa, perché soli, per convivere con ritmi lavorativi stringenti. Dunque, la domanda dei consumatori si può considerare il primo ingrediente ormai ineluttabile. Il secondo è l’offerta e non è una novità, infatti, già nell’era analogica, ossia prima dell’avvento delle piattaforme di delivery digitali, si poteva alzare la cornetta e chiamare un esercizio pubblico, il più delle volte una pizzeria di quartiere, e farsi recapitare a casa una pizza da un fattorino dello stesso locale. Fattore, dunque, da registrare come positivo dal momento che, non solo aumenta i ricavi e i margini dell’impresa, ma permette di garantire posti di lavoro. Terzo ingrediente, emerso, appunto, con la nascita delle società di delivery, terze rispetto ai servizi di consegna svolti in proprio da dipendenti dei ristoranti, è lo sviluppo esponenziale delle possibilità che questa nuova modalità offre, sia ai ristoratori sia ai clienti. I primi possono approfittare di un servizio a costi variabili, aumentando, così, la propria offerta senza incidere sui costi fissi. I secondi possono allargare a tutto il territorio cittadino la varietà di ristoranti e cucine dove ordinare un pasto. Già su questo ingrediente, però, qualche naso che si storce da parte dei ristoratori ci sarebbe, infatti, nel breve tempo in cui questi servizi hanno preso piede, le società che gestiscono i cosiddetti rider, che prima, nella fase ancora autarchica del servizio, si chiamavano fattorini, hanno gradualmente, ma inesorabilmente, aumentato i propri margini di guadagno, con punte di sgradevole speculazione nel periodo che stiamo vivendo, quando le frequenti situazioni di quarantena che i vari decreti governativi o regionali impongono, hanno aumentano a dismisura la domanda. Alcuni ristoratori, vedendo diminuire al limite della convenienza in propri margini, si stanno ribellando e stanno pensando ad alternative per la consegna . L’ingrediente, però, forse più dibattuto e che agita le coscienze di molti, è l’attività dell’ultimo anello di questa catena, che, non a caso, definiamo così, perché, nello sfruttamento di cui i rider sono vittime, si rivedono alcuni dei comportamenti eticamente inaccettabili che, in piena rivoluzione industriale, prima che dell’introduzione delle tutele minime per la dignità di ciascun lavoratore, erano proprie della catena di montaggio di un qualsiasi reparto di una fabbrica.Il dibattito è aperto da tempo perché sul piatto della bilancia ci stanno due fattori di cui è difficile capire l’equilibrio: da una parte, innegabilmente, quello del rider è un lavoro, tuttavia, a oggi, la dignità di questo lavoro è ben al di sotto della soglia di tolleranza, così molti clienti vivono nel dilemma, contrastante e lacerante, di essere parte di un sistema che, al contempo, ripaga e sfrutta il lavoratore. Come uscirne ? Tra i primi a sottolinearne le storture, nonché i rischi per la salute e la sicurezza personale dei lavoratori delle piattaforme di Food Delivery, furono gli ideatori del gruppo di opinione chiamato “DOOF, l’altra faccia del food”, un team di persone esperte del settore ristorazione guidati da Valerio Massimo Visintin, critico gastronomico del Corriere della Sera, che, in diversi convegni di settore, affrontarono l’argomento cercando di ipotizzare una soluzione che garantisse tutti i soggetti coinvolti, a partire dai lavoratori, pagati il giusto e tutelati nei propri diritti essenziali, ai ristoratori e agli intermediari beneficiati di un equo guadagno, fino ai clienti rassicurati di svolgere la propria parte senza essere e, soprattutto, sentirsi complici di un’ingiustizia. In questo contesto si arrivò a coniare il termine DOOF Delivery, quasi a voler ribaltare, con l’uso delle parole, i termini della questione, trovando, finalmente, una soluzione etica che potesse rispondere a tutti i dilemmi esposti e annullare il carico esplosivo della miscela degli ingredienti, trasformandola in un vantaggio positivo per tutti i protagonisti. Un servizio, ipotizzarono allora Visintin, Samanta Cornaviera e il sottoscritto, che avesse anche un côté solidale, magari impiegando personale che avesse perso l’impiego o che, comunque, per un qualsiasi motivo, si trovasse in difficoltà economica. Sono passati alcuni anni e la pandemia, avendo fatto esplodere il mercato del delivery – oggi non più solo legato al cibo – se da una parte ha estremizzato le situazioni già al limite della sopportazione generando proteste e accentuando ingiustizie, dall’altra ha permesso che la creatività e la lungimiranza di alcune istituzioni stimolassero la nascita di qualcosa che a quel servizio di Doof Delivery immaginato a tavolino assomigliasse. In questi giorni il Comune di Milano ha selezionato alcuni progetti dal bando del Crowfundig Civico, una nuova modalità, messa a punto per finanziare progetti sociali e culturali nei quartieri dove il Comune, gli enti non profit e i cittadini uniscono le forze per migliorare la città. In pratica, attraverso la piattaforma “Produzioni dal basso”, chiunque può contribuire sostenendo i diversi progetti accolti. Ogni realtà selezionata ha 60 giorni per raccogliere una parte delle risorse (il 40%) attraverso piccole donazioni dei cittadini. Il Comune finanzierà il resto dei costi (il 60%) con un contributo a fondo perduto fino a 60.000 Euro. Tra questi progetti uno è proprio dedicato alla consegna a domicilio; nasce a Dergano, un quartiere della periferia nord di Milano, un luogo che ha dimostrato in questi anni grande fermento e sensibilità, promuovendo realtà come le social street o associazioni che hanno avuto come scopo creare uno spirito di comunità e solidarietà che, guarda caso, proprio durante i periodi di quarantena pubblica forzata, ha contribuito a fornire servizi essenziali a tutti i cittadini, in particolare quelli più fragili alleviando i tanti disagi vissuti. In questo contesto virtuoso è nata SO-DE (Social, Solidale, Sostenibile – DElivery), non tanto lontano da quel Doof Delivery, ma, giustamente adeguato a tutti i servizi che questa neonata attività vuol fornire, partendo dalla consegna di cibo, fino a libri, piante, abbigliamento, insomma qualsiasi cosa trasportabile, ma non solo, anche una rappresentazione teatrale mobile. Non è, però, importante ciò che si offre, anche se dare lavoro anche ad artisti, colpiti duramente dallo stop di questi mesi, vale molto; è fondamentale, invece, l’aspetto legato alle tutele dei lavoratori che beneficeranno di un contratto di lavoro subordinato vero, con tutte le tutele, corso di formazione compreso, finalizzato a gestire al meglio il proprio mestiere, imparando a fare piccole riparazione al mezzo di trasporto, a conoscere il codice della strada, a migliorare le proprie competenze in materia di relazioni interpersonali, nonché apprendere le basi delle norme sulla sicurezza del lavoro. Il progetto, inoltre, essendo immaginato per un quartiere, ha l’ambizione di far diventare questi “So-De-Rider”, selezionati, peraltro, nelle categorie più fragili, un persona di famiglia, un po’ come quei portieri dei grandi palazzi dei film americani che conoscono tutto degli abitanti e, spesso, nella narrazione cinematografica sono degli angeli custodi. Non c’è che augurarsi che questa scintilla alimenti un fuoco rigoglioso e spinga anche le multinazionali del delivery a rivedere le proprie pratiche, magari capendo che l’etica col tempo le farà guadagnare di più, cancellando i sensi di colpa che attanagliano ristoranti e clienti.
12.3.13
"Meglio la escort che le avances del capo almeno la mia umiliazione è ben pagata"

8.9.09
In mutande e in pantaloni



27.5.09
Pacchetto sicurezza
Avevo condiviso questa canzone con gli amici di Facebook, qualche giorno fa. E ieri, la notizia, l'ennesima, maledetta, intollerabile: non in Puglia, ma in un'altra Africa, cioè la Sardegna: Saras. E Saras si aggiunge alla Torino della Thyssen Krupp, alla Milano del ferroviere cinquantenne, alla terra desolata di Michele e i suoi compagni (fratelli). All'Italia. Quest'Italia, del 2009.
L'Italia in cui la generazione bruciata dei 40-50enni barcolla senza un lavoro fisso. Dove, anzi (dati Istat di ieri), i disoccupati hanno superato gli occupati. Ma occupati, questi ultimi, come, in quale misura?
C'è chi dalla crisi nera, dalle morti nere come la pece, trae immensi profitti. Si crepa per 900 euro al mese perché non esistono alternative. E i padroni sono tornati a sfoggiare il cilindro. Si schiatta perché, dalla crisi, il capitale speculativo trae nuova linfa vitale. Per questo Giorgio Schultze propone una co-gestione dei lavoratori agli utili dell'azienda. Perché la crisi del capitalismo, da noi non voluta, non vogliamo risolverla col nostro sangue.
Non è più solo dolore, il dolore non serve a nessuno. Non in un mondo di pescicani, dove le anime gentili possono solo soccombere. Sale la rabbia. Nessuna pace, no, nessuna pace senza giustizia. E vorremmo il sorriso, la leggerezza, la voglia di scherzare, di librarci in quel bello aereo che, unico, ci contraddistingue dalla bestialità. E ce lo strappano, con gli adunchi inesorabili artigli.
Immagini dal film Come un uomo sulla terra, sui "respingimenti" dei clandestini.
"Turista tu resta coi sandali, non fare scandali se siamo ingrati e ci siamo dimenticati d'essere figli di emigrati", prosegue il cantautore pugliese. Già. Lungi da me il buonismo, per carità; so che è disperatamente fuori moda, adesso risulta "in" il cattivismo, benché nessuno ricordi (popolo di smemorati, il nostro) che non è altro che la versione riveduta e corretta dell'antico, e clownesco, "facite 'a faccia feroce". Sì certo so che il clandestino può delinquere ecc. ecc. (specie se non gli si concede alcuna possibilità di regolarizzarsi), ma davvero credete che un barcone di disgraziati sia per noi più pericoloso di una fabbrica non in regola con le elementari norme di sicurezza?
Ma di questo nessuno parla, nessuno ne conia nefandi e urlati slogan elettorali. Per forza! I "padron dalli belli braghi bianchi" vanno tenuti buoni, agevolati, adulati, sollazzati. E quanto si sollazzano, in questo periodo! Su, passa dall'Italia, passa a miglior vita.
27.3.09
Vrindavan, in India, la città-lager delle vedove bambine....
Nella CASA DELLE VEDOVE, le più coraggiose vi arrivano da sole, sognando di raggiungere il paradiso dove saranno liberate dal ciclo della morte e della rincarnazione.
Ma la maggior parte viene accompagnata, o meglio «scaricata» a sua insaputa, dalla famiglia del marito, ormai defunto.
Con lui del resto hanno perso tutto, persino il cognome da sposate.
Eppure a portare a Vrindavan migliaia di donne ogni anno non è tanto la fede, ma la disperazione. Questa cittadina dell' Uttar Pradesh, 150 chilometri a sud-est di Nuova Delhi, da 500 anni è un rifugio per le donne spogliate di tutto che qui vivono, se va bene, di elemosine e offerte.
Un lungo purgatorio in terra, un viaggio senza ritorno verso l' oblio: a casa non arriverà neanche la notizia della loro morte.
Vrindavan, una città santa quasi tutta per loro: su 56 mila anime, quasi 15 mila sono vedove.
Un abitante su quattro.
Cinquemila in più rispetto a dieci anni fa.
A lanciare l' allarme è il rapporto del Fondo di sviluppo dell' Onu per le donne e Guild of Service, organizzazione umanitaria laica indiana.
Rifiutate dalle famiglie d' origine, diventate un peso per quella del marito, praticamente impossibilitate a risposarsi, le vedove si ritrovano a vagare come fantasmi tra i templi per guadagnarsi da vivere: tre rupie (6 centesimi di euro) e una ciotola di riso per 4 ore di canti e preghiere al giorno. È anche per questo che Vrindavan è segnalata dalle guide: le donne avvolte nei loro sari bianchi, che mendicano nelle strade polverose e cantano «hare Krishna» nei 5 mila templi della città, sono diventate senza volerlo delle attrazioni.
Molte sono giovanissime, andate in sposa da bambine a uomini più vecchi con il culto (diffuso) delle vergini: una bocca da sfamare in meno in casa.
A Vrindavan 2 su 5 sono convolate a nozze prima dei 12 anni e quasi una su tre è rimasta vedova prima dei 24.
Del resto si stima che nel Subcontinente 1 indiana su 4 convoli a nozze prima dei 18 anni previsti dalla legge e che quasi 1 su 5 prenda marito sotto i 10.
Rimaste sole, un tempo le bruciavano sulla stessa pira dell' uomo.
Ora, almeno, vivono. Rifugiate negli ashram. Dove però soprattutto se giovani vengono sfruttate sessualmente da chi dovrebbe proteggerle.
Della città delle vedove parla un film:
“Water, il coraggio d’amare” per la regia di Deepa Mehta.
Patrocinato da Amnesty International e inserito nella campagna di sensibilizzazione "Mai più violenze sulle donne" .
La pellicola è stata e candidata all'Oscar 2007. Water. Il coraggio di amare è un film toccante e con una messa in scena accurata e coinvolgente. Un film che si colloca nella tradizione del miglior cinema di impegno civile.
India, 1938: Chuyia è una bambina di otto anni, con lo sguardo, la spontaneità, la voglia di giocare di qualsiasi coetanea, solo che lei è diversa:
è una baby-sposa, a cui, per colmo di sfortuna, muore il marito.
Così, come prescrivono i rigidissimi rituali religiosi indù, la piccola è costretta a lasciare la famiglia e l'adorata mamma, per essere segregata in una "Casa delle vedove":
una sorta di lager dove - tra amicizie, umanità dolente, prostituzione occulta, divieti di ogni genere - finirà, dopo l'ennesimo trauma, per perdere definitivamente l'innocenza e tutta la luce che aveva negli occhi.
La denuncia della regista si fa aspra e inflessibile:
la vedovanza che impone alle donne indiane di allontanarsi dal resto della società, le trasforma in fantasmi abbandonati da tutti, riunite dalle lacrime per una vita passata, spesso infelice, ma sicuramente più libera.
L'arrivo nella casa delle vedove di una piccola bambina mescola destini e scatena passioni, sentimenti di tenerezza e desideri appropriativi.
Film-denuncia e set bruciato…
Lavoro osteggiato dalle autorità bengalesi e preso di mira dai fondamentalisti indù che distrussero il set e minacciarono di morte la Metha e le attrici.
Il governo interruppe la produzione per questioni di pubblica sicurezza e dopo 4 anni le riprese ripartirono in Sri Lanka segretamente.
emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello
Apro l'email e tovo queste "lettere " di alcuni haters \odiatori , tralasciando gli insulti e le solite litanie ...

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