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13.9.25

Dopo 25 anni abbiamo sepolto Fabrizio De André sotto una glassa buonista


rimettendo ordine fra la mia cronologia web ho ritrovato questo articolo che pur vecchio
cronologicamente di 8 mesi non perde la sua attualità e la sua freschezza . Utile a spiegare meglio il perchè  odio  la  santificazione  di  De  andrè  pur  citandolo e  parafrasando le sue canzoni


  da https://www.editorialedomani.it/idee/ 10 gennaio 2024 • 19:15 Aggiornato, 11 gennaio 2024 • 11:36

                 Teresa Marchesi ⋇




"Il cantautore genovese è morto l’11 gennaio del 1999. È improbabile che nelle veglie celebrative risuonino i versi a cui Faber, con la sua ... Scopri di più!","articleBody":"La canzone di Marinella «era roba da addormentarsi sul divano». Parole testuali di Fabrizio De André, tra le chiacchiere ondivaghe di certi pomeriggi sulla metà degli anni ‘90. Inesorabilmente, Marinella furoreggerà tra le schitarrate rituali, collettive e nostalgiche, che di norma celebrano tutti gli anniversari da quel lontano 1999. Cantata da Mina nel 1967, era stata il grimaldello per conquistare le grandi platee, per cominciare a vedere «due palanche» dalla Siae uscendo da un culto di nicchia: turning point, certo, ma sul piano commerciale, non sul piano creativo. Fabrizio l’aveva scritta nel 1962, sul ricordo di un trafiletto di nera che da ragazzo lo aveva folgorato. Non racconto niente di nuovo: era una storiaccia di femminicidio, disprezzo e miseria, una povera prostituta scaraventata a morire nel Tanaro o forse nella Bormida. Ma ad ascoltarla senza saperlo sembrava una fiaba: aveva i numeri giusti per una hit. Lui sessant’anni non ha fatto in tempo a compierli, se n’è andato l’11 gennaio di venticinque anni fa. Icona sciroppata Mi piacerebbe poter dire, come Fabrizio De André, che «quello che non ho è quel che non mi manca». Mi manca invece, dolorosamente, la capacità di questo paese di non seppellire i suoi artisti e i suoi intellettuali più liberi sotto una stomachevole coltre di glassa buonista. La sbrigativa etichetta “poeta” è comodamente ecumenica, autorizza la retorica, smussa gli spigoli, dissocia un uomo dalle sue idee e dalle sue passioni politiche. È buona per il palato di Matteo Salvini, che di De André si proclama fan. L’icona sciroppata, edulcorata artificialmente, diventa inoffensiva. È improbabile che tra i canti delle veglie celebrative risuonino i versi a cui Faber, con la sua passione politica forte, precoce e tenace, teneva di più. In questo quarto di secolo ho visto spuntare legioni di amici intimi a posteriori. Si sono moltiplicati a valanga, un po’ come i conigli in Australia. Perciò preferisco lasciare che parli lui. «Non è da oggi che mi sono schierato – mi diceva Fabrizio nell’anno di grazia 1990 – Non pretendo che qualcuno conosca la mia vita né tantomeno i miei atteggiamenti politico-sociali, ma è dal 1957 (avevo 17 anni allora), da quando frequentavo i circoli libertari di Genova e Carrara, che mi sono schierato in maniera precisa. E da allora non ho mai trovato nessuno schieramento che da un punto di vista sociale e morale mi garantisse qualcosa di meglio». [Missing Caption][Missing Credit] Georges Brassens Credo davvero che a legarci sia stata quella comune, insolita ma decisiva bussola politica che ci aveva plasmato la testa da ragazzini: tale Georges Brassens, un altro anarchico. Brassens e Léo Ferré, quello di Ni Dieu ni Maitre e di Les Anarchistes. Non erano canzoni, era una scelta di parte e di sguardo sul mondo. «Non sono sicuro che se non avessi ascoltato le sue canzoni non avrei scritto quello che ho scritto – mi diceva – sono invece sicurissimo che se non avessi ascoltato Brassens non avrei vissuto acome ho vissuto». Quando è morto Ferré ci siamo consolati a vicenda. Non c’era verso di chiacchierare con Fabrizio senza scivolare subito sull’attualità politica e sociale. Quando cantava «anche se voi vi sentite assolti / siete per sempre coinvolti» non parlava in astratto. «Preferisco, sono più portato ad aprire i cancelli alle tigri che non a cavalcarle – mi diceva – Questo vuol dire, metaforicamente, aver dato un input, laddove una canzone lo può dare, a una determinata classe sociale, a ribellarsi a determinate vessazioni, ad andare in piazza a rivendicare i propri diritti. Nel momento stesso in cui le tigri sono uscite dalle gabbie, non mi sento adatto a cavalcarle, anche perché avrei idiosincrasie sia di comando (non saprei dove condurle), sia di obbedienza: non saprei esattamente dove essere condotto». La sua natura Non se l’è mai tirata da “impegnato”. Era la sua natura, punto e basta. Sarebbe bello che nelle veglie collettive dell’11 gennaio qualcuno ricordasse il testo de La ballata del Michè, la prima canzone che ha scritto. «Il Michè – mi ha spiegato una volta – era un immigrato del sud a Genova, un certo Michele Aiello. Erano periodi in cui a rubare un tacchino rischiavi anni di galera. E di solito il tacchino lo si rubava per mangiare, non per rivenderlo. Questo Michele Aiello aveva fatto qualcosa di peggio. Sentendosi emarginato, messo fuori dalla società in cui era approdato, aveva un’unica cosa, una donna, cui appigliarsi. E qualcuno forse più ricco di lui aveva cercato di portagliela via». Il De André cantastorie nasce con quel valzer struggente e con quel personaggio, il capostipite dei suoi eroi diseredati. «Era un tipico esemplare di quella non-classe che si chiamava, e credo si chiami ancora, sottoproletariato. Del sottoproletariato non si occupava nessuno dei partiti tradizionali, anche perché erano fonti molto malsicure di voti. Ce ne occupavamo noi come movimento libertario e dopo, ma molto dopo, il partito radicale». Non puoi rimuovere quel pezzo di Faber senza snaturarlo. C’è quella parola, Anarchia, che esplode in un paio di brani, Se ti tagliassero a pezzetti e Amico fragile. Nel 1981, quando incise il primo dei due, i discografici avevano preteso una versione più mite: «Signora Libertà, signorina Fantasia». In concerto, la “signorina” ha sempre avuto il suo vero nome. Se non lo fai parlare, Fabrizio, puoi permetterti di imbalsamarlo secondo l’aria che tira. C’è un solo filmato in cui si racconta come cittadino del suo tempo, capace però di radiografare il presente e, molto spesso, il futuro. È stato offerto alla Rai, ma la risposta ufficiale è che gli spazi per i documentari nelle reti pubbliche sono stati falcidiati senza pietà. Meglio che la memoria dell’animale politico si estingua con le generazioni dei boomer, i nipotini si accontentino di canticchiare. Mi aveva chiamato al cellulare il 1° gennaio di quel 1999. Stavo salendo su un aereo. «A marzo ci troviamo tutti alle Terme dei papi», diceva. Ma so dove ritrovarlo, ogni volta che la sua assenza mi pesa troppo. Mi basta risentire la sua voce quando di se stesso dice, con l’umiltà che solo gli autentici saggi conquistano: «Quella che ho scelto io è un’attività che può fare chiunque. Credo che quasi tutti noi siamo degli artisti. Ma non abbiamo il tempo, le condizioni, le opportunità. È molto difficile che una persona che lavora otto ore al giorno al tornio vada a casa e si metta a cercare di comporre una canzone»."





Teresa Marchesi

Critica cinematografica e regista. Ha seguito per 27 anni come inviata speciale i grandi eventi di cinema e musica per il Tg3 Rai. Come regista ha diretto due documentari, Effedià - Sulla mia cattiva strada, su Fabrizio De André, presentato al Festival del Cinema di Roma e al Lincoln Center di New York, premiato con un Nastro d'Argento speciale, e Pivano Blues, su Fernanda Pivano. presentato in selezione ufficiale alla Mostra di Venezia e premiato come miglior film dalla Giuria del Biografilm Festival.

10.6.19

si può essere duri senza insultare e senza odio . Niente e nessuno ci potrà più separare ! di Mariella de Angelis




. Niente e nessuno ci potrà più separare ! 

All'ombra della Lanterna e sotto il Matitone
è stato a causa di una banale collisione
tra il mio motorino, guidato da nu’ malu guaglione
e la portiera di un Fiorino, bianco furgone
è stato solo il caso a riportarti tra le mie braccia
chè cercarti sarebbe stata una faticaccia
eri lì, sempre nello stesso quartiere, 
ma forse era troppo impegnato il brigadiere.
A ogni modo, mi chiama il vigile, sosia di Paolo Insinna
quando io già ero pronta per andare a ninna
-Signorina, c'è stato un sinistro in via Pietro Chiesa
venga presto, è arrivata l'ora della resa!
Mi precipito incredula in via di Francia
correndo veloce con le farfalle nella pancia
senza denuncia, trovando la moto un po’ malconcia:
ti avrà forse colto in pieno la mia invettiva
o il parabrezza l’hai rotto per la tua idiozia oggettiva?
Sai cosa ti dico? Non importa che hai danneggiato la scocca
Io sono qui sul mio mezzo che scrivo un’altra filastrocca
per dire a tutti che la fortuna gira a fasi alternate 
e dopo l’inverno arriva sempre l’estate!
Ma non voglio essere troppo buonista 
per cui scompari dalla mia vista o la prossima volta
altro che carabinieri, vado dritta da un camorrista!:)

4.3.19

GASPARE MELE Il poeta che a 107 anni continua a spedire i suoi versi nel futuro

chi lo dice    che   per  esssere poeti bisogna  essere  laureati   ?   la  storia   di  Gaspare Mele – per i compaesani “tziu Gasparru” – è nato il 29 aprile 1911 a Orotelli, dove vive tutt'ora. Ha lavorato fin da piccolo, in campagna. Ha vissuto l’esperienza della guerra e per un breve periodo è dovuto emigrare per cercare lavoro. Infine è stato
capocantiere in una ditta che si occupava di strade ed acquedotti. La poesia è una passione che lo accompagna da sempre e che gli ha permesso di raccontare in versi i temi fondamentali della vita: l’amore, l’amicizia, la solidarietà, il senso del divino, il rispetto per la natura.

 da  lamiaisola  inserto settimanale  della  nuovasardegna  del  2\3\2019







I misteri della mente, malgrado i ripetuti tentativi degli studiosi di scandagliarne gli abissi e lati più oscuri, rimangono tali. Ma sta forse anche qui l’aspetto più affascinante e ricco di sorprese che alimenta l’arcano. Per questo appare incredibile in un uomo di 107 anni, Gaspare Mele, di Orotelli, il connubio così duraturo con la poesia. E se tanti versi sono stati una certezza, una presenza continua mai venuta meno, colpisce profondamente, quasi fosse uno scherzo o un miracolo il suo ricordare una mattina al risveglio un’ottava cantata ben 90 anni prima con alcuni amici.
Insomma, in un’età dove

14.6.13

banditi ( o presunti tali ) senza tempo la storia di antonio bossu


dalla nuova sardegna del 27\5\2013


Le memorie in versi dell’ex detenuto

L’orgolese Antonio Bassu scontò un quarto di secolo per la strage di Monte Maore: a 91 anni ha deciso di scrivere un libro


ORGOSOLO Antonio Bassu?  ( foto  a  sinistra   )  Innocente. La vox populi non ha mai avuto dubbi, il paese sapeva e lui Graziato dal presidente della Repubblica Giovanni Leone nel 1974, l'ex carcerato affida ora al ritmo dei versi endecasillabi in ottava rima le sue memorie di miele amaro. Ci pensava da oltre trent'anni, ora non ha più dubbi: è giunta l'ora della narrazione poetica.A novantun anni suonati, la libertà per lui è sempre un cavallo veloce che non teme le discese ripide e salva il suo cavaliere intrepido. Lui, su cadderi (il fantino) di tante vàrdias paesane, è stato derubato di un quarto di secolo della sua esistenza: 25 anni meno 25 giorni. «Mi sarei dovuto presentare prima della strage di Monte Maore, ero latitante, accusato di reati minori – ricorda –. Non l'ho fatto perché il mio avvocato, il senatore orgolese Antonio Monni, in quel periodo era in vacanza in Svizzera». Nella sua casa del rione storico di Caspiri, zona di Monte Isoro, Antonio Bassu risponde volentieri alle domande.aveva le prove: 17 testimoni nuoresi in corte d'assise dissero a una voce che il giorno della strage di Monte Maore – tre carabinieri uccisi e un quarto reso cieco da una pallottola, il 13 agosto 1949, in una tragica rapina alla camionetta che trasportava le buste paga degli operai ogliastrini dell'Erlas – il pastore orgolese era con loro sull'Ortobene. Ma i giudici diedero ascolto soltanto al pm Francesco Coco: ergastolo, confermato in appello (con Coco pm anche nel giudizio di secondo grado) e in cassazione.
Quando è nata l'idea di domandare aiuto alle Muse?
«Nel 1982, quando lo Stato mi chiese il pagamento del vitto e dell'alloggio in carcere e un mio compaesano e coetaneo, Antonio Piras noto Pireddu che viveva a Bolotana, mi scrisse un sonetto consolatorio».
Le poesie parlano solo della vicenda giudiziaria?
«No, quando mai? Trattano della mia vita, dall'infanzia alla vecchiaia, con gli episodi più salienti. Del periodo in cui era ancora vivo mio padre: avevo quindici anni quando lui, reduce della grande guerra, morì prematuramente. Ci sono le stagioni vissute da servo pastore, a Nuoro e Orgosolo, e soltanto dopo le stagioni della mia disavventura nei penitenziari di Ventotene e di Porto Azzurro. Ma c'è anche dell'altro».
Cos'altro?
«Il mio paese, le corse dei cavalli, i murales, la decadenza».
Il degrado del villaggio natale?
«Sì, nell'attenuarsi progressivo della solidarietà e della comparsa di un malattia dello spirito. L'egoismo».
Come si vive il passaggio dalla libertà alla cella del carcere?
«Sei davanti a una scelta: reazione o rassegnazione. Se non reagisci sei perduto. Se a Lanusei stavo male, a Cagliari era molto peggio»
Perché peggio?
«In una cella teoricamente destinata a un solo prigioniero eravamo in tre, 24 ore su 24, tranne un'ora d'aria nei cunicoli, non ti dico in quali condizioni. Si doveva parlare a bassa voce, non mi potevo fare nemmancu una cantadedda, neppure una cantatina».
Cosa si prova a ripensarci?
«Non mi sembra vero di essere riuscito a sopportare tante privazioni».
Maltrattamenti?
«In tutta sincerità debbo dire: nessuno mi ha mai messo un dito addosso. Ma anch'io non ho mai mancato di rispetto a nessuno».
Nelle poesie degli ultimi anni due parole tornano più di altre: resurrezione e risorto...
«Sì, tornano. Istintivamente, è più forte di me. Stare in carcere è come essere morti e sepolti. La galera è una tomba. Venticinque anni là dentro hanno distrutto la mia giovinezza».
Di chi la colpa di questo dramma?
«Del sistema barbaro di una giustizia che riteneva delinquenti tutti gli orgolesi: forze dell'ordine e magistratura davano ascolto solo alle spie prezzolate, di mestiere».
Con qualche eccezione?
«Indubbiamente. Riconosco al famoso maresciallo Loddo un'onestà professionale al di sopra di ogni sospetto. Con me è stato corretto anche nella testimonianza davanti alla corte».
Assiste all'intervista Franco Buesca, un giovane pastore di Orgosolo che ha acquisito il merito di essere una sorta di enciclopedia vivente della storia del suo paese. 


Le sue parole sono lo specchio esatto del sentire comunitario: «L'ischimus totus, l'ischit sa vidda: tziu Antoni est innossente (lo sa il paese intero: lo “zio” Antonio è innocente)».Uno dei testi più emozionanti tra le poesie di Antonio Bassu riguarda la liberazione, dopo la grazia firmata dal presidente della Repubblica: 26 ottave, 208 versi. Eccone una parafrasi italiana compatibile.«Era il 28 agosto 1974. Alle otto del mattino mi avviai verso il camerone dove cucivo palloni per tornei di calcio: il mio lavoro, a Porto Azzurro. Ero triste, da innocente condannato alla segregazione perpetua».Poche ore prima Antonio aveva fatto un sogno: «Sul fare dell'alba sentii una voce che mi chiamava e subito dopo vidi una figura candida come neve, simpatica e sorridente. Mi disse due parole: buona libertà. Mi sedetti e iniziai a lavorare. Non era facile, i punti dovevano essere lineari. D'un tratto sentii alcuni che dicevano: è arrivato un foglio di scarcerazione. Si erano fatte le nove e continuai a lavorare».Ed ecco la sorpresa: «Venne da me un guardiano e mi disse di andare con lui dal direttore».Il responsabile del penitenziario attendeva il prigioniero con il capo delle guardie. «Mi salutarono contenti e mi annunciarono la grazia. Non riuscivo a parlare per l'emozione. Feci un cenno di ringraziamento e andai a prepararmi: mi tolsi la divisa interna e indossai un abito da libero cittadino».L'addio alla reclusione è uno dei punti più intensi: «E pro s'ùrtima 'orta torro in cella/ cun sa divisa de su galeoto:/ in presse mi preparo su fagoto,/ mi retiro sa cosa pius bella./ Dae su muru ch'ispico una foto/ chi fit lughente coment'e istella/ sa chi m'at fatu sempre cumpagnia,/ sa figura fit sa 'e mama mia» (Per l'ultima volta rientro nella mia cella e mi preparo in fretta il fagotto. Ritiro la cosa più bella: da una parete stacco una foto luminosa come una stella che mi aveva sempre fatto compagnia: il ritratto di mia madre».Arrivò l'ora di salutare i compagni di pena.«Erano gli uomini con i quali avevo diviso il dolore e l'angoscia in quel luogo oscuro dove non esiste l'allegria: chi sconta una pena è come un cane legato a catena. Mi avviai verso il portone che si spalancava alla libertà. Superato l'uscio, mi voltai e feci il segno della croce con la mano sinistra».Con Bassu c'era un guardiano che lo doveva accompagnare fino al porto, dov'era pronta un'imbarcazione. Il prigioniero iniziava a respirare l'aria inebriante della libertà.Ricorda ancora Antonio Bassu: «La traversata da un porto all'altro durò due ore. Mi sentivo come un risuscitato, dopo 25 anni in una cella buia di appena quattro metri quadrati. In quel tempo il carcere era duro, ancora esistevano i mezzi di tortura: letti di forza e fruste di tutti i tipi permessi dal codice Rocco che alla prigionia aggiungeva isolamento e segregazione».Sbarcato a Piombino, Antonio andò dritto alla stazione. Sul treno trovò posto accanto a un finestrino: «Avevo un desiderio insopprimibile di vedere le bellezze della natura, per dimenticare il passato: mi sembrava di essere entrato in una vita nuova, come un uccello che esce dall'uovo».Poi l'imbarco, l'arrivo in Sardegna, l'incontro con la figlia Mara. Ma la scena più commovente è l'abbraccio con la madre, a Orgosolo.«La ritrovai vecchia e sfinita ma sempre amorosa e sorridente. Mi disse: adesso che sei tornato tu, in casa è ritornata l'allegria. E poi, come in un sussurro: quando morirò andrò via contenta».



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 Il linguaggio del corpo da solo non basta a prevenire femminicidi o violenze, ma può essere un segnale precoce utile se integrato con educ...