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2.11.24

diario di bordo n 84 anno II Infermiera tenta il suicidio sui binari del treno, il macchinista scende e la salva: «Oggi è mio marito e il padre dei miei figli»., «Io, operaia da 30 anni nella fabbrica di cioccolato, qui ho conosciuto anche mio marito. Ora la nostra vita è appesa a un filo»., La perdita di un figlio e la speranza: «L’amore è più forte della morte».,


L'amore arriva quando meno te lo aspetti, si dice. E lo può confermare Charlotte, che ha conosciuto il suo futuro marito sui binari del treno, in un momento particolarmente difficile della sua vita. La donna, un'infermiera di 33 anni, quella mattina voleva togliersi la vita a causa di diversi problemi di salute

mentale, tra cui un disturbo da stress post traumatico. Ma il macchinista si è fermato, è sceso, si è avvicinato e si è inginocchiato di fronte a lei. Poi le ha detto il suo nome, e ha chiesto quello di lei. Una scena che sembra provenire direttamente da un film. L'uomo è riuscito a placare la sofferenza di Charlotte e l'ha aiutata a rialzarsi, in tutti i sensi.
Il salvataggio e il matrimonio
«Trova qualcuno che ti guardi così, quando non te ne accorgi», scrive Charlotte Lay nella didascalia di una delle foto che la ritraggono assieme al marito il giorno delle nozze. Il loro amore è iniziato in un giorno nefasto, quando la donna ha agito d'impulso e mentre si stava dirigendo al lavoro si è seduta sui binari del treno, in attesa di essere colpita.
Ma alla guida di quel treno c'era Dave Lay, che è sceso e le ha tenuto compagnia per circa mezz'ora, riuscendo a calmarla, a guadagnare la sua fiducia e a farla salire a bordo. L'ha salutata alla stazione di Skipton, dove l'attendeva la polizia. Il giorno dopo Charlotte ha cercato quell'uomo su Facebook per ringraziarlo di ciò che aveva fatto, e i due hanno iniziato a scambiarsi messaggi, quasi ogni giorno.
Poi c'è stato il primo incontro faccia a faccia per un caffè. Il resto è storia: dopo tre anni si sono sposati, quando Charlotte era incinta del primo figlio. Ce ne sono stati altri due, da allora. La conversazione di quel giorno, da quello che ricordo, era sulle nostre vite, nulla di che, ma abbastanza per farmi superare il momento di crisi - racconta la donna -. Non sentivo più la vita così pesante», dice al Daily Mail.

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«Quando sono entrata per la prima volta in stabilimento avevo appena 18 anni, ero una ragazzina. Ho vissuto più di 30 anni a stretto contatto con il cioccolato, prima nel reparto modellaggio poi nel reparto fabbricazione. Ora la mia vita è in un limbo». Rossella Criseo è tra quei 115 lavoratori e lavoratrici che
non riescono a immaginare il proprio futuro anche solo tra qualche mese. L’azienda per cui lavora, la multinazionale svizzera del cioccolato Barry Callebaut, ha deciso di chiudere lo stabilimento di Intra, Verbano Cusio Ossola. «Da un giorno all’altro - dice -. A settembre ci hanno comunicato che la fabbrica avrebbe chiuso nel primo trimestre 2025. Poi la proprietà ha accettato di prolungare lo stop alla produzione al 30 giugno».
Ora si tenta la strada della reindustrializzazione, anche se l'azienda ha escluso l'apertura a eventuali competitor interessati. «Se non verrà trovato un acquirente? Anche mio marito è un dipendente, ci siamo conosciuti in reparto. Il destino della nostra famiglia è appeso a un filo. I nostri colleghi si trovano nella stessa situazione: lontani dalla pensione, con mutui da pagare e figli da mantenere». Rossella Criseo, nella Rsu Cisl da tre anni, è entrata per la prima volta in stabilimento quando la proprietà era ancora del marchio Nestlé. Poi la chiusura nel 1999 e il salvataggio di Barry Callebaut, che ha permesso alla fabbrica di raggiungere i cento anni di produzione. «Un anniversario che avremmo festeggiato proprio quest’anno – dice -. Invece abbiamo davanti lo scenario più desolante possibile».
Criseo è cresciuta con il profumo di cioccolato sotto il naso, che ogni giorno avvolgeva lo stabilimento. «Lo si poteva percepire già fuori alla mattina, prima di entrare in azienda, soprattutto con il vento. Era un odore che caratterizzava il quartiere. Una realtà che potrebbe non esistere più, ennesima chiusura in un territorio che in passato, invece, aveva una vocazione industriale». Dopo l’incontro di ottobre al Ministero delle Imprese e del Made in Italy (in cui è stata delineata la strada della reindustrializzazione) lo stabilimento è ora nelle mani di Vertus, società incaricata da Barry Callebaut per trovare un nuovo acquirente. Giovedì 31 ottobre si è svolto l’incontro con la Regione Piemonte, dove il sindacato ha ribadito che sarebbe necessario aprire la possibilità di cessione a un competitor per facilitare il percorso di reindustrializzazione. Ci si aggiornerà nuovamente al prossimo tavolo, convocato per il 26 novembre.
Criseo, che ha partecipato ai comitati aziendali europei, racconta che l’intenzione di chiudere il sito di Intra non è mai stata manifestata: «La scorsa primavera abbiamo persino incontrato il direttore dell’area Sud Est Europa, Esteve Segura. Ci aveva rincuorato sul futuro di Intra. Nel 2024, oltretutto, abbiamo raggiunto volumi record chiudendo l’anno fiscale con oltre 67mila tonnellate». Cioccolato su cioccolato, quello liquido che nel reparto di Rossella Criseo si scarica dai serbatoi e si carica nelle cisterne per i clienti.
«Ci siamo sempre dati da fare, siamo stati disponibili a lavorare il sabato, la domenica, a fare le notti, a lavorare nei riposi compensativi. Siamo stati i primi in Italia a fare le “squadrette”, a lavorare 7 giorni su 7. E ora l’azienda ci ripaga così? Io, i miei colleghi e le mie colleghe, siamo delusi e non sappiamo cosa ne sarà di noi. Di spostarsi non se ne parla, e neanche di cambiare settore dopo oltre 30 anni di lavoro

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«Pensavo di andare veloce, il Vento mi ha condotto lentamente a stare seduto ad ascoltare i punti interrogativi che passeggiano in questa parte di vita». Tra i punti interrogativi di don Francesco Fiorillo, custode e responsabile della Fraternità Monastero San Magno di Fondi (Latina), c’è da tempo il dolore dei genitori che hanno perso un figlio. Ferite a cui questo sacerdote, “nuotatore controcorrente” come lui stesso si definisce, ha prestato attenzione ancora prima di entrare in seminario, quando aveva 18 anni, di fronte allo strazio dei genitori di un amico fulminato da una overdose di ecstasy. Da allora il pensiero di quella sofferenza che sconvolge e annienta l’ha sempre accompagnato e l’ha portato successivamente, quando è nato quel “porto di terra” che è la Fraternità di Fondi, a dare vita a un gruppo di genitori “orfani di figlio”. L’ha voluto chiamare Nain, la località poco lontano da Nazareth «dove la disperazione, il senso di abbandono, la ribellione verso Dio e l’umanità, vengono toccati e trasformati». Ma è davvero possibile accompagnare e dare sollievo al dolore di una mamma, di un papà che si sono visti portare via il figlio per una malattia, per un incidente stradale, per un suicidio (seconda causa di morte tra i ragazzi al di sotto dei 30 anni), per una overdose, oppure per una di quelle congiure di crudeltà che chiamiamo bullismo?
Papa Francesco, indicando come intenzione di preghiera per il mese di novembre il dolore dei genitori, ricorda che si tratta di un dolore «particolarmente intenso» e al di fuori di ogni logica umana, perché «vivere più a lungo del proprio figlio non è naturale». Siamo così impreparati a sopravvivere alla morte di un figlio che nemmeno il nostro dizionario ha una parola adatta per descrivere questa condizione di vita. «Pensateci: quando un coniuge perde l’altro, è un vedovo o una vedova. Un figlio che perde un genitore è un orfano o un’orfana. Esiste una parola per dirlo. Ma per un genitore che perde un figlio – osserva ancora il Papa nel videomessaggio – una parola non c’è. È un dolore così grande che non esiste nemmeno una parola». Bisogna inventarla, come don Fiorillo è stato costretto a inventare parole di senso di fronte alle domande impossibili dei genitori annichiliti dal dolore. Non perché quelle risposte abbiano un senso solido e definitivo – come si fa a dire che la morte di un figlio è “sensata” – ma perché, spiega, quelle domande vanno comunque fatte e, riflettendo insieme, «si spalancano nuovi orizzonti verso l’infinito, si rende più digeribile il futuro».
Vediamo allora alcune delle domande messe in fila dal custode della Fraternità di Fondi e ordinate in un libro, Funamboli. Genitori che camminano sul filo dell’oltre (Paoline, pagine 197, euro 16) che in una giornata come quella di oggi dedicata alla memoria dei nostri defunti, potrebbe diventare un viatico confortante per tante mamme e tanti papà. «Come posso vivere il dolore?», si chiedono i genitori del gruppo Nain. E don Francesco risponde che il dolore è come una ferita che non va coperta da un cerotto. Per rimarginarsi deve prendere aria. Ma il dolore non fa crescere? «Non l’ho mai creduto», risponde il sacerdote, «è l’amore che fa crescere, quello che riusciamo a versare nello squarcio del dolore». Ecco perché di fronte al dolore, anche a quello più atroce e assoluto, non bisogna scappare, bisogna stare, «accettare il silenzio della vita davanti alla prova», che poi per il credente significa «accettare il silenzio assordante di Dio durante le nostre sofferenze».
Ma ci sono altri atteggiamenti da imparare se si vuole convivere con il dolore senza che quell’artiglio implacabile afferri il nostro cuore e lo renda giorno dopo giorno indifferente alla vita, all’amore, al mondo. Può succedere, ma bisogna evitarlo. Sbagliato allora «lamentarsi e piangersi addosso», oppure «dare la colpa a qualcuno» per quello che è successo. E, ancora, nascondere il proprio stato d’animo, mascherare le ferite. Tutto sbagliato, anche nella sofferenza più lancinante che potrebbe indurre a scappare, a nascondersi, a evitare parole e contatti, dobbiamo parlare e condividere. «Penso a quanto ci faccia bene – riflette ancora don Fiorillo – lasciarci toccare dagli altri”»
Ma la domanda più atroce, quella che investe tutta la vita e che la può stravolgere, è per il credente sempre la stessa: «Dove eri, Dio? Tu che sei l’amore, come puoi far morire mia figlia? Se è vero che ci sei, perché hai permesso che accadesse?». Questioni da lasciare senza fiato, da ascoltare in silenzio, evitando di ripetere frasi che don Francesco definisce «bestemmie». Del tipo: «Dio strappa i fiori più belli per piantarli nel suo giardino, i vostri figli non vi appartengono, sono di Dio». Sbagliato. Sono parole che non confortano nessuno. Che dire allora, che fare? «Lasciare che le domande e l’incredulità e anche la rabbia verso Dio fluiscano, come un fiume, senza trattenerle». Perché Dio sente il dolore dei genitori diventati “orfani” di un figlio, di una figlia, «ha una immensa sensibilità, così grande da stare in silenzio per amore, anche quando noi vorremmo risposte».
La seconda parte del testo, quella dove strazio e conforto si mescolano e si confondano, ospita dodici testimonianze di genitori che raccontano il figlio che non c’è più. Sono mamme e papà che partecipano al gruppo di Nain e che in qualche modo, hanno saputo affrontare il dolore e hanno cercato ragioni, parole, contatti per non soccombere. Ma leggere quei ricordi vuol dire, soprattutto per un genitore, condividere e piangere con loro. Ma scoprire anche, inaspettatamente, che la speranza può rinascere insieme alla consapevolezza, come scrive Teresa, una mamma, «che vita e morte sono tutt’uno, che l’amore non conosce barriere ed è più forte della morte».

17.6.24

Fabio Franceschi, parla lo stampatore di Harry Potter: “La sua vera magia? Farmi viaggiare in Rolls-Royce e in elicottero”

 

© Oggi/Stefano Lorenzetto

© Oggi/Stefano Lorenzetto

Oltre che per la scoperta dell’America, gli italiani sono noti per averci importato il Parmigiano reggiano, la Nutella, il Martini, il Campari e molte altre delizie da mangiare e da bere. Il padovano Fabio Franceschi, 55 anni, è forse il primo a occuparsi del nutrimento per lo spirito: i libri. Secondo un documento d’epoca dell’US Census Bureau, nel 1900 vivevano negli Stati Uniti 484.703 nostri connazionali. Di costoro, 23.528 erano in Illinois e 66.655 in Pennsylvania. Il titolare della Grafica Veneta di Trebaseleghe si è avventurato sulle loro tracce in questi due Stati. In meno di tre anni, ha acquisito la Lake book manufacturing di Melrose Park, sobborgo di Chicago, e lo scorso 2 maggio la P.A. Hutchison di Mayfield, fondata nel 1911, specializzata in testi scolastici.
SFRUTTAMENTO DEL LAVORO, ARCHIVIATO – L’America fu anche all’origine della peggiore accusa che potesse essere rivolta a un imprenditore: sfruttamento del lavoro. Accadde a luglio del 2021 e al solo riparlarne Franceschi ci sta male, anche se poi se la vide archiviare dalla Procura: «Dovevo spedire grosse partite di libri negli Stati Uniti. Ci chiedevano di riceverli imballati in scatoloni. Non essendo attrezzato per questo genere di packaging, dovetti rivolgermi a una cooperativa, che ci inviò 8 pakistani. Lavoravano in fondo a un capannone lungo un chilometro. Che potevo saperne di ciò che combinavano o del fatto che i loro datori di lavoro li picchiavano per strada? Fu una tragedia scoprirlo. Ho giurato a me stesso: mai più contoterzisti in Grafica Veneta! Infatti gli 8 operai li ho assunti, insieme con altri 44 loro connazionali. Ho dipendenti di 34 etnie, 23 delle quali nella sola Trebaseleghe. Le sembro un razzista?». Leader nella stampa per i 70 principali editori al mondo, a cominciare dai tre colossi Penguin, Hachette e HarperCollins, 300 milioni di volumi sfornati ogni anno (la metà in Italia), unico in grado di consegnare un libro nel giro di sole 24 ore dal ricevimento del pdf e unico a poterlo fare in maniera sostenibile, grazie a un impianto carbon free che dispone di 100 mila metri quadrati di pannelli fotovoltaici sul tetto, Franceschi si occupa di cibo per la mente dopo aver sofferto fino ai 6 anni la scarsità di quello per il corpo.

CIBO PER IL CORPO E LA MENTE - «Pativo la fame», ammette ora che guida una Rolls-Royce Wraith e si sposta in elicottero. «Ma non mi sono mai considerato ricco: semplicemente un povero con i soldi, come diceva Gabriel García Márquez».

Era così indigente la sua famiglia? «Di più. Dire che eravamo poveri sarebbe un’esagerazione: non avevamo assolutamente nulla, il che è diverso. L’unico pasto vero era quello delle 18, quando mia madre poteva mettere in tavola solo i risi col late, riso bollito dentro il latte ben zuccherato. Tutte le sere risi col late, per anni. Me lo sogno ancora di notte. Nel negozio di alimentari del signor Coletto, detto Tórmena, la mamma mandava me, con un quadernetto. Dicevo al salumiere: segni, pagheremo a fine mese».

A che età cominciò a fare il tipografo? «A 4 anni. Mio padre Rino e mio zio Sergio mi davano le righe metalliche difettose uscite dalla loro linotype, quelle che presentavano una sbavatura. Io mi mettevo sotto il tavolo di cucina e le rifilavo con una spazzola di ferro. La compositrice sbuffava vapori tossici di piombo, antimonio e stagno per 18 ore al giorno. Era collocata in una stanzetta attigua alla camera dove dormivo accanto al letto dei miei genitori. Il frastuono provocato dalle matrici dei caratteri era la mia ninna nanna, visto che papà e zio lavoravano fino alle 2 di notte».

Come conseguì il successo? «Mio padre morì ad appena 42 anni. Qualche tempo dopo, la fiducia di una banca locale mi permise di rilevare con un mutuo la quota di mio zio nella stamperia. Fino ad allora il nostro bilancio era dipeso dal Bur, il Bollettino ufficiale della Regione Veneto, che però ci saldava le fatture con 6 mesi di ritardo. Decisi di buttarmi sui libri. Nessun editore ci apriva le porte. L’unica che rispose fu Sandra Mondani, responsabile tecnico del Saggiatore, la casa fondata nel 1958 da Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo. Mi diede da stampare 3 mila copie di Donna Lakota, la storia di Mary Crow Dog. Pur di prendere la commessa, le proposi un prezzo stracciatissimo.Lavorando 24 ore su 24, in 13 anni il fatturato aumentò del 19.262 per cento. Con il punto, non con la virgola: diciannovemila».

Non teme che il libro digitale vi spazzi via? «Nessuno al mondo è in grado di fare previsioni sensate. Navighiamo a vista. Un po’ di fastidio l’ebook ce lo dà, è pur sempre un concorrente, ma meno di quanto ci aspettassimo. Credo che non riuscirà mai a scalzare la carta stampata. Il libro tradizionale è un bene prezioso che completa la casa, conferendole tono e calore. Un volume si conserva, lo regali alle persone a cui tieni di più, resta in eredità ai tuoi cari».

Quanti nuovi libri producete in un anno? «Solo qui a Trebaseleghe stampiamo ogni giorno 60-70 titoli, con ben 27 rotative che inghiottono fino a 3 mila tonnellate di carta. Fanno 30 autotreni di libri in uscita dallo stabilimento. Con la saga di Harry Potter siamo arrivati finora a 1 miliardo di copie nelle 10 principali lingue, cinese escluso».

Ricordo che per il primo titolo di Joanne Kathleen Rowling vi furono imposte regole rigide. «Più che altro draconiane, le stesse di Life, il libro sul Papa edito da HarperCollins. La scrittrice inglese pretese clausole contrattuali con penali da milioni di euro, per impedire che uscisse qualche anticipazione tratta dai suoi romanzi. Ci furono imposti 18 agenti di sicurezza armati a sorvegliare la tipografia nell’arco delle 24 ore. I bancali con le copie fresche di stampa venivano cellofanati nella plastica nera, inmodo che le copertine non fossero visibili. Poi apponevamo i sigilli di piombo alle maniglie dei Tir che trasportavano i libri da Trebaseleghe al magazzino dell’editore Salani».

Tra Italia e Stati Uniti quanti dipendenti ha? «Siamo arrivati a 900. Me ne servirebbero subito altri 60 a Trebaseleghe, ma non riusciamo a trovare personale con un minimo di conoscenza della materia, da inserire nei nostri corsi formativi».

Per questo reclutò gli 8 lavoratori pakistani da cui scaturì l’indagine giudiziaria? «No, è che la Bm service era specializzata negli imballaggi. Peraltro si trattava di una realtà con più di 100 dipendenti, che ci era stata segnalata da altri importanti stampatori e lavorava per i principali editori. Ero totalmente all’oscuro dei metodi criminali di quell’azienda di Trento. Il pubblico ministero lo capì e chiese l’archiviazione. Venne concessa perché non c’erano prove a mio carico “circa la consapevolezza della situazione dei lavoratori stranieri”, ha scritto la Procura di Padova. Non lo dico io: lo riportò l’Ansa».

Ma la notizia non ha lasciato tracce nei giornali. «Qualche titolo solo su quelli veneti. Io non ho sfruttato, semmai sono stato truffato. Bm service incideva appena per lo 0,08 per cento nel bilancio del personale di Grafica Veneta. È risultato che uno degli 8 operai aveva lavorato nello stesso giorno 12 ore da noi e 12 ore da altri; un suo amico, rimasto qui meno di una settimana, chiedeva 100 mila euro di salari arretrati. Ringrazio la Cgil, che si è dimostrata collaborativa, e Manik Abdullah Atique, l’imam di Padova, che ha voluto invitarmi in moschea. Hanno compreso le mie ragioni».

Però il suo amministratore delegato Giorgio Bertan ha patteggiato. E lo stesso ha fatto Giampaolo Pinton, responsabile della sicurezza. «Nessuna condanna: solo una sanzione di 45 mila euro. Bertan è un ex boy scout, mite e altruista. Le accuse infamanti lo stavano portando all’esaurimento nervoso. Non sarebbe riuscito a sopportare l’iter giudiziario infinito per dimostrare la propria innocenza. Perciò i nostri avvocati hanno suggerito a lui e a Pinton la via breve del patteggiamento. Sono stato io a consigliare a entrambi di accettare. Mi faceva pena vederli affranti sulla graticola».

Non ha proprio nulla da rimproverarsi? «Non mi perdonerò mai d’essermi preso in casa personale mandato da un’azienda esterna. Ma credo di avere espiato. I giornali mi hanno dedicato 305 pagine facendomi passare per uno sfruttatore. Oltre al danno reputazionale, ho visto sfumare negli Usa commesse per 100 milioni di dollari. Grafica Veneta è un’azienda seria, non ha turn over. Chi viene assunto, non se ne va più. Tant’è che uno degli 8 pakistani oggi è responsabile del magazzino e un altro della movimentazione».

Chi le ha dato conforto durante questa odissea? «Mia moglie Fiorella Masiero, che ho sposato nel 1990, e i nostri figli Nicola, Alberto e Gianmarco. La famiglia mi ha assistito in un dramma ben peggiore. È un vero miracolo che sia qui a parlarne».

A quale dramma si riferisce? «A una patologia chiamata Cfs leak, acronimo di cerebrospinal fluid spinal leak, rara malformazione congenita che provoca la perdita di liquido cerebrospinale. Scoprii per caso di esserne affetto da una Tac eseguita nel 2014 per una sinusite. Mi ha salvatoWouter Schievink, neurochirurgo olandese emigrato al Cedars Sinai medical center di Los Angeles. Mi ha sottoposto a 7 interventi. Il quarto è durato oltre 12 ore, con un’équipe di 20 persone. Mi hanno aperto dalla nuca all’osso sacro. Ho passato ore e ore in risonanza magnetica: non riuscivano a trovare i buchi dai quali il liquor cerebrale collassava nella colonna vertebrale. Appena guarito, mentre cominciavo a riprendere un po’ le forze, mi è piombata sulla testa la tegola giudiziaria».

Che cosa le ha insegnato la terribile esperienza? «Mi ha cambiato l’orizzonte. La Cfs leak m’impediva di fare anche solo 100 metri a piedi. Dà depressione, induce istinti suicidari. È come avere un chiodo piantato nello sterno. Ti chiedi: perché devo restare al mondo? Non vedi più la luce».

E invece l’ha rivista. «Su mio invito, Schievink è venuto a Padova a insegnare le sue tecniche ai colleghi italiani. Ora sono già più di 60 i miei conterranei, che soffrivano della stessa sindrome, salvati con questo intervento chirurgico. La malattia e l’inchiesta giudiziaria mi hanno spronato a guardare avanti. Grazie a Dio viviamo di futuro, non di passato».

Stefano Lorenzetto

26.7.23

Da licenziati diventano soci titolari e ora ripartono con la seconda sfida . Dopo un fallimento quattro ex dipendenti rilevano il market e lo portano al successo Super Dis a Predda Niedda (Sassari) si affilia al gruppo Frongia di Oristano

  da  la nuova  sardegna  del   26\7\2023

Lo vedi dagli sguardi, dai sorrisi, dalle battute. Lo intuisci dal cercarsi sempre l’uno con l’altro. C’è amicizia, complicità, c’è una storia creata e vissuta insieme, tra tempeste, paura di non farcela e pacche sulle spalle per darsi forza. È una squadra quella che si appresta ad affrontare una nuova avventura nel supermercato di Predda Niedda, circa 1000 metri quadri nella strada 2 a Sassari.  Si chiama ancora Super Dis  ma da giovedì 27 il suo nome  diventerà “Vicino a te”: entrerà a far parte della catena della famiglia Frongia di Oristano, di cui sarà il diciannovesimo punto vendita nell’isola.
Sarà un rapporto di affiliazione e collaborazione stretta, ma i proprietari del supermercato sassarese resteranno i quattro che lo hanno creato e portato avanti in questi anni, rilevando una attività in fallimento. Si chiamano





 Vittoria Bazzu, 57 anni, Gavino Poddighe, 45, Stefania Demuru, 40 e Stefano Chessa, 51. Amici, tutti con grande esperienza nel commercio, reduci da chiusure, trasferimenti, periodi di cassa integrazione e fallimenti dei vari marchi per i quali hanno lavorato come dipendenti. Sino a quando, a cavallo tra il 2014 e il 2015, hanno deciso di provare a farcela  da soli. «E siamo diventati soci proprietari – racconta Vittoria con gli occhi che brillano  dall’emozione – Poteva sembrare una follia e invece eccoci qua. Ci abbiamo creduto, non abbiamo mollato».Al punto che la loro società  già da tre anni è entrata nel Top 1000, cioé nell’elenco delle mille aziende che vantano i fatturati più alti in Sardegna: si chiama Vsgs, acronimo che sta per Vittoria, Stefania, Gavino e Stefano e il volume d’affari supera i 4 milioni di euro.La sfida nel 2015 Verso la fine del 2014, dopo varie vicissitudini e periodi altalenanti, arriva la parola più temuta: fallimento. «È stato un momento terribile – dice Vittoria – perdere il lavoro significa tornare al punto di partenza, rimettersi in gioco e sperare che qualcun altro ti assuma. Per me, che avevo già 48 anni, sapevo che sarebbe stato molto difficile perché la mia età non piace al mercato. Ma non potevo immaginare di smettere di lavorare e come me altri colleghi, chi con famiglia a carico, tutti con spese da affrontare. Ho pensato che potevamo unirci, costruire il futuro con le nostre mani». Aggiunge Gavino: «Quando Vittoria mi ha spiegato la sua idea, l’ho accolta con entusiasmo. Avevamo dalla nostra una grande esperienza e conoscenze tra i fornitori e anche una buona dose di intraprendenza. Ho
pensato che potesse essere per noi una opportunità di rivincita e ci siamo lanciati, con il pieno appoggio delle nostre famiglie». Anche Stefania, che già lavorava con Vittoria, e poi Stefano, per anni titolare di un market apprezzatissimo nel quartiere di Prunizzedda a Sassari, hanno detto sì a occhi chiusi. «Avevamo una caratteristica in comune – dice Vittoria – lo spirito imprenditoriale, la voglia di mettersi in gioco pienamente consapevoli dei rischi ma anche della possibilità di realizzare il nostro sogno. Qualcuno ci avrà preso per matti, ma tornando indietro rifaremmo tutto».Dal 2015 a oggi Per prima cosa i nuovi soci-titolari hanno rilevato i macchinari del precedente supermercato, hanno chiesto e ottenuto un sostegno dalle banche e con un capitale di circa 100mila euro sono partiti. «Super Dis è stato inaugurato nel 2015 – dicono Vittoria e Gavino – e nella fase iniziale non avevamo una grande scelta di prodotti perché i fornitori non erano tanti». E la concorrenza agguerritissima, in una città in cui apre un supermercato dopo l’altro, e la grande distribuzione alimentare è presente con tutti i più importanti marchi nazionali ed esteri. Per i quattro soci la ripartenza è stata dura ed in quei momenti è stato fondamentale restare uniti e tenere sempre a mente l’obiettivo. Il buio è durato qualche anno, poi tra il 2018 e il 2019 la ruota ha iniziato a girare nel verso giusto, sia per il Super Dis di Sassari sia per il punto vendita di Osilo, più piccolo e seguito prevalentemente da Stefania. Se già prima della pandemia Super Dis era riuscito a ritagliarsi uno spazio significativo nel mercato, nel 2020 l’arrivo del Covid ha fatto aumentare i clienti e lievitare i guadagni. Perché il negozio, con le sue dimensioni a misura d’uomo, appariva più rassicurante rispetto agli ipermercati. E anche perché proprio in quel periodo è stata arricchita l’offerta della gastronomia, con menu diversi ogni giorno e piatti preparati dal capochef. I dipendenti, inizialmente 8 a Sassari compresi i soci-lavoratori, sono diventati 20. Altri 7 invece operano nel negozio di Osilo. Vicino a te Da giovedì nuovo nome, ancora più prodotti sardi tra gli scaffali (con la linea Bobore creata dai Frongia), un’ampia sezione enoteca, più attenzione verso chi è affetto da intolleranze alimentari varie e sguardo aperto verso nuove cucine come quelle di Cina e Giappone. Ma la formula vincente, nell’area organizzata in maniera più circolare e avvolgente, non si cambia e i pezzi forti, come la macelleria e ovviamente la gastronomia, restano. Si ricomincia, e sarà la seconda sfida, dopo la prima vinta con onore e orgoglio

5.12.22

lavorare tu.tti lavorare meno MENO ORE DI LAVORO E STESSO STIPENDIO. IN SARDEGNA LE SOCIETÀ DEL GRUPPO “PROSSIMA ISOLA” RIDUCONO L’ORARIO SETTIMANALE: DA 40 A 35 ORE Si punta sulla produttività e sul benessere dei propri dipendenti

 

MENO ORE DI LAVORO E STESSO STIPENDIO. IN SARDEGNA LE SOCIETÀ DEL GRUPPO “PROSSIMA ISOLA” RIDUCONO L’ORARIO SETTIMANALE: DA 40 A 35 ORE

Si punta sulla produttività e sul benessere dei propri dipendenti

Meno ore di lavoro e stesso stipendio. In Sardegna le società del Gruppo “Prossima Isola” riducono l’orario settimanale: da 40 a 35 ore

Di: Redazione Sardegna Live


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Certi del fatto che lavorare meno porti vantaggi in termini di produttività e di benessere e che, al contrario, lavorare di più non sia sinonimo di maggiore rendimento, le società sarde del Gruppo “Prossima Isola” scelgono di diminuire l’orario di lavoro settimanale a parità di stipendio.

Il Gruppo, nato nel 2008, di cui fa parte anche “Mentefredda”, consolidato player del turismo digitale nel mercato nazionale, conta oltre 200 clienti tra alberghi, aeroporti e parchi divertimento.

Dal 1° dicembre le aziende hanno introdotto la riduzione della settimana lavorativa: 35 ore anziché 40, proprio come in Francia, mentre in tutta Italia sono ancora poche le aziende che hanno deciso di fare questa scelta.

Una scommessa, dunque, quella delle società Prossima Isola e Mentefredda, con sede ad Alghero e con poco meno di venti dipendenti, accolta ancora con più grande entusiasmo e consapevolezza da tutto il personale, ma che stimola di fatto anche gli stessi soci: “In Italia, secondo i dati Ocse, si lavora molto di più che nel resto d’Europa, ma ciò non corrisponde a una crescita dei livelli di produttività. Siamo convinti che maggior tempo libero e libertà possano favorire e dare maggior impulso alla costante crescita che registriamo di anno in anno”, affermano Marco Montalto, Marcello Orizi, Daniele Idini e Gabriele Del Curto.

Una decisione a cui ha dato una forte spinta la pandemia. “In questi ultimi anni – spiegano i quattro soci – rispetto a prima è cambiato il rapporto tra famiglia, lavoro e tempo libero ed è aumentata l’esigenza di raggiungere un sano equilibrio tra vita lavorativa e vita privata. E noi vogliamo tenere conto di questi aspetti così importanti -. Uno sbilanciamento tra le due componenti non fa altro che pregiudicare la salute, la soddisfazione personale e dunque la qualità del lavoro”.

“Partiamo da dicembre con l’introduzione della settimana lavorativa a 35 ore, lasciando ovviamente invariati stipendio e ferie. Siamo sicuri che questa scelta attiverà un circolo virtuoso capace di aumentare il nostro valore e l’appeal sul mercato, anche nell’ottica di attrarre un numero sempre più grande di nuovi talenti da inserire nel nostro organico”.

11.9.22

Ricomincia la scuola. Di Beatrice Gallus

 

Ricomincia la frenesia di un tempo che corre, tra troppi impegni e la fatica di stare al passo.Cosa augurare ai piccoli grandi allievi ? Di avere negli occhi la scintilla della curiosità. Di non inseguire il risultato ma comprendere l’importanza di ciò che si sta imparando. 

Di sentirsi in grado di affrontare le nuove sfide, consapevoli che sbagliando, provando e riprovando, si impara: se lo si sapesse già fare non si andrebbe a scuola. Di comprendere che un brutto voto è un’occasione di crescita, così come ogni insuccesso: si può imparare a fare meglio e si possono scoprire lacune e punti deboli su cui lavorare.

 Di essere consapevoli che si studia per apprendere, non per un voto in pagella, perché nella vita dovranno lavorare con le competenze acquisite, e sarà questo bagaglio a creare pensieri e a formare gli adulti che saranno. Non dei numeri.Di ricordarsi che la Storia è costellata di uomini e donne brillanti e di successo con pessimi percorsi scolastici: non sempre le capacità si manifestano a scuola. Spesso, come semini, stanno in attesa di un terreno più fertile che le accolga. Di avere accanto adulti capaci di amarli incondizionatamente, non per i risultati ottenuti ma per ciò che sono, e che gli stessi adulti curino l’ascolto, il rispetto, l’empatia, i valori, l’impegno, la coerenza e la costanza prima di tutto il resto. Da essi nascerà uno sguardo sul mondo e sul prossimo benevolo e rispettoso. Di avere insegnanti capaci di guardarli così come avrebbero voluto essere guardati. E che siano competenti tanto quanto appassionati della materia che insegnano. Buon anno scolastico a tutti


Beatrice Gallus

12.7.22

Lavoro e figli: un altro modo è possibile

    della newsletter  di repubblica   Scusi, Lei. 


Sono 500 fogli, uno sull’altro. Stampati tutti, con poche righe di descrizione o con lunghi racconti tutt’altro che burocratici. “Richieste di lavoro, certo, ma anche storie da condividere. E non è difficile: perché tante di quelle sensazioni le conosco bene”, Virginia Scirè in questi giorni non sa più come rispondere a tutti. A quei 500 curriculum arrivati in pochi giorni, a mail, messaggi, telefonate, dopo che aveva visto la stilista Elisabetta Franchi raccontare delle sue dipendenti “donne over 40 che possono lavorare h24 perché i figli sono grandi” e per questo aveva fatto un video su Instagram per dire che un altro modo è possibile.
Il team di WearMe, al centro Virginia Scirè 
 Senza immaginare cosa sarebbe successo. “Eppure se ci pensi quello che facciamo è la cosa più naturale del mondo: lavorare e crescere i nostri figli. Senza dover scegliere tra le due cose”. È una piccola imprenditrice di Castelfranco Veneto, due dipendenti più altre due che firmano in questi giorni e sei collaboratori – c’è anche un uomo, uno solo per ora – esterni che si occupano del marketing. E la sua azienda fa del lavoro agile una religione: orario di apertura dalle 9 alle 16, per avere il pomeriggio e la sera realmente liberi – “ma una di noi esce alle 15,30 perché l’asilo di suo figlio chiude alle 16, semplicemente al mattino arriva mezz’ora prima” – e fa niente se ci sono compratori che restano spiazzati, abituati a incontrare le aziende anche dopo le 18. La flessibilità è totale, si lavora sui progetti e non sul monte ore (che ovviamente però è scritto nei contratti), chi è nel periodo dell’allattamento può scegliere di lavorare da casa alcune ore e in ufficio altre. E quando le scuole erano chiuse e i bambini in Dad “li portavamo in ufficio: certo, quella giornata era sicuramente meno produttiva per noi, ma poi si recupera”. Della storia di Virginia Scirè, 43 anni, founder di WearMe – abbigliamento per portare i neonati, cioè non solo fasce e marsupi – ne ho letto sul profilo Instagram di Lia Quartapelle. Che è una deputata del Pd, ma è anche una (giovane) donna che mette in connessione altre donne. Nel post scrive: “Lia, devo portarti alcuni curriculum. Circa 500”. No, non è la storia di come si raccomandano delle persone a una politica. È la storia di Virginia Scirè, imprenditrice e fondatrice di WearMe. Ed è la storia di 500 mamme che vorrebbero lavorare in modo diverso. Virginia fonda WearMe quando si deve licenziare dall’azienda in cui lavorava perché si assentava troppo. Virginia doveva infatti lavorare e intanto prendersi cura di suo figlio, affetto da una malattia che richiedeva la presenza assidua della mamma in ospedale e durante le cure. A partire dalla sua vicenda, ha deciso che lavorare nella sua azienda sarebbe stato diverso: ha scelto di organizzare il lavoro secondo i tempi delle sue dipendenti, che sono tutte mamme, con orari di ingresso flessibili, la possibilità di smart working in base alle esigenze delle famiglie, e alle 16 si chiude. Dopo la vicenda di Elisabetta Franchi, il suo modo di lavorare, a misura di genitore, è stato raccontato da vari giornali e TV a dimostrazione che, per fortuna, non tutti gli imprenditori o le imprenditrici si comportano come Elisabetta Franchi. Con questo tam tam, più di 500 mamme hanno mandato a Wear me il loro curriculum. Sono mamme stanche, nervose, piene di senso di colpa, mamme che cercano di tenere tutto insieme e che “lavorano solo per lo stipendio”, ma che vorrebbero essere impiegate da aziende capaci di lavorare in modo flessibile, per risultati. Virginia mi ha consegnato simbolicamente i loro curriculum, che ho ricevuto come impegno a lavorare insieme per avere: il congedo di paternità obbligatorio; più servizi per la famiglia; più tempo pieno, per i bambini e anche per permettere alle mamme di lavorare. Costruire un’azienda che tenga conto delle persone e delle loro esigenze è possibile. Costruire intorno a queste aziende un paese che aiuta i genitori che lavorano non solo è necessario ma è anche giusto”.

Lia Quartapelle con Virginia Scirè
Lia Quartapelle con Virginia Scirè  

Virginia Scirè ha deciso di provare a costruire qualcosa intorno ai suoi ritmi quando questi sono cambiati. “Ho iniziato a lavorare in una società finanziaria a Castelfranco, poi nel 2008 è nato il mio primo figlio, che aveva dei problemi di salute e necessità di ricoveri. Ero ancora in maternità, avevo partorito da tre mesi quando la mia società mi ha comunicato che mi avrebbero trasferito a Verona, a 110 chilometri da casa”. Passa ancora qualche mese, la maternità finisce: “Ho capito che non sarebbe stato possibile conciliare quel lavoro con quelle condizioni e la mia vita ma non avevo alternativa: così mi sono dovuta licenziare. Ed è stata una rinuncia, non solo economica”. In quei mesi di maternità Virginia fa acquisti online per il suo bambino, e lì decide di provare ad aprire un negozio di abbigliamento per bambini su eBay, da lì passa a un sito di e-commerce e a un ufficio fisico “perché così non dovevo stare sempre a casa”, poi un piccolo capannone e i primi quattro dipendenti, “tra loro Tania, che è ancora con me”, fino alla seconda gravidanza, nel 2013. “Mia figlia non dormiva mai, se non quando la prendevo in braccia, di lavorare non se ne parlava. Fino a quando un’amica mi ha regalato una fascia: la svolta”. Il baby wearing diventa il suo lavoro, vende fasce e marsupi e, nel 2017 con una sorta di crowdfunding, riesce a produrre la prima giacca per portare i bambini, che adesso è uno dei punti di forza di WearMe. “Ma lavoravo tantissime ore, vedevo i miei figli al mattino e a sera tardi, mi sembrava di non fare bene l’imprenditrice, ma neanche la mamma”. In quel periodo Tania aveva avuto un bambino, “allora ho iniziato a riflettere su come impostare il nostro lavoro: in Germania tante aziende chiudono alle 16, chi mi impediva di fare lo stesso?”. Tania è stata la prima a sperimentare la flessibilità totale durante l’allattamento, e lo smart working per noi era una realtà prima della pandemia. Durante la seconda ondata, quando siamo tornati anche in ufficio, c’erano giorni in cui portavamo i bambini: loro erano in Dad, i nonni andavano protetti, la cosa migliore era quella”. Oggi WearMe ha triplicato il fatturato (dai 180mila del 2019 ai 610mila del 2021, quanto i primi sei mesi di quest’anno, è stata inserita nell’incubatore SocialFare come start up di impatto sociale e Virginia Scirè ha due dipendenti e sei collaboratori per il team marketing che lavorano in smart working, dalla Puglia e dalla Spagna. Tutte donne, tranne uno, e sono donne e madri anche le due nuove dipendenti che firmano in questi giorni. Madri come quelle che, dopo quel reel su Instagram, le hanno scritto: “Tante hanno perso il lavoro perché non potevano avere il part-time che serviva per la famiglia, hanno diverse professionalità, livelli di istruzione e storie. Tante altre lavorano ma con il costante affanno di vedere i figli solo quando tornano la sera di perdersi qualcosa”. Ma gli uomini esistono in questa storia? “Sì, ci sono, e ce ne sono molto presenti: ma se non ci sono servizi o nonni non bastano neanche loro. Infine: le madri e i padri dovrebbero avere entrambi la possibilità di crescere i figli

30.4.22

CONCERTO DI PIAZZA SAN GIOVANNI ROMA 1 Maggio dietro le quinte: gli aneddoti di chi lo organizza ma non è per le barracopoli il caso di Borgo Mezzanone vicino a Foggia, c’è una baraccopoli i


VITA DA BRACCIANTI

Buon 1º maggio,

(ma non per loro)

A Borgo Mezzanone, vicino a Foggia, c’è una baraccopoli in cui vivono 4 mila braccianti agricoli privi di tutto. Di posti così in Italia ce ne sono in 37 Comuni. Una condizione molto vicina alla schiavitù, che un gruppo di giovani filmaker ha raccontato in un film. Che però nessuno vuole

La speranza di una vita migliore può essere una trappola che la vita congela in un’attesa potenzialmente infinita. Almeno, è così che sembra andare a Borgo Mezzanone, ghetto (il nome giusto sarebbe “insediamento informale”) in provincia di Foggia, dove circa 4mila braccianti coltivano speranze nelle ore e nei giorni lasciati vuoti dai campi. A thing by, collettivo di ragazzi tra i 23 e i 28 anni, ci è entrato nel 2020 e ci ha vissuto per tre mesi spalmati su un anno, realizzando One day one day, racconto delle vite sospese di alcuni di quei 4 mila. Il regista è Olmo Parenti, il più “vecchio” del gruppo di filmaker,
che i soldi per il film li ha trovati girando i videoclip di Gabbani, Sfera e Basta e soprattutto Tananai, che firma le musiche del film. Da Sanremo a Borgo Mezzanone passando per George Floyd: «Nel 2020 ho visto un servizio sul ghetto a le Iene. Poco dopo, a Minneapolis hanno ucciso George Floyd e mentre ero in piazza a Milano a manifestare per lui mi sono detto: e per gli schiavi di casa mia cosa posso fare? Poco dopo eravamo a Borgo Mezzanone: non sembra Italia. 


Manca tutto, luce, acqua, diritti. Ma a colpire di più è l’immobilità sociale: non c’è redenzione, per quanto brutale il ghetto è l’unico posto che accoglie questi ragazzi

Ci siamo tornati nel corso di un anno per dare alle cose la possibilità di cambiare, invece abbiamo documentato fallimenti: ogni volta che i nostri “protagonisti” facevano un passo per migliorare la propria vita – affittare una casa, cercare un altro lavoro, aprire una
PostePay – trovavano un muro di gomma. La maggior parte di loro è arrivata in Italia tra il 2014 e il 2016, alcuni sono a Borgo Mezzanone da anni e senza possibilità di uscirne: non hanno il permesso di soggiorno, non possono andare in un altro Paese europeo  per gli accordi di Dublino, verrebbero rispediti in Italia, ndr), non vengono rimpatriati, come prevede la legge». Un limbo esistenziale, burocratico, legale, noto a tutti, da anni. George, Abu e gli altri intervistati, rispondono a ogni domanda sul futuro col mantra diventato il titolo del film: « One day, un giorno, le cose andranno meglio.Se lo ripetono per non impazzire all’idea di rimanere il tavolino su cui un intero Paese banchetta. Ma “un giorno” è anche la foglia di fico di un Paese che spera che il problema si risolva da sé. E invece, complice il cambiamento climatico, non potrà che peggiorare», dice   Olmo  Parenti.
Nel Pnrr, il Piano di Ripresa e Resilienza del programmaNext GenerationEu, ci sono circa200milioni di euro stanziati per lo smantellamento degli "insediamenti informali" sparsi in37Comuni italiani e la costruzione di insediamenti abitativi più umani. Per quello diBorgo Mezzanone, il più popoloso, lo stanziamento è di circa 50 milioni: «L’intervento rientra in un progetto di integrazione e regolarizzazione più ampio», dice Tatiana Esposito, Direttrice generale dell’immigrazione del ministero del Lavoro (foto), che dettaglia anche i tempi: «Entro marzo 2023 le amministrazioni locali devono presentarci il piano di intervento e, una volta che lo avremo approvato, avranno 2 anni per realizzarlo». C’è poi il problema della regolarizzazione dei braccianti che ci vivono: anche quando avranno una casa, come faranno coi documenti? «Abbiamo condotto una ricerca approfondita sulla composizione dei braccianti impiegati in agricoltura in Italia: la stragrande maggioranza di loro è composta da stranieri regolari». La quota di irregolari è però quella che popola i ghetti: «Per gli irregolari ci sono già due strumenti, poco utilizzati: l’art. 22 del Testo Unico sull’Immigrazione, che garantisce un permesso di soggiorno a chi collabora con la giustizia per contrastare lo sfruttamento; l’art. 18 dello stesso Testo, che assicura protezione e documenti anche a chi non denuncia, se vittima di tratta», spiega Espostito. È un limbo esistenziale e burocratico da cui non si può uscire. E che può solo peggiorare 

I migranti raccontati nel film provano a riscattarsi  in molti modi: c’è chi, dopo dieci ore nei campi, prova a imparare l’italiano, chi studia la frequenza con cui escono i numeri al Lotto per capire quali giocare: «Nel ghetto è successo che qualcuno vincesse. Io ne ho conosciuto uno che però con quei soldi ha perso il suo fragile equilibrio; ne ha mandati la metà nel suo Paese e l’altra metà l’ha bevuta e spesa in prostitute. È andato via di testa perché ha avuto la prova che il problema, qui dove manca tutto, non sono i soldi: per quanti ne potrai vincere, continuerai a non poter avere documenti, quindi una casa e un lavoro regolari», dice Parenti. È per questo che anche quando viene data loro la possibilità di lasciare il ghetto alla fine non lo fanno: «È un limboma anche una rete di protezione. A ottobre scorso, un neurochirurgo del policlinico di Bari mi ha telefonato perché Abu, uno dei ragazzi del film, era stato colpito con un’ascia alla testa e appena arrivato in ospedale aveva dato il mio numero. Sono sceso a Bari per aiutarlo con le denunce e gli ho proposto di tornare a Milano con me, per sottrarsi al ghetto. Mi ha detto di sì, poi ci ha ripensato: in quel posto non hai nulla ma quel posto è l’unica cosa che hai; lì ti senti al sicuro anche se ti piantano un’ascia in testa, perché lì le persone sono come te, non ti giudicano, parlano la tua lingua. È un’assurda comfort zone in cui c’è posto persino per la gratitudine: i ragazzi che ho conosciuto ci sono grati per averli salvati dalmare e in cambio di questo accettano di essere, come dicono loro, “cittadinidi serieC”. Qualcuno di loro lo ritiene persino giusto. Ma lo accettano finché possono coltivare la speranza di diventare almeno di serie B. Ed è lecito chiedersi se frustrare questa speranza non renda esplosive situazioni come quella di Borgo Mezzanone». Persino la storia di One day one day parla di lavoro: il collettivo di Parenti lo ha prodotto e girato, ma non ha trovato nessuno che volesse distribuirlo: «Così, via Instagram tramite Will Media, abbiamo lanciato la campagna Vietato ai maggiori. Il senso era: “gli adulti” non lo vogliono? E noi portiamo i filmnelle scuole che ne faranno richiesta, dai ragazzi». Le scuole che rispondono sono 500 in pochi giorni: «Siamo partiti allora per un tour di unmese che, da Foggia, ci ha portati in tutta Italia, toccando 52 scuole e facendo vedere il film a oltre 6.700 ragazzi. A quel punto, abbiamo fatto un altro passetto: abbiamo invitato i maggiorenni a firmare una “dichiarazione di interesse” nei confronti del film dicendo che a 5 mila richieste avremmo fatto in modo di far arrivare il film nelle sale. Ne sono arrivate più del doppio, quindi ora lo proietteremo nei cinema delle città da cui provengono quelle mail. E tramite cinema@ willmedia.it altre sale possono chiederci di averlo», dice Parenti. Che si è inventato la distribuzione popolare, fai da te, porta a porta e on demand.



Faldoni, proteste e multe: come nasce il concertone Dal 1989 a oggi è sinonimo di 1 Maggio. Pochi, però, conoscono le 'grane' che si celano dietro le quinte: gli aneddoti di chi lo organizza

di Camilla Romana Bruno

 


 
 Nel museo del lavoro tre chilometri di ricordi
                                Andrea Lattanzi

 

 I manifesti del 1 Maggio sono tra i documenti conservati nell'Archivio Storico del Lavoro di Sesto San Giovanni, che racconta le battaglie per i diritti in Italia.

21.2.22

Firenze: "Sei incinta? E che problema c'è? Ti assumo lo stesso", la reazione del datore di lavoro spiazza la candidata al posto

quanto è umano lei diceva un famoso comico ed la stessa cosa dico pure quando un imprenditore \ datore di lavoro si comporta cosi in questa situazione .Il fatto che storie come queste siano ancora una notizia dimostra quanto sia lungo il cammino da percorrere per sradicare le disuguaglianze di genere.

repubblica  21\2\2022



Federica Granai, 27 anni, ha scoperto lo stato di gravidanza


essere stata selezionata da VoipVoice. Lo ha confessato tremante al titolare ed è stata sorpresa dalla risposta. "Dovrebbe essere sempre così", dice l'imprenditore


Era rimasta senza lavoro a causa della pandemia e ha iniziato a cercarne uno nuovo. Quando ha trovato l'azienda giusta che ha deciso di assumerla ha scoperto di essere incinta e ha avuto paura che avrebbe perso per sempre quell'opportunità. E invece è andata in modo diverso, felicemente e inaspettatamente diverso.

Federica Granai ha 27 anni, vive a Santa Croce sull'Arno (Pisa) ed è originaria di Cerreto Guidi (Firenze). Per cinque anni è stata la responsabile del servizio clienti per un'azienda di luce e gas. A giugno 2020  per lei arriva la cassa integrazione. Si candida per il posto di customer care per VoipVoice, azienda di Montelupo Fiorentino (Firenze) che si occupa di telecomunicazioni e servizi informatici. Supera tutti gli ostacoli, dopo il colloquio iniziale ne segue un altro, poi tre prove pratiche e infine il colloquio con l'amministratore delegato e proprietario dell'azienda, Simone Terreni. Federica Granai supera tutte le prove e risulta essere la migliore tra i tanti candidati che ambivano a quel posto di lavoro.
Quando la responsabile della selezione delle risorse umane le comunica il periodo di prova, Granai chiede di poter parlare con Terreni. La voce tremante e lo sguardo
pieno di timore, la donna comunica al suo futuro capo: "Per correttezza, prima di cominciare, ti dico che sono incinta".  "E che problema c'è?" le risponde Terreni. "Mi ha spiazzato - dice la donna -. Ero quasi in lacrime, mi aspettavo di essere accompagnata alla porta d'uscita e invece lui mi ha aperto quella d'ingresso. Mi ha dato la possibilità di prendere anche la maternità facoltativa oltre a quella obbligatoria. Ho creduto che potessero scartarmi perché aspettavo un bambino". Federica aveva completato il corso di formazione che l'azienda prevede per i neo-assunti. Il suo primo giorno di lavoro era fissato per il 7 settembre. "Il 28 agosto ho scoperto di essere incinta. Mi è caduto il mondo addosso perché dopo che la vecchia azienda mi aveva messo in cassa integrazione e avevo saputo di aver superato il primo colloquio in VoipVoice, mi sono licenziata. Conosco storie di moltissime donne rifiutate perché madri, o per la loro volontà di esserlo in futuro. Ho creduto che mi chiedessero di tornare dopo il parto o peggio, che mi avrebbero esclusa. Così avrei perso anche la disoccupazione Naspi. Nel 2022 le donne sono costrette a scegliere tra carriera e famiglia. Siamo succubi del sistema, sembra che non possiamo ambire alla stessa vita che può fare un uomo" dice Federica Granai. "Invece sono rimasta sorpresa. Il primo febbraio sono tornata al lavoro, oggi il mio bimbo compie dieci mesi. Ho un orario di lavoro flessibile con alcuni giorni in smart working, che mi permette di conciliare lavoro e famiglia".

"È così che dovrebbe essere per tutti" commenta l'ad Simone Terreni. "La gravidanza per noi non è assolutamente un problema. Non chiediamo mai a una donna se ha figli o se ha intenzione di averli". Tutte le mattine Terreni scrive un post sui suoi canali social per parlare dell'azienda. La storia di Federica Granai su LinkedIn ha avuto due milioni di visualizzazioni. "Tante donne mi hanno raccontato di avere avuto un'esperienza negativa. Un uomo mi ha scritto 'Mia moglie la hanno assunta, ma è successo in Svezia'. Sono sinceramente stupito. Credo di aver toccato un nervo scoperto della nostra società". L'azienda di Montelupo Fiorentino attua una procedura di selezione del personale molto complessa, con diversi colloqui e prove tecniche. "Qualcuno ci critica per questo. Noi lavoriamo con GiovaniSì di Regione Toscana, una volta selezionato il personale facciamo un contratto di apprendistato per tre anni e poi il tempo indeterminato. Quando si trova la persona idonea a ricoprire il ruolo e investiamo su di lei, perché dovremmo privarcene? Soltanto perché per un periodo sarà in maternità? Qualcuno mi ha scritto che se si ha bisogno urgente di una figura professionale per l'azienda, il periodo di maternità può essere un ostacolo. Ma noi non dobbiamo tappare buchi all'improvviso, pianifichiamo. Per me come imprenditore è un motivo d'orgoglio che le persone che lavorano con me possano crescere e realizzarsi e fare un progetto di vita. Il lavoro è un patto e in quanto tale è anche etico, si basa su una scelta reciproca, non è sfruttamento. Inoltre la nostra è un'azienda informatica, per noi è fondamentale usare gli strumenti digitali. C'è lo smart working e ci sono i servizi in cloud, perché non utilizzarli?". 

30.1.22

Ines, la lavandaia della Garbatella va in pensione: "Ho 94 anni, ma mi dispiace"

repubblica 30\1\2022 di di Marina de Ghantuz Cubbe

 Ha trascorso 56 nella lavanderia di via Carducci. Venerdì 4 febbraio sarà l'ultimo giorno di lavoro e per salutarla il presidente dell'VIII
municipio Amedeo Ciaccheri ha deciso di premiarla a nome di tutta la comunità. "Quando sono arrivata a Roma avevo 18 anni e a Garbatella non c'era niente, neanche i marciapiedi"


Una lavoratrice d'altri tempi, Ines Salvador, che ha 94 anni e ne ha trascorsi 56 nella lavanderia a Garbatella, in via Carducci. Venerdì prossimo sarà l'ultimo giorno di lavoro e per salutarla il presidente dell'VIII municipio Amedeo Ciaccheri ha deciso di premiarla a nome di tutta la comunità. In tutti questi anni, racconta la signora Ines, le camice sono rimaste croce e delizia dei romani: non sanno mai come fare per stirarle per bene. Ma una cosa è cambiata: "Ora le persone chiedono consigli, vogliono imparare a prendersi cura delle loro cose".


Il quartiere dove ha lavorato per una vita invece come è cambiato?
"Quando sono arrivata a Roma avevo 18 anni e a Garbatella non c'era niente, neanche i marciapiedi. All'inizio lavoravo sotto padrone, ma insieme a mia sorella ci siamo aperte la nostra attività e poi io sono rimasta a via Carducci con la mia lavanderia, lei si è spostata. Ho visto crescere metà quartiere: mi vogliono tutti bene e infatti il premio che mi hanno dato è una cosa stupenda".

Da dove arriva?
"Da Treviso. C'era già la mia sorella più grande e poi ci ha raggiunte la più piccola che ora ha 90 anni. Noi eravamo 7 fratelli, ma il Piave mormorava quando c'è stata la guerra e nel '42 ho perso un fratello che stava a Corfù e che aveva solo 22 anni. La mia famiglia si è dispersa, abbiamo avuto tanti problemi e chi è sopravvissuto è andato un po' all'estero e un po' a Roma".

Ines, la lavandaia della Garbatella 


Dove lei è diventata una lavandaia storica. Le abitudini dei romani che vengono al suo negozio sono cambiate negli anni?
"Mi hanno sempre portato tante camice e io le lavo e le stiro senza esagerare mai coi prezzi. Una cosa è cambiata: le persone chiedono consigli su come conservare al meglio gli abiti. Io glieli do e anche per questo tantissime persone mi hanno scritto un messaggio perché sono dispiaciute che vada via. L'unica cosa che mi dispiace è che non ho trovato giovani lavoratrici disposte a fare la fatica che ho fatto io: sono troppo distratte dal telefono o dalle sigarette".

Lei è una forza della natura, ci sono stati anche dei momenti di difficoltà?

"Certo, ma li ho superati tutti. Ho avuto 3 incidenti, l'ultimo a ottobre quando una donna al telefono al volante mi ha investito in pieno sulle strisce pedonali vicino a dove abito, sulla Prenestina. Devo prendere 4 autobus e 2 metro per arrivare a Garbatella e mi sveglio alle 4.30 del mattino per aprire il negozio alle 6. Prima degli incidenti stavo fino alle 20, ora fino alle 15. Mi porto il pranzo da casa, me lo cucino io dopo il lavoro. Cibo sano. Infatti sono arrivata a 94 anni".


Cosa farà ora? Ha un sogno nel cassetto?
"Voglio andare dai miei nipoti, a Treviso, ad abbracciarli".

Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa Agitu Ideo Gudeta, la regina delle capre felici.

Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa la regina delle capre felici.È stata ferocemente uccisa Agitu, la regina delle capre felici, con un colpo...