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21.8.25
2.11.24
diario di bordo n 84 anno II Infermiera tenta il suicidio sui binari del treno, il macchinista scende e la salva: «Oggi è mio marito e il padre dei miei figli»., «Io, operaia da 30 anni nella fabbrica di cioccolato, qui ho conosciuto anche mio marito. Ora la nostra vita è appesa a un filo»., La perdita di un figlio e la speranza: «L’amore è più forte della morte».,
L'amore arriva quando meno te lo aspetti, si dice. E lo può confermare Charlotte, che ha conosciuto il suo futuro marito sui binari del treno, in un momento particolarmente difficile della sua vita. La donna, un'infermiera di 33 anni, quella mattina voleva togliersi la vita a causa di diversi problemi di salute
mentale, tra cui un disturbo da stress post traumatico. Ma il macchinista si è fermato, è sceso, si è avvicinato e si è inginocchiato di fronte a lei. Poi le ha detto il suo nome, e ha chiesto quello di lei. Una scena che sembra provenire direttamente da un film. L'uomo è riuscito a placare la sofferenza di Charlotte e l'ha aiutata a rialzarsi, in tutti i sensi.
Il salvataggio e il matrimonio
«Trova qualcuno che ti guardi così, quando non te ne accorgi», scrive Charlotte Lay nella didascalia di una delle foto che la ritraggono assieme al marito il giorno delle nozze. Il loro amore è iniziato in un giorno nefasto, quando la donna ha agito d'impulso e mentre si stava dirigendo al lavoro si è seduta sui binari del treno, in attesa di essere colpita.
Ma alla guida di quel treno c'era Dave Lay, che è sceso e le ha tenuto compagnia per circa mezz'ora, riuscendo a calmarla, a guadagnare la sua fiducia e a farla salire a bordo. L'ha salutata alla stazione di Skipton, dove l'attendeva la polizia. Il giorno dopo Charlotte ha cercato quell'uomo su Facebook per ringraziarlo di ciò che aveva fatto, e i due hanno iniziato a scambiarsi messaggi, quasi ogni giorno.
Poi c'è stato il primo incontro faccia a faccia per un caffè. Il resto è storia: dopo tre anni si sono sposati, quando Charlotte era incinta del primo figlio. Ce ne sono stati altri due, da allora. La conversazione di quel giorno, da quello che ricordo, era sulle nostre vite, nulla di che, ma abbastanza per farmi superare il momento di crisi - racconta la donna -. Non sentivo più la vita così pesante», dice al Daily Mail.
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«Quando sono entrata per la prima volta in stabilimento avevo appena 18 anni, ero una ragazzina. Ho vissuto più di 30 anni a stretto contatto con il cioccolato, prima nel reparto modellaggio poi nel reparto fabbricazione. Ora la mia vita è in un limbo». Rossella Criseo è tra quei 115 lavoratori e lavoratrici che non riescono a immaginare il proprio futuro anche solo tra qualche mese. L’azienda per cui lavora, la multinazionale svizzera del cioccolato Barry Callebaut, ha deciso di chiudere lo stabilimento di Intra, Verbano Cusio Ossola. «Da un giorno all’altro - dice -. A settembre ci hanno comunicato che la fabbrica avrebbe chiuso nel primo trimestre 2025. Poi la proprietà ha accettato di prolungare lo stop alla produzione al 30 giugno».
Ora si tenta la strada della reindustrializzazione, anche se l'azienda ha escluso l'apertura a eventuali competitor interessati. «Se non verrà trovato un acquirente? Anche mio marito è un dipendente, ci siamo conosciuti in reparto. Il destino della nostra famiglia è appeso a un filo. I nostri colleghi si trovano nella stessa situazione: lontani dalla pensione, con mutui da pagare e figli da mantenere». Rossella Criseo, nella Rsu Cisl da tre anni, è entrata per la prima volta in stabilimento quando la proprietà era ancora del marchio Nestlé. Poi la chiusura nel 1999 e il salvataggio di Barry Callebaut, che ha permesso alla fabbrica di raggiungere i cento anni di produzione. «Un anniversario che avremmo festeggiato proprio quest’anno – dice -. Invece abbiamo davanti lo scenario più desolante possibile».
Criseo è cresciuta con il profumo di cioccolato sotto il naso, che ogni giorno avvolgeva lo stabilimento. «Lo si poteva percepire già fuori alla mattina, prima di entrare in azienda, soprattutto con il vento. Era un odore che caratterizzava il quartiere. Una realtà che potrebbe non esistere più, ennesima chiusura in un territorio che in passato, invece, aveva una vocazione industriale». Dopo l’incontro di ottobre al Ministero delle Imprese e del Made in Italy (in cui è stata delineata la strada della reindustrializzazione) lo stabilimento è ora nelle mani di Vertus, società incaricata da Barry Callebaut per trovare un nuovo acquirente. Giovedì 31 ottobre si è svolto l’incontro con la Regione Piemonte, dove il sindacato ha ribadito che sarebbe necessario aprire la possibilità di cessione a un competitor per facilitare il percorso di reindustrializzazione. Ci si aggiornerà nuovamente al prossimo tavolo, convocato per il 26 novembre.
Criseo, che ha partecipato ai comitati aziendali europei, racconta che l’intenzione di chiudere il sito di Intra non è mai stata manifestata: «La scorsa primavera abbiamo persino incontrato il direttore dell’area Sud Est Europa, Esteve Segura. Ci aveva rincuorato sul futuro di Intra. Nel 2024, oltretutto, abbiamo raggiunto volumi record chiudendo l’anno fiscale con oltre 67mila tonnellate». Cioccolato su cioccolato, quello liquido che nel reparto di Rossella Criseo si scarica dai serbatoi e si carica nelle cisterne per i clienti.
«Ci siamo sempre dati da fare, siamo stati disponibili a lavorare il sabato, la domenica, a fare le notti, a lavorare nei riposi compensativi. Siamo stati i primi in Italia a fare le “squadrette”, a lavorare 7 giorni su 7. E ora l’azienda ci ripaga così? Io, i miei colleghi e le mie colleghe, siamo delusi e non sappiamo cosa ne sarà di noi. Di spostarsi non se ne parla, e neanche di cambiare settore dopo oltre 30 anni di lavoro
«Pensavo di andare veloce, il Vento mi ha condotto lentamente a stare seduto ad ascoltare i punti interrogativi che passeggiano in questa parte di vita». Tra i punti interrogativi di don Francesco Fiorillo, custode e responsabile della Fraternità Monastero San Magno di Fondi (Latina), c’è da tempo il dolore dei genitori che hanno perso un figlio. Ferite a cui questo sacerdote, “nuotatore controcorrente” come lui stesso si definisce, ha prestato attenzione ancora prima di entrare in seminario, quando aveva 18 anni, di fronte allo strazio dei genitori di un amico fulminato da una overdose di ecstasy. Da allora il pensiero di quella sofferenza che sconvolge e annienta l’ha sempre accompagnato e l’ha portato successivamente, quando è nato quel “porto di terra” che è la Fraternità di Fondi, a dare vita a un gruppo di genitori “orfani di figlio”. L’ha voluto chiamare Nain, la località poco lontano da Nazareth «dove la disperazione, il senso di abbandono, la ribellione verso Dio e l’umanità, vengono toccati e trasformati». Ma è davvero possibile accompagnare e dare sollievo al dolore di una mamma, di un papà che si sono visti portare via il figlio per una malattia, per un incidente stradale, per un suicidio (seconda causa di morte tra i ragazzi al di sotto dei 30 anni), per una overdose, oppure per una di quelle congiure di crudeltà che chiamiamo bullismo?
Papa Francesco, indicando come intenzione di preghiera per il mese di novembre il dolore dei genitori, ricorda che si tratta di un dolore «particolarmente intenso» e al di fuori di ogni logica umana, perché «vivere più a lungo del proprio figlio non è naturale». Siamo così impreparati a sopravvivere alla morte di un figlio che nemmeno il nostro dizionario ha una parola adatta per descrivere questa condizione di vita. «Pensateci: quando un coniuge perde l’altro, è un vedovo o una vedova. Un figlio che perde un genitore è un orfano o un’orfana. Esiste una parola per dirlo. Ma per un genitore che perde un figlio – osserva ancora il Papa nel videomessaggio – una parola non c’è. È un dolore così grande che non esiste nemmeno una parola». Bisogna inventarla, come don Fiorillo è stato costretto a inventare parole di senso di fronte alle domande impossibili dei genitori annichiliti dal dolore. Non perché quelle risposte abbiano un senso solido e definitivo – come si fa a dire che la morte di un figlio è “sensata” – ma perché, spiega, quelle domande vanno comunque fatte e, riflettendo insieme, «si spalancano nuovi orizzonti verso l’infinito, si rende più digeribile il futuro».
Vediamo allora alcune delle domande messe in fila dal custode della Fraternità di Fondi e ordinate in un libro, Funamboli. Genitori che camminano sul filo dell’oltre (Paoline, pagine 197, euro 16) che in una giornata come quella di oggi dedicata alla memoria dei nostri defunti, potrebbe diventare un viatico confortante per tante mamme e tanti papà. «Come posso vivere il dolore?», si chiedono i genitori del gruppo Nain. E don Francesco risponde che il dolore è come una ferita che non va coperta da un cerotto. Per rimarginarsi deve prendere aria. Ma il dolore non fa crescere? «Non l’ho mai creduto», risponde il sacerdote, «è l’amore che fa crescere, quello che riusciamo a versare nello squarcio del dolore». Ecco perché di fronte al dolore, anche a quello più atroce e assoluto, non bisogna scappare, bisogna stare, «accettare il silenzio della vita davanti alla prova», che poi per il credente significa «accettare il silenzio assordante di Dio durante le nostre sofferenze».
Ma ci sono altri atteggiamenti da imparare se si vuole convivere con il dolore senza che quell’artiglio implacabile afferri il nostro cuore e lo renda giorno dopo giorno indifferente alla vita, all’amore, al mondo. Può succedere, ma bisogna evitarlo. Sbagliato allora «lamentarsi e piangersi addosso», oppure «dare la colpa a qualcuno» per quello che è successo. E, ancora, nascondere il proprio stato d’animo, mascherare le ferite. Tutto sbagliato, anche nella sofferenza più lancinante che potrebbe indurre a scappare, a nascondersi, a evitare parole e contatti, dobbiamo parlare e condividere. «Penso a quanto ci faccia bene – riflette ancora don Fiorillo – lasciarci toccare dagli altri”»
Ma la domanda più atroce, quella che investe tutta la vita e che la può stravolgere, è per il credente sempre la stessa: «Dove eri, Dio? Tu che sei l’amore, come puoi far morire mia figlia? Se è vero che ci sei, perché hai permesso che accadesse?». Questioni da lasciare senza fiato, da ascoltare in silenzio, evitando di ripetere frasi che don Francesco definisce «bestemmie». Del tipo: «Dio strappa i fiori più belli per piantarli nel suo giardino, i vostri figli non vi appartengono, sono di Dio». Sbagliato. Sono parole che non confortano nessuno. Che dire allora, che fare? «Lasciare che le domande e l’incredulità e anche la rabbia verso Dio fluiscano, come un fiume, senza trattenerle». Perché Dio sente il dolore dei genitori diventati “orfani” di un figlio, di una figlia, «ha una immensa sensibilità, così grande da stare in silenzio per amore, anche quando noi vorremmo risposte».
La seconda parte del testo, quella dove strazio e conforto si mescolano e si confondano, ospita dodici testimonianze di genitori che raccontano il figlio che non c’è più. Sono mamme e papà che partecipano al gruppo di Nain e che in qualche modo, hanno saputo affrontare il dolore e hanno cercato ragioni, parole, contatti per non soccombere. Ma leggere quei ricordi vuol dire, soprattutto per un genitore, condividere e piangere con loro. Ma scoprire anche, inaspettatamente, che la speranza può rinascere insieme alla consapevolezza, come scrive Teresa, una mamma, «che vita e morte sono tutt’uno, che l’amore non conosce barriere ed è più forte della morte».
17.6.24
Fabio Franceschi, parla lo stampatore di Harry Potter: “La sua vera magia? Farmi viaggiare in Rolls-Royce e in elicottero”
Oltre che per la scoperta dell’America, gli italiani sono noti per averci importato il Parmigiano reggiano, la Nutella, il Martini, il Campari e molte altre delizie da mangiare e da bere. Il padovano Fabio Franceschi, 55 anni, è forse il primo a occuparsi del nutrimento per lo spirito: i libri. Secondo un documento d’epoca dell’US Census Bureau, nel 1900 vivevano negli Stati Uniti 484.703 nostri connazionali. Di costoro, 23.528 erano in Illinois e 66.655 in Pennsylvania. Il titolare della Grafica Veneta di Trebaseleghe si è avventurato sulle loro tracce in questi due Stati. In meno di tre anni, ha acquisito la Lake book manufacturing di Melrose Park, sobborgo di Chicago, e lo scorso 2 maggio la P.A. Hutchison di Mayfield, fondata nel 1911, specializzata in testi scolastici.
SFRUTTAMENTO DEL LAVORO, ARCHIVIATO – L’America fu anche all’origine della peggiore accusa che potesse essere rivolta a un imprenditore: sfruttamento del lavoro. Accadde a luglio del 2021 e al solo riparlarne Franceschi ci sta male, anche se poi se la vide archiviare dalla Procura: «Dovevo spedire grosse partite di libri negli Stati Uniti. Ci chiedevano di riceverli imballati in scatoloni. Non essendo attrezzato per questo genere di packaging, dovetti rivolgermi a una cooperativa, che ci inviò 8 pakistani. Lavoravano in fondo a un capannone lungo un chilometro. Che potevo saperne di ciò che combinavano o del fatto che i loro datori di lavoro li picchiavano per strada? Fu una tragedia scoprirlo. Ho giurato a me stesso: mai più contoterzisti in Grafica Veneta! Infatti gli 8 operai li ho assunti, insieme con altri 44 loro connazionali. Ho dipendenti di 34 etnie, 23 delle quali nella sola Trebaseleghe. Le sembro un razzista?». Leader nella stampa per i 70 principali editori al mondo, a cominciare dai tre colossi Penguin, Hachette e HarperCollins, 300 milioni di volumi sfornati ogni anno (la metà in Italia), unico in grado di consegnare un libro nel giro di sole 24 ore dal ricevimento del pdf e unico a poterlo fare in maniera sostenibile, grazie a un impianto carbon free che dispone di 100 mila metri quadrati di pannelli fotovoltaici sul tetto, Franceschi si occupa di cibo per la mente dopo aver sofferto fino ai 6 anni la scarsità di quello per il corpo.
CIBO PER IL CORPO E LA MENTE - «Pativo la fame», ammette ora che guida una Rolls-Royce Wraith e si sposta in elicottero. «Ma non mi sono mai considerato ricco: semplicemente un povero con i soldi, come diceva Gabriel García Márquez».
Era così indigente la sua famiglia? «Di più. Dire che eravamo poveri sarebbe un’esagerazione: non avevamo assolutamente nulla, il che è diverso. L’unico pasto vero era quello delle 18, quando mia madre poteva mettere in tavola solo i risi col late, riso bollito dentro il latte ben zuccherato. Tutte le sere risi col late, per anni. Me lo sogno ancora di notte. Nel negozio di alimentari del signor Coletto, detto Tórmena, la mamma mandava me, con un quadernetto. Dicevo al salumiere: segni, pagheremo a fine mese».
A che età cominciò a fare il tipografo? «A 4 anni. Mio padre Rino e mio zio Sergio mi davano le righe metalliche difettose uscite dalla loro linotype, quelle che presentavano una sbavatura. Io mi mettevo sotto il tavolo di cucina e le rifilavo con una spazzola di ferro. La compositrice sbuffava vapori tossici di piombo, antimonio e stagno per 18 ore al giorno. Era collocata in una stanzetta attigua alla camera dove dormivo accanto al letto dei miei genitori. Il frastuono provocato dalle matrici dei caratteri era la mia ninna nanna, visto che papà e zio lavoravano fino alle 2 di notte».
Come conseguì il successo? «Mio padre morì ad appena 42 anni. Qualche tempo dopo, la fiducia di una banca locale mi permise di rilevare con un mutuo la quota di mio zio nella stamperia. Fino ad allora il nostro bilancio era dipeso dal Bur, il Bollettino ufficiale della Regione Veneto, che però ci saldava le fatture con 6 mesi di ritardo. Decisi di buttarmi sui libri. Nessun editore ci apriva le porte. L’unica che rispose fu Sandra Mondani, responsabile tecnico del Saggiatore, la casa fondata nel 1958 da Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo. Mi diede da stampare 3 mila copie di Donna Lakota, la storia di Mary Crow Dog. Pur di prendere la commessa, le proposi un prezzo stracciatissimo.Lavorando 24 ore su 24, in 13 anni il fatturato aumentò del 19.262 per cento. Con il punto, non con la virgola: diciannovemila».
Non teme che il libro digitale vi spazzi via? «Nessuno al mondo è in grado di fare previsioni sensate. Navighiamo a vista. Un po’ di fastidio l’ebook ce lo dà, è pur sempre un concorrente, ma meno di quanto ci aspettassimo. Credo che non riuscirà mai a scalzare la carta stampata. Il libro tradizionale è un bene prezioso che completa la casa, conferendole tono e calore. Un volume si conserva, lo regali alle persone a cui tieni di più, resta in eredità ai tuoi cari».
Quanti nuovi libri producete in un anno? «Solo qui a Trebaseleghe stampiamo ogni giorno 60-70 titoli, con ben 27 rotative che inghiottono fino a 3 mila tonnellate di carta. Fanno 30 autotreni di libri in uscita dallo stabilimento. Con la saga di Harry Potter siamo arrivati finora a 1 miliardo di copie nelle 10 principali lingue, cinese escluso».
Ricordo che per il primo titolo di Joanne Kathleen Rowling vi furono imposte regole rigide. «Più che altro draconiane, le stesse di Life, il libro sul Papa edito da HarperCollins. La scrittrice inglese pretese clausole contrattuali con penali da milioni di euro, per impedire che uscisse qualche anticipazione tratta dai suoi romanzi. Ci furono imposti 18 agenti di sicurezza armati a sorvegliare la tipografia nell’arco delle 24 ore. I bancali con le copie fresche di stampa venivano cellofanati nella plastica nera, inmodo che le copertine non fossero visibili. Poi apponevamo i sigilli di piombo alle maniglie dei Tir che trasportavano i libri da Trebaseleghe al magazzino dell’editore Salani».
Tra Italia e Stati Uniti quanti dipendenti ha? «Siamo arrivati a 900. Me ne servirebbero subito altri 60 a Trebaseleghe, ma non riusciamo a trovare personale con un minimo di conoscenza della materia, da inserire nei nostri corsi formativi».
Per questo reclutò gli 8 lavoratori pakistani da cui scaturì l’indagine giudiziaria? «No, è che la Bm service era specializzata negli imballaggi. Peraltro si trattava di una realtà con più di 100 dipendenti, che ci era stata segnalata da altri importanti stampatori e lavorava per i principali editori. Ero totalmente all’oscuro dei metodi criminali di quell’azienda di Trento. Il pubblico ministero lo capì e chiese l’archiviazione. Venne concessa perché non c’erano prove a mio carico “circa la consapevolezza della situazione dei lavoratori stranieri”, ha scritto la Procura di Padova. Non lo dico io: lo riportò l’Ansa».
Ma la notizia non ha lasciato tracce nei giornali. «Qualche titolo solo su quelli veneti. Io non ho sfruttato, semmai sono stato truffato. Bm service incideva appena per lo 0,08 per cento nel bilancio del personale di Grafica Veneta. È risultato che uno degli 8 operai aveva lavorato nello stesso giorno 12 ore da noi e 12 ore da altri; un suo amico, rimasto qui meno di una settimana, chiedeva 100 mila euro di salari arretrati. Ringrazio la Cgil, che si è dimostrata collaborativa, e Manik Abdullah Atique, l’imam di Padova, che ha voluto invitarmi in moschea. Hanno compreso le mie ragioni».
Però il suo amministratore delegato Giorgio Bertan ha patteggiato. E lo stesso ha fatto Giampaolo Pinton, responsabile della sicurezza. «Nessuna condanna: solo una sanzione di 45 mila euro. Bertan è un ex boy scout, mite e altruista. Le accuse infamanti lo stavano portando all’esaurimento nervoso. Non sarebbe riuscito a sopportare l’iter giudiziario infinito per dimostrare la propria innocenza. Perciò i nostri avvocati hanno suggerito a lui e a Pinton la via breve del patteggiamento. Sono stato io a consigliare a entrambi di accettare. Mi faceva pena vederli affranti sulla graticola».
Non ha proprio nulla da rimproverarsi? «Non mi perdonerò mai d’essermi preso in casa personale mandato da un’azienda esterna. Ma credo di avere espiato. I giornali mi hanno dedicato 305 pagine facendomi passare per uno sfruttatore. Oltre al danno reputazionale, ho visto sfumare negli Usa commesse per 100 milioni di dollari. Grafica Veneta è un’azienda seria, non ha turn over. Chi viene assunto, non se ne va più. Tant’è che uno degli 8 pakistani oggi è responsabile del magazzino e un altro della movimentazione».
Chi le ha dato conforto durante questa odissea? «Mia moglie Fiorella Masiero, che ho sposato nel 1990, e i nostri figli Nicola, Alberto e Gianmarco. La famiglia mi ha assistito in un dramma ben peggiore. È un vero miracolo che sia qui a parlarne».
A quale dramma si riferisce? «A una patologia chiamata Cfs leak, acronimo di cerebrospinal fluid spinal leak, rara malformazione congenita che provoca la perdita di liquido cerebrospinale. Scoprii per caso di esserne affetto da una Tac eseguita nel 2014 per una sinusite. Mi ha salvatoWouter Schievink, neurochirurgo olandese emigrato al Cedars Sinai medical center di Los Angeles. Mi ha sottoposto a 7 interventi. Il quarto è durato oltre 12 ore, con un’équipe di 20 persone. Mi hanno aperto dalla nuca all’osso sacro. Ho passato ore e ore in risonanza magnetica: non riuscivano a trovare i buchi dai quali il liquor cerebrale collassava nella colonna vertebrale. Appena guarito, mentre cominciavo a riprendere un po’ le forze, mi è piombata sulla testa la tegola giudiziaria».
Che cosa le ha insegnato la terribile esperienza? «Mi ha cambiato l’orizzonte. La Cfs leak m’impediva di fare anche solo 100 metri a piedi. Dà depressione, induce istinti suicidari. È come avere un chiodo piantato nello sterno. Ti chiedi: perché devo restare al mondo? Non vedi più la luce».
E invece l’ha rivista. «Su mio invito, Schievink è venuto a Padova a insegnare le sue tecniche ai colleghi italiani. Ora sono già più di 60 i miei conterranei, che soffrivano della stessa sindrome, salvati con questo intervento chirurgico. La malattia e l’inchiesta giudiziaria mi hanno spronato a guardare avanti. Grazie a Dio viviamo di futuro, non di passato».
Stefano Lorenzetto
26.7.23
Da licenziati diventano soci titolari e ora ripartono con la seconda sfida . Dopo un fallimento quattro ex dipendenti rilevano il market e lo portano al successo Super Dis a Predda Niedda (Sassari) si affilia al gruppo Frongia di Oristano
Lo vedi dagli sguardi, dai sorrisi, dalle battute. Lo intuisci dal cercarsi sempre l’uno con l’altro. C’è amicizia, complicità, c’è una storia creata e vissuta insieme, tra tempeste, paura di non farcela e pacche sulle spalle per darsi forza. È una squadra quella che si appresta ad affrontare una nuova avventura nel supermercato di Predda Niedda, circa 1000 metri quadri nella strada 2 a Sassari. Si chiama ancora Super Dis ma da giovedì 27 il suo nome diventerà “Vicino a te”: entrerà a far parte della catena della famiglia Frongia di Oristano, di cui sarà il diciannovesimo punto vendita nell’isola.
5.12.22
lavorare tu.tti lavorare meno MENO ORE DI LAVORO E STESSO STIPENDIO. IN SARDEGNA LE SOCIETÀ DEL GRUPPO “PROSSIMA ISOLA” RIDUCONO L’ORARIO SETTIMANALE: DA 40 A 35 ORE Si punta sulla produttività e sul benessere dei propri dipendenti
MENO ORE DI LAVORO E STESSO STIPENDIO. IN SARDEGNA LE SOCIETÀ DEL GRUPPO “PROSSIMA ISOLA” RIDUCONO L’ORARIO SETTIMANALE: DA 40 A 35 ORE
Si punta sulla produttività e sul benessere dei propri dipendenti

Di: Redazione Sardegna Live
Certi del fatto che lavorare meno porti vantaggi in termini di produttività e di benessere e che, al contrario, lavorare di più non sia sinonimo di maggiore rendimento, le società sarde del Gruppo “Prossima Isola” scelgono di diminuire l’orario di lavoro settimanale a parità di stipendio.
Il Gruppo, nato nel 2008, di cui fa parte anche “Mentefredda”, consolidato player del turismo digitale nel mercato nazionale, conta oltre 200 clienti tra alberghi, aeroporti e parchi divertimento.
Dal 1° dicembre le aziende hanno introdotto la riduzione della settimana lavorativa: 35 ore anziché 40, proprio come in Francia, mentre in tutta Italia sono ancora poche le aziende che hanno deciso di fare questa scelta.
Una scommessa, dunque, quella delle società Prossima Isola e Mentefredda, con sede ad Alghero e con poco meno di venti dipendenti, accolta ancora con più grande entusiasmo e consapevolezza da tutto il personale, ma che stimola di fatto anche gli stessi soci: “In Italia, secondo i dati Ocse, si lavora molto di più che nel resto d’Europa, ma ciò non corrisponde a una crescita dei livelli di produttività. Siamo convinti che maggior tempo libero e libertà possano favorire e dare maggior impulso alla costante crescita che registriamo di anno in anno”, affermano Marco Montalto, Marcello Orizi, Daniele Idini e Gabriele Del Curto.
Una decisione a cui ha dato una forte spinta la pandemia. “In questi ultimi anni – spiegano i quattro soci – rispetto a prima è cambiato il rapporto tra famiglia, lavoro e tempo libero ed è aumentata l’esigenza di raggiungere un sano equilibrio tra vita lavorativa e vita privata. E noi vogliamo tenere conto di questi aspetti così importanti -. Uno sbilanciamento tra le due componenti non fa altro che pregiudicare la salute, la soddisfazione personale e dunque la qualità del lavoro”.
“Partiamo da dicembre con l’introduzione della settimana lavorativa a 35 ore, lasciando ovviamente invariati stipendio e ferie. Siamo sicuri che questa scelta attiverà un circolo virtuoso capace di aumentare il nostro valore e l’appeal sul mercato, anche nell’ottica di attrarre un numero sempre più grande di nuovi talenti da inserire nel nostro organico”.
11.9.22
Ricomincia la scuola. Di Beatrice Gallus
Ricomincia la frenesia di un tempo che corre, tra troppi impegni e la fatica di stare al passo.Cosa augurare ai piccoli grandi allievi ? Di avere negli occhi la scintilla della curiosità. Di non inseguire il risultato ma comprendere l’importanza di ciò che si sta imparando.
Di sentirsi in grado di affrontare le nuove sfide, consapevoli che sbagliando, provando e riprovando, si impara: se lo si sapesse già fare non si andrebbe a scuola. Di comprendere che un brutto voto è un’occasione di crescita, così come ogni insuccesso: si può imparare a fare meglio e si possono scoprire lacune e punti deboli su cui lavorare.
Di essere consapevoli che si studia per apprendere, non per un voto in pagella, perché nella vita dovranno lavorare con le competenze acquisite, e sarà questo bagaglio a creare pensieri e a formare gli adulti che saranno. Non dei numeri.Di ricordarsi che la Storia è costellata di uomini e donne brillanti e di successo con pessimi percorsi scolastici: non sempre le capacità si manifestano a scuola. Spesso, come semini, stanno in attesa di un terreno più fertile che le accolga. Di avere accanto adulti capaci di amarli incondizionatamente, non per i risultati ottenuti ma per ciò che sono, e che gli stessi adulti curino l’ascolto, il rispetto, l’empatia, i valori, l’impegno, la coerenza e la costanza prima di tutto il resto. Da essi nascerà uno sguardo sul mondo e sul prossimo benevolo e rispettoso. Di avere insegnanti capaci di guardarli così come avrebbero voluto essere guardati. E che siano competenti tanto quanto appassionati della materia che insegnano. Buon anno scolastico a tuttiBeatrice Gallus
12.7.22
Lavoro e figli: un altro modo è possibile
della newsletter di repubblica Scusi, Lei.
| Il team di WearMe, al centro Virginia Scirè |

Virginia Scirè ha deciso di provare a costruire qualcosa intorno ai suoi ritmi quando questi sono cambiati. “Ho iniziato a lavorare in una società finanziaria a Castelfranco, poi nel 2008 è nato il mio primo figlio, che aveva dei problemi di salute e necessità di ricoveri. Ero ancora in maternità, avevo partorito da tre mesi quando la mia società mi ha comunicato che mi avrebbero trasferito a Verona, a 110 chilometri da casa”. Passa ancora qualche mese, la maternità finisce: “Ho capito che non sarebbe stato possibile conciliare quel lavoro con quelle condizioni e la mia vita ma non avevo alternativa: così mi sono dovuta licenziare. Ed è stata una rinuncia, non solo economica”. In quei mesi di maternità Virginia fa acquisti online per il suo bambino, e lì decide di provare ad aprire un negozio di abbigliamento per bambini su eBay, da lì passa a un sito di e-commerce e a un ufficio fisico “perché così non dovevo stare sempre a casa”, poi un piccolo capannone e i primi quattro dipendenti, “tra loro Tania, che è ancora con me”, fino alla seconda gravidanza, nel 2013. “Mia figlia non dormiva mai, se non quando la prendevo in braccia, di lavorare non se ne parlava. Fino a quando un’amica mi ha regalato una fascia: la svolta”. Il baby wearing diventa il suo lavoro, vende fasce e marsupi e, nel 2017 con una sorta di crowdfunding, riesce a produrre la prima giacca per portare i bambini, che adesso è uno dei punti di forza di WearMe. “Ma lavoravo tantissime ore, vedevo i miei figli al mattino e a sera tardi, mi sembrava di non fare bene l’imprenditrice, ma neanche la mamma”. In quel periodo Tania aveva avuto un bambino, “allora ho iniziato a riflettere su come impostare il nostro lavoro: in Germania tante aziende chiudono alle 16, chi mi impediva di fare lo stesso?”. Tania è stata la prima a sperimentare la flessibilità totale durante l’allattamento, e lo smart working per noi era una realtà prima della pandemia. Durante la seconda ondata, quando siamo tornati anche in ufficio, c’erano giorni in cui portavamo i bambini: loro erano in Dad, i nonni andavano protetti, la cosa migliore era quella”. Oggi WearMe ha triplicato il fatturato (dai 180mila del 2019 ai 610mila del 2021, quanto i primi sei mesi di quest’anno, è stata inserita nell’incubatore SocialFare come start up di impatto sociale e Virginia Scirè ha due dipendenti e sei collaboratori per il team marketing che lavorano in smart working, dalla Puglia e dalla Spagna. Tutte donne, tranne uno, e sono donne e madri anche le due nuove dipendenti che firmano in questi giorni. Madri come quelle che, dopo quel reel su Instagram, le hanno scritto: “Tante hanno perso il lavoro perché non potevano avere il part-time che serviva per la famiglia, hanno diverse professionalità, livelli di istruzione e storie. Tante altre lavorano ma con il costante affanno di vedere i figli solo quando tornano la sera di perdersi qualcosa”. Ma gli uomini esistono in questa storia? “Sì, ci sono, e ce ne sono molto presenti: ma se non ci sono servizi o nonni non bastano neanche loro. Infine: le madri e i padri dovrebbero avere entrambi la possibilità di crescere i figli
30.4.22
CONCERTO DI PIAZZA SAN GIOVANNI ROMA 1 Maggio dietro le quinte: gli aneddoti di chi lo organizza ma non è per le barracopoli il caso di Borgo Mezzanone vicino a Foggia, c’è una baraccopoli i
VITA DA BRACCIANTI
- Oggi
- di Marianna Aprile
Buon 1º maggio,
(ma non per loro)
A Borgo Mezzanone, vicino a Foggia, c’è una baraccopoli in cui vivono 4 mila braccianti agricoli privi di tutto. Di posti così in Italia ce ne sono in 37 Comuni. Una condizione molto vicina alla schiavitù, che un gruppo di giovani filmaker ha raccontato in un film. Che però nessuno vuole
I migranti raccontati nel film provano a riscattarsi in molti modi: c’è chi, dopo dieci ore nei campi, prova a imparare l’italiano, chi studia la frequenza con cui escono i numeri al Lotto per capire quali giocare: «Nel ghetto è successo che qualcuno vincesse. Io ne ho conosciuto uno che però con quei soldi ha perso il suo fragile equilibrio; ne ha mandati la metà nel suo Paese e l’altra metà l’ha bevuta e spesa in prostitute. È andato via di testa perché ha avuto la prova che il problema, qui dove manca tutto, non sono i soldi: per quanti ne potrai vincere, continuerai a non poter avere documenti, quindi una casa e un lavoro regolari», dice Parenti. È per questo che anche quando viene data loro la possibilità di lasciare il ghetto alla fine non lo fanno: «È un limboma anche una rete di protezione. A ottobre scorso, un neurochirurgo del policlinico di Bari mi ha telefonato perché Abu, uno dei ragazzi del film, era stato colpito con un’ascia alla testa e appena arrivato in ospedale aveva dato il mio numero. Sono sceso a Bari per aiutarlo con le denunce e gli ho proposto di tornare a Milano con me, per sottrarsi al ghetto. Mi ha detto di sì, poi ci ha ripensato: in quel posto non hai nulla ma quel posto è l’unica cosa che hai; lì ti senti al sicuro anche se ti piantano un’ascia in testa, perché lì le persone sono come te, non ti giudicano, parlano la tua lingua. È un’assurda comfort zone in cui c’è posto persino per la gratitudine: i ragazzi che ho conosciuto ci sono grati per averli salvati dalmare e in cambio di questo accettano di essere, come dicono loro, “cittadinidi serieC”. Qualcuno di loro lo ritiene persino giusto. Ma lo accettano finché possono coltivare la speranza di diventare almeno di serie B. Ed è lecito chiedersi se frustrare questa speranza non renda esplosive situazioni come quella di Borgo Mezzanone». Persino la storia di One day one day parla di lavoro: il collettivo di Parenti lo ha prodotto e girato, ma non ha trovato nessuno che volesse distribuirlo: «Così, via Instagram tramite Will Media, abbiamo lanciato la campagna Vietato ai maggiori. Il senso era: “gli adulti” non lo vogliono? E noi portiamo i filmnelle scuole che ne faranno richiesta, dai ragazzi». Le scuole che rispondono sono 500 in pochi giorni: «Siamo partiti allora per un tour di unmese che, da Foggia, ci ha portati in tutta Italia, toccando 52 scuole e facendo vedere il film a oltre 6.700 ragazzi. A quel punto, abbiamo fatto un altro passetto: abbiamo invitato i maggiorenni a firmare una “dichiarazione di interesse” nei confronti del film dicendo che a 5 mila richieste avremmo fatto in modo di far arrivare il film nelle sale. Ne sono arrivate più del doppio, quindi ora lo proietteremo nei cinema delle città da cui provengono quelle mail. E tramite cinema@ willmedia.it altre sale possono chiederci di averlo», dice Parenti. Che si è inventato la distribuzione popolare, fai da te, porta a porta e on demand.
21.2.22
Firenze: "Sei incinta? E che problema c'è? Ti assumo lo stesso", la reazione del datore di lavoro spiazza la candidata al posto
repubblica 21\2\2022
Federica Granai, 27 anni, ha scoperto lo stato di gravidanza
Era rimasta senza lavoro a causa della pandemia e ha iniziato a cercarne uno nuovo. Quando ha trovato l'azienda giusta che ha deciso di assumerla ha scoperto di essere incinta e ha avuto paura che avrebbe perso per sempre quell'opportunità. E invece è andata in modo diverso, felicemente e inaspettatamente diverso.
Federica Granai ha 27 anni, vive a Santa Croce sull'Arno (Pisa) ed è originaria di Cerreto Guidi (Firenze). Per cinque anni è stata la responsabile del servizio clienti per un'azienda di luce e gas. A giugno 2020 per lei arriva la cassa integrazione. Si candida per il posto di customer care per VoipVoice, azienda di Montelupo Fiorentino (Firenze) che si occupa di telecomunicazioni e servizi informatici. Supera tutti gli ostacoli, dopo il colloquio iniziale ne segue un altro, poi tre prove pratiche e infine il colloquio con l'amministratore delegato e proprietario dell'azienda, Simone Terreni. Federica Granai supera tutte le prove e risulta essere la migliore tra i tanti candidati che ambivano a quel posto di lavoro.
Quando la responsabile della selezione delle risorse umane le comunica il periodo di prova, Granai chiede di poter parlare con Terreni. La voce tremante e lo sguardo
pieno di timore, la donna comunica al suo futuro capo: "Per correttezza, prima di cominciare, ti dico che sono incinta". "E che problema c'è?" le risponde Terreni. "Mi ha spiazzato - dice la donna -. Ero quasi in lacrime, mi aspettavo di essere accompagnata alla porta d'uscita e invece lui mi ha aperto quella d'ingresso. Mi ha dato la possibilità di prendere anche la maternità facoltativa oltre a quella obbligatoria. Ho creduto che potessero scartarmi perché aspettavo un bambino". Federica aveva completato il corso di formazione che l'azienda prevede per i neo-assunti. Il suo primo giorno di lavoro era fissato per il 7 settembre. "Il 28 agosto ho scoperto di essere incinta. Mi è caduto il mondo addosso perché dopo che la vecchia azienda mi aveva messo in cassa integrazione e avevo saputo di aver superato il primo colloquio in VoipVoice, mi sono licenziata. Conosco storie di moltissime donne rifiutate perché madri, o per la loro volontà di esserlo in futuro. Ho creduto che mi chiedessero di tornare dopo il parto o peggio, che mi avrebbero esclusa. Così avrei perso anche la disoccupazione Naspi. Nel 2022 le donne sono costrette a scegliere tra carriera e famiglia. Siamo succubi del sistema, sembra che non possiamo ambire alla stessa vita che può fare un uomo" dice Federica Granai. "Invece sono rimasta sorpresa. Il primo febbraio sono tornata al lavoro, oggi il mio bimbo compie dieci mesi. Ho un orario di lavoro flessibile con alcuni giorni in smart working, che mi permette di conciliare lavoro e famiglia".
"È così che dovrebbe essere per tutti" commenta l'ad Simone Terreni. "La gravidanza per noi non è assolutamente un problema. Non chiediamo mai a una donna se ha figli o se ha intenzione di averli". Tutte le mattine Terreni scrive un post sui suoi canali social per parlare dell'azienda. La storia di Federica Granai su LinkedIn ha avuto due milioni di visualizzazioni. "Tante donne mi hanno raccontato di avere avuto un'esperienza negativa. Un uomo mi ha scritto 'Mia moglie la hanno assunta, ma è successo in Svezia'. Sono sinceramente stupito. Credo di aver toccato un nervo scoperto della nostra società". L'azienda di Montelupo Fiorentino attua una procedura di selezione del personale molto complessa, con diversi colloqui e prove tecniche. "Qualcuno ci critica per questo. Noi lavoriamo con GiovaniSì di Regione Toscana, una volta selezionato il personale facciamo un contratto di apprendistato per tre anni e poi il tempo indeterminato. Quando si trova la persona idonea a ricoprire il ruolo e investiamo su di lei, perché dovremmo privarcene? Soltanto perché per un periodo sarà in maternità? Qualcuno mi ha scritto che se si ha bisogno urgente di una figura professionale per l'azienda, il periodo di maternità può essere un ostacolo. Ma noi non dobbiamo tappare buchi all'improvviso, pianifichiamo. Per me come imprenditore è un motivo d'orgoglio che le persone che lavorano con me possano crescere e realizzarsi e fare un progetto di vita. Il lavoro è un patto e in quanto tale è anche etico, si basa su una scelta reciproca, non è sfruttamento. Inoltre la nostra è un'azienda informatica, per noi è fondamentale usare gli strumenti digitali. C'è lo smart working e ci sono i servizi in cloud, perché non utilizzarli?".
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