Fabio Franceschi, parla lo stampatore di Harry Potter: “La sua vera magia? Farmi viaggiare in Rolls-Royce e in elicottero”

 

© Oggi/Stefano Lorenzetto

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Oltre che per la scoperta dell’America, gli italiani sono noti per averci importato il Parmigiano reggiano, la Nutella, il Martini, il Campari e molte altre delizie da mangiare e da bere. Il padovano Fabio Franceschi, 55 anni, è forse il primo a occuparsi del nutrimento per lo spirito: i libri. Secondo un documento d’epoca dell’US Census Bureau, nel 1900 vivevano negli Stati Uniti 484.703 nostri connazionali. Di costoro, 23.528 erano in Illinois e 66.655 in Pennsylvania. Il titolare della Grafica Veneta di Trebaseleghe si è avventurato sulle loro tracce in questi due Stati. In meno di tre anni, ha acquisito la Lake book manufacturing di Melrose Park, sobborgo di Chicago, e lo scorso 2 maggio la P.A. Hutchison di Mayfield, fondata nel 1911, specializzata in testi scolastici.
SFRUTTAMENTO DEL LAVORO, ARCHIVIATO – L’America fu anche all’origine della peggiore accusa che potesse essere rivolta a un imprenditore: sfruttamento del lavoro. Accadde a luglio del 2021 e al solo riparlarne Franceschi ci sta male, anche se poi se la vide archiviare dalla Procura: «Dovevo spedire grosse partite di libri negli Stati Uniti. Ci chiedevano di riceverli imballati in scatoloni. Non essendo attrezzato per questo genere di packaging, dovetti rivolgermi a una cooperativa, che ci inviò 8 pakistani. Lavoravano in fondo a un capannone lungo un chilometro. Che potevo saperne di ciò che combinavano o del fatto che i loro datori di lavoro li picchiavano per strada? Fu una tragedia scoprirlo. Ho giurato a me stesso: mai più contoterzisti in Grafica Veneta! Infatti gli 8 operai li ho assunti, insieme con altri 44 loro connazionali. Ho dipendenti di 34 etnie, 23 delle quali nella sola Trebaseleghe. Le sembro un razzista?». Leader nella stampa per i 70 principali editori al mondo, a cominciare dai tre colossi Penguin, Hachette e HarperCollins, 300 milioni di volumi sfornati ogni anno (la metà in Italia), unico in grado di consegnare un libro nel giro di sole 24 ore dal ricevimento del pdf e unico a poterlo fare in maniera sostenibile, grazie a un impianto carbon free che dispone di 100 mila metri quadrati di pannelli fotovoltaici sul tetto, Franceschi si occupa di cibo per la mente dopo aver sofferto fino ai 6 anni la scarsità di quello per il corpo.

CIBO PER IL CORPO E LA MENTE - «Pativo la fame», ammette ora che guida una Rolls-Royce Wraith e si sposta in elicottero. «Ma non mi sono mai considerato ricco: semplicemente un povero con i soldi, come diceva Gabriel García Márquez».

Era così indigente la sua famiglia? «Di più. Dire che eravamo poveri sarebbe un’esagerazione: non avevamo assolutamente nulla, il che è diverso. L’unico pasto vero era quello delle 18, quando mia madre poteva mettere in tavola solo i risi col late, riso bollito dentro il latte ben zuccherato. Tutte le sere risi col late, per anni. Me lo sogno ancora di notte. Nel negozio di alimentari del signor Coletto, detto Tórmena, la mamma mandava me, con un quadernetto. Dicevo al salumiere: segni, pagheremo a fine mese».

A che età cominciò a fare il tipografo? «A 4 anni. Mio padre Rino e mio zio Sergio mi davano le righe metalliche difettose uscite dalla loro linotype, quelle che presentavano una sbavatura. Io mi mettevo sotto il tavolo di cucina e le rifilavo con una spazzola di ferro. La compositrice sbuffava vapori tossici di piombo, antimonio e stagno per 18 ore al giorno. Era collocata in una stanzetta attigua alla camera dove dormivo accanto al letto dei miei genitori. Il frastuono provocato dalle matrici dei caratteri era la mia ninna nanna, visto che papà e zio lavoravano fino alle 2 di notte».

Come conseguì il successo? «Mio padre morì ad appena 42 anni. Qualche tempo dopo, la fiducia di una banca locale mi permise di rilevare con un mutuo la quota di mio zio nella stamperia. Fino ad allora il nostro bilancio era dipeso dal Bur, il Bollettino ufficiale della Regione Veneto, che però ci saldava le fatture con 6 mesi di ritardo. Decisi di buttarmi sui libri. Nessun editore ci apriva le porte. L’unica che rispose fu Sandra Mondani, responsabile tecnico del Saggiatore, la casa fondata nel 1958 da Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo. Mi diede da stampare 3 mila copie di Donna Lakota, la storia di Mary Crow Dog. Pur di prendere la commessa, le proposi un prezzo stracciatissimo.Lavorando 24 ore su 24, in 13 anni il fatturato aumentò del 19.262 per cento. Con il punto, non con la virgola: diciannovemila».

Non teme che il libro digitale vi spazzi via? «Nessuno al mondo è in grado di fare previsioni sensate. Navighiamo a vista. Un po’ di fastidio l’ebook ce lo dà, è pur sempre un concorrente, ma meno di quanto ci aspettassimo. Credo che non riuscirà mai a scalzare la carta stampata. Il libro tradizionale è un bene prezioso che completa la casa, conferendole tono e calore. Un volume si conserva, lo regali alle persone a cui tieni di più, resta in eredità ai tuoi cari».

Quanti nuovi libri producete in un anno? «Solo qui a Trebaseleghe stampiamo ogni giorno 60-70 titoli, con ben 27 rotative che inghiottono fino a 3 mila tonnellate di carta. Fanno 30 autotreni di libri in uscita dallo stabilimento. Con la saga di Harry Potter siamo arrivati finora a 1 miliardo di copie nelle 10 principali lingue, cinese escluso».

Ricordo che per il primo titolo di Joanne Kathleen Rowling vi furono imposte regole rigide. «Più che altro draconiane, le stesse di Life, il libro sul Papa edito da HarperCollins. La scrittrice inglese pretese clausole contrattuali con penali da milioni di euro, per impedire che uscisse qualche anticipazione tratta dai suoi romanzi. Ci furono imposti 18 agenti di sicurezza armati a sorvegliare la tipografia nell’arco delle 24 ore. I bancali con le copie fresche di stampa venivano cellofanati nella plastica nera, inmodo che le copertine non fossero visibili. Poi apponevamo i sigilli di piombo alle maniglie dei Tir che trasportavano i libri da Trebaseleghe al magazzino dell’editore Salani».

Tra Italia e Stati Uniti quanti dipendenti ha? «Siamo arrivati a 900. Me ne servirebbero subito altri 60 a Trebaseleghe, ma non riusciamo a trovare personale con un minimo di conoscenza della materia, da inserire nei nostri corsi formativi».

Per questo reclutò gli 8 lavoratori pakistani da cui scaturì l’indagine giudiziaria? «No, è che la Bm service era specializzata negli imballaggi. Peraltro si trattava di una realtà con più di 100 dipendenti, che ci era stata segnalata da altri importanti stampatori e lavorava per i principali editori. Ero totalmente all’oscuro dei metodi criminali di quell’azienda di Trento. Il pubblico ministero lo capì e chiese l’archiviazione. Venne concessa perché non c’erano prove a mio carico “circa la consapevolezza della situazione dei lavoratori stranieri”, ha scritto la Procura di Padova. Non lo dico io: lo riportò l’Ansa».

Ma la notizia non ha lasciato tracce nei giornali. «Qualche titolo solo su quelli veneti. Io non ho sfruttato, semmai sono stato truffato. Bm service incideva appena per lo 0,08 per cento nel bilancio del personale di Grafica Veneta. È risultato che uno degli 8 operai aveva lavorato nello stesso giorno 12 ore da noi e 12 ore da altri; un suo amico, rimasto qui meno di una settimana, chiedeva 100 mila euro di salari arretrati. Ringrazio la Cgil, che si è dimostrata collaborativa, e Manik Abdullah Atique, l’imam di Padova, che ha voluto invitarmi in moschea. Hanno compreso le mie ragioni».

Però il suo amministratore delegato Giorgio Bertan ha patteggiato. E lo stesso ha fatto Giampaolo Pinton, responsabile della sicurezza. «Nessuna condanna: solo una sanzione di 45 mila euro. Bertan è un ex boy scout, mite e altruista. Le accuse infamanti lo stavano portando all’esaurimento nervoso. Non sarebbe riuscito a sopportare l’iter giudiziario infinito per dimostrare la propria innocenza. Perciò i nostri avvocati hanno suggerito a lui e a Pinton la via breve del patteggiamento. Sono stato io a consigliare a entrambi di accettare. Mi faceva pena vederli affranti sulla graticola».

Non ha proprio nulla da rimproverarsi? «Non mi perdonerò mai d’essermi preso in casa personale mandato da un’azienda esterna. Ma credo di avere espiato. I giornali mi hanno dedicato 305 pagine facendomi passare per uno sfruttatore. Oltre al danno reputazionale, ho visto sfumare negli Usa commesse per 100 milioni di dollari. Grafica Veneta è un’azienda seria, non ha turn over. Chi viene assunto, non se ne va più. Tant’è che uno degli 8 pakistani oggi è responsabile del magazzino e un altro della movimentazione».

Chi le ha dato conforto durante questa odissea? «Mia moglie Fiorella Masiero, che ho sposato nel 1990, e i nostri figli Nicola, Alberto e Gianmarco. La famiglia mi ha assistito in un dramma ben peggiore. È un vero miracolo che sia qui a parlarne».

A quale dramma si riferisce? «A una patologia chiamata Cfs leak, acronimo di cerebrospinal fluid spinal leak, rara malformazione congenita che provoca la perdita di liquido cerebrospinale. Scoprii per caso di esserne affetto da una Tac eseguita nel 2014 per una sinusite. Mi ha salvatoWouter Schievink, neurochirurgo olandese emigrato al Cedars Sinai medical center di Los Angeles. Mi ha sottoposto a 7 interventi. Il quarto è durato oltre 12 ore, con un’équipe di 20 persone. Mi hanno aperto dalla nuca all’osso sacro. Ho passato ore e ore in risonanza magnetica: non riuscivano a trovare i buchi dai quali il liquor cerebrale collassava nella colonna vertebrale. Appena guarito, mentre cominciavo a riprendere un po’ le forze, mi è piombata sulla testa la tegola giudiziaria».

Che cosa le ha insegnato la terribile esperienza? «Mi ha cambiato l’orizzonte. La Cfs leak m’impediva di fare anche solo 100 metri a piedi. Dà depressione, induce istinti suicidari. È come avere un chiodo piantato nello sterno. Ti chiedi: perché devo restare al mondo? Non vedi più la luce».

E invece l’ha rivista. «Su mio invito, Schievink è venuto a Padova a insegnare le sue tecniche ai colleghi italiani. Ora sono già più di 60 i miei conterranei, che soffrivano della stessa sindrome, salvati con questo intervento chirurgico. La malattia e l’inchiesta giudiziaria mi hanno spronato a guardare avanti. Grazie a Dio viviamo di futuro, non di passato».

Stefano Lorenzetto

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