24.6.24

DIARIO DI BORDO n 57 ANNO II La prepotenza normalizzata alla base dei femminicidi non solo patriarcato e Perché ci interessa l’opinione del carnefice?



per la rubrica diario settimanale proviamo ad analizzare con due articoli le radici culturali \ antropologiche dellla violenza di genere \ femmnicidio .
Il  primo    è   un articolo   Viviana Daloiso su il quotidiano www.avvenire.it   di quasi  un anno  fa  ma    sempre  valido ,   opposto  certamente   alla  miia  formazione  culturale  ,  ma    con molti  punti  in comune ecco  la risposta  a chi  ancora mi  chiede   del nome  dei  due  blog    compagnidiviaggio e    compagnidistrada   )  in quanto   le radici    \  origini  del  fenomeno femminicidio  non è  solo  (è  vero  , ma   è tropo riduttivo per definire  un  fenomeno cosi  radicato  e  variegato  )  patriarcato  .  Il secondo     della newsletters    Heavy Meta di Lorenzo Fantonik    ed  analizza  e  qui  mi ricollego agli  articoli  sull'orribile   morte   ennessima  vittima  del  caporalato ,    Satnam Singh  condivisi  sia   sul mio  fb   sia questo   : <<   Fragole  ( e non solo )  rosso sangue, l’Italia è fondata sull’ipocrisia da  https://www.thesocialpost.it/  >>   sul blog e  questi miei  ultimi due   post sul  femminicidio     : <<   a  che  punto  è la  morbosità  sui  femminicidi . basta  parlare  di filippo  turretta  e  giulia  cecchetin  .   lasciamo in pace la  famiglia   e  Cagliari ennesima donna morta di prepotenza maschile e domestica) 
>> per rimanere in tema femminicidio


                              La prepotenza normalizzata  

  Il bimbo – ha 8 anni appena compiuti, è di buona famiglia – torna dai tappeti elastici sulla spiaggia della Romagna felice di aver giocato coi grandi di 10 o 11. Ripete di aver imparato che bitch[*] vuol dire donna in inglese e si arrabbia quando la mamma scuote la testa, «sono stupidate. Non dirla mai più». Ma la parola resta, gira nelle canzoni, torna nei discorsi davanti al cellulare, nelle chat, nei nomignoli delle prime piccole compagnie, bro e bitch, “fratello” per i maschietti e “prostituta” per le femminucce. Dove comincia, e come si forma, l’idea che gli uomini hanno delle donne oggi ? 
Lo sappiamo? Ce lo siamo davvero mai chiesti, in anni di femminicidi, e di stupri, violenze, abusi? Dei danni gravissimi che la disparità di genere – diminuita certo, ma mai annullata – stava compiendo nel nostro Paese, esperti e associazioni e operatori impegnati sul campo a curarne le ferite (per lo più donne, ovviamente) parlano da anni. Inascoltati. Più spesso, trattati come pasdaran, talebani del femminismo, esagitati accecati dall’ideologia anti-patriarcale. Vengono in mente certe accuse di esagerazione e certi dibattiti surreali innescati dalle “palpate” andate in onda persino in diretta tv, per poi essere sminuite nei tribunali: « Non c’è niente di male, suvvia». Perché tra la palpata e lo stupro, s’è sentito dire, c’è differenza. La cruda verità invece è che quel che accaduto a Palermo quest’estate non è un fatto nuovo, non dovrebbe sconvolgerci. Così come non dovrebbe sconvolgerci che in queste ore, sui social, dove è scattata l’indegna caccia al video delle sevizie subite da una ragazzina di 19 anni da parte di un branco di coetanei, compaiano i messaggi insopportabili degli stessi autori di quella violenza: «Quando tutta Italia ti incolpa per un fatto privato, ma nessuno sa che sei stato trascinato dai tuoi amici» (faccina che ride di contorno).
Roba mia, lo stupro. Roba mia, una donna. E «non ho fatto nulla di male», «sono stati i miei amici a dirmi che lei ci stava». I miei fratelli, appunto, e là fuori le prostitute, o le donne, che è lo stesso. Oggetti inanimati da manipolare e usare, palpare, abusare, calpestare. Quando non vanno bene o si ribellano, da minacciare, picchiare, uccidere. Anche questo, è lo stesso.
Se il dato drammatico con cui dobbiamo fare i conti è la “normalizzazione” della violenza sulle donne – questa concezione maschile generalizzata e ancora diffusa tra le nuove generazioni che le riduce a cose e come cose le usa e getta – si deve tornare alla domanda iniziale: sappiamo quando Angelo, Gabriele, Cristian, Elio (sono i nomi di alcuni fra questi stupratori, valgono per tutti gli altri, da Primavalle in giù) hanno iniziato a pensare che una ragazza, una donna, se la fai bere, te la puoi portare nel pertugio d’un cantiere e seviziarla in ogni modo, per ore, senza pensare di far nulla di male? Sappiamo come è cresciuta in loro quest’idea? Cosa l’ha nutrita? La sensazione è che no, non lo sappiamo. Perché per troppo tempo non ce lo siamo domandati. Abbiamo lasciato correre, sull’educazione alla parità di genere, pensando che sia un fatto di statistiche se le donne non ricoprono incarichi di potere, se sono escluse da certi percorsi di studio o di lavoro, se si fanno carico quasi del tutto degli oneri familiari e di quelli di cura parentale, se sono pagate sistematicamente meno dei loro colleghi uomini. Abbiamo chiuso un occhio sulle pubblicità, e l’immagine del sesso femminile veicolata dai media e dalla tv, per non essere tacciati di moralismo negli anni della rivoluzione dei costumi. Ci siamo ripetuti che non c’è niente di male, se nei testi della musica trap che i nostri figli divorano si parla di droga, di stupri, di violenze, perché sono solo canzoni, e in fondo anche noi le ascoltavamo quando avevamo la loro età.
Da cosa è nata cosa. In seno alla disparità nel corso degli anni è cresciuto prima il senso di superiorità, poi il disprezzo, infine la violenza e l’odio, col senso di impunità. Le statistiche sono diventate carne, figlie e madri e sorelle stuprate, picchiate, uccise. Volti e vite spente per sempre, come quella di questa ragazza di Palermo, che con la vergogna di una violenza indicibile dovrà convivere per sempre. Ora – giustamente – invochiamo in ogni dove percorsi di formazione nelle scuole per invertire la tendenza e rimettere nei nostri figli la luce del rispetto delle donne, come se ad ogni angolo di strada ci fossero educatori e docenti pronti con la bacchetta magica a scambiare due ore di geografia con due di educazione alla parità dei diritti. E come se due ore, o quattro, bastassero.Nell’Italia in cui cresceranno, però, quella parità, pur con tanti progressi, non è ancora raggiunta. Il cambiamento culturale che faticosamente cerchiamo e che è pur cominciato deve essere costruito prima (prima che nelle scuole e prima degli stupri e dei femminicidi) e altrove. Non deve essere più, mai più – da adesso, a ogni livello, in ogni casa, ufficio, tribunale, circolo, palestra – normale che una donna valga di meno. Se provassimo, ciascuno per la sua parte e per il suo ruolo nella società, a ricominciare da qui?




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Perché ci interessa l’opinione del carnefice?



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Perché ci interessa l’opinione del carnefice?

Ogni atto violento o gesto aberrante porta con sé la voglia di far parlare chi lo ha commesso, a volte è informazione, a volte è solo intrattenimento.

In queste ore è stato pubblicato il Digital News Report di Reuters, uno strumento importante per capire come cambia il mondo dell’informazione in tutto il mondo, perché fornisce dati sulle tendenze globali e indicazioni su quelle nazionali. E se in tutto il mondo è evidente lo spostamento dell’informazione verso piattaforme sempre più disintermediate dove la possibilità di mostrare ciò che non viene visto in televisione o sui giornali convive con la paura delle fake news e delle IA che intorbidiscono le acque, in Italia si nota un crollo abbastanza netto dell’importanza del medium televisivo. La TV era la principale fonte d’informazione per l’85% del campione nel 2017 mentre oggi lo è per il 65%, con la maggior parte dei più giovani che oggi preferiscono informarsi su YouTube, TikTok e addirittura social chiusi come i gruppi di Whatsapp e Telegram.E interessante anche notare che la TV ha una raccolta pubblicitaria che è il 29% del totale, mentre il 58% spetta alla pubblicità online, e che di questa cifra l’85% finisce in tasca a Google e Meta e solo il resto va a gli editori. Quindi si spende tanto in pubblicità online, ma quei soldi poi non alimentano il sistema dell’informazione, ma solo chi col tempo ci ha costretto al ricatto della SEO e degli algoritmi.Che poi è il principale motivo per cui nel passaggio dal giornalismo tradizionale a quello online il settore è colato a picco e oggi è praticamente impossibile campare con la professione: il sistema economico che prima garantiva sussistenza è oggi completamente in mano alle piattaforme.Ed è anche lo stesso motivo per cui magari chi vuole fare informazione a qualsiasi livello, che si parli di attualità, giornalismo tech, notizie di cinema o analisi di moto, forse preferisce farlo cercando di diventare un content creator in quella nicchia (con tutti i pro e contro del caso nei rapporti con le aziende), scartando fin da subito l’idea di provare a entrare in una redazione.Se le percentuali di riuscita sono altrettanto basse, forse meglio provare a diventare Breaking Italy e non l’ennesimo tizio che può essere sostituito o fare la fine della redazione di Hollywood Reporter Roma, che è al terzo sciopero.Ah e se pensate che gli abbonamenti siano la soluzione… beh non è detto. Forse, se il progetto è piccolo e può contare su uno zoccolo duro di appassionati, forse.

Le passioni del caporale

La morte di Satnam Singh nell’Agro Pontino è il classico caso che scoperchia temporaneamente una situazione che la maggior parte delle persone che non vivono la realtà locale ignora, fa finta di ignorare o ritiene accettabile. Moltissime sono le analisi che in queste ore ci mostrano quella è che a tutti gli effetti una realtà di schiavismo, sfruttamento, totale mancanza di rispetto per la vita umana, razzismo e il risultato del capitalismo a ribasso di cui, ci piaccia o meno, siamo in qualche modo complici.A me interessa invece capire alcune scelte fatte nel raccontare questa storia, che sono scelte che hanno molto in comune con un altro momento in cui c’è spesso disparità di trattamento tra vittima e carnefice, una disparità che è culturale ma anche narrativa. Anche perché il problema delle vittime è che non parlano più, debbono farlo gli altri. E spesso a farlo è chi le ha uccise.La ricostruzione della morte di Singh mi ha ricordato il consueto teatrino dei femminicidi, in cui una delle prime cose che si fanno è cercare di ricostruire le ragioni dell’assassino, il contesto in cui si è mosso il gesto violento, che è quasi sempre trattato con eccezionalità e non come il frutto di una realtà sistemica, reiterata, protetta, nascosta e giustificata.Una “leggerezza” come l’ha definita il padre del padrone dell’azienda in una intervista ormai diventata parte del terribile quadro in cui si muove il processo mentale di prendere un tizio col braccio mozzato, togliere i telefoni a chiunque fosse presente, scaricarlo a casa, lasciare il braccio vicino a un cassonetto e scappare.E in tutto questo mi cade l’occhio su un articolo di Repubblica Roma che titola “Le due passioni di Antonello Lovato, il proprietario della ditta per cui lavorava il bracciante morto” Ma sul serio?Abbiamo nome e cognome del padrone della ditta e poi “il bracciante morto”?Mi secca ripetermi ma per l’ennesima volta questo è perfetto caso di framing, ovvero di come la notizia viene incorniciata, con nomi e cognomi da una parte e generici braccianti morti dall’altra. Morto, come se l’omissione di soccorso fosse un dettaglio.

Framing, come ti incornicio la notizia

L’articolo adesso non si trova più, o meglio, se ne trovano i resti, ma poi dev’essere stato modificato con una impostazione più generica per dare un profilo del personaggio. Quello su cui mi interessava riflettere era il perché si arrivi sempre a questo punto: lo storytelling dei carnefici o presunti tali, la profilazione che si fa narrazione, il dettaglio delle loro passioni, dei loro interessi, delle loro vite apparentemente comuni e poi magari del fatto che hanno pianto in tribunale, che si disperano, che mangiano.Da una parte potrebbe anche essere utile e necessario per mostrarci che l’abiezione spesso non ha il volto del cattivo del cinema, non c’è un tizio che ride sguaiatamente vestito come il joker, ma uomini normali, banali, semplici, ritenuti magari amici tranquilli e padri amorevoli, ma capaci di applicare logiche schiaviste o accoltellare l’ex moglie. Purtroppo, però questo scatto non arriva mai. C’è sempre il raptus di follia, il momento eccezionale, quandi invece è tutto molo banale.Sicuramente c’è l’antico gusto di sbattere il mostro in prima pagine, il nostro bisogno di vedere in faccia questa gente e sperare che non sia come noi, per assolverci, confortarci o per cercare i motivi eccezionali di una tragedia. Un po’ di gogna pubblica ci sta, ci piace e nel giornalismo contemporaneo abbiamo gli strumenti seo che ci indicano quanto il colpevole sia cercato su Google. Il che rendo un articolo su suo profilo un gesto economicamente sensato.In fondo è giornalismo no? Se qualcuno vuole saperlo io glielo devo dire (peccato che non sia vero e che in alcuni casi le identità delle persone indagate vadano protette, ma qua pare fantascienza).Ma perché il taglio dev’essere quello in cui mi racconti “le sue passioni”? Io non lo so, vi giuro, non lo capisco, non capisco mai se dietro queste scelte c’è un tentativo di normalizzare il tutto, se il nostro disprezzo per minoranze e diversi sia tale per cui ci interessa solo la persona coinvolta che più ci somiglia o cosa, se è leggerezza, calcolo, fretta.

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