DIARIO DELLA SETTIMANA N 55 ANNO II Elisabetta Bathory, la terribile “contessa Dracula” che uccise oltre 600 giovanissime donne , anche i preti si tatuano , la bellezza salva i libri



La storia spesso trasforma donne influenti in leggende. Ed Elizabeth Báthory, aristocratica ungherese accusata di essere una serial killer nel XVI e XVII secolo, non fa eccezione. La sua storia continua a ispirare racconti agghiaccianti di orrore e crudeltà, anche quattro secoli dopo la sua morte.

  Secondo  Erzsébet Báthory - Wikipedia


Erzsébet Báthory, conosciuta in Italia anche come Elisabetta Bathory (a volte chiamata Elizabeth Bathory, il nome con cui è famosa nei paesi anglofoni), soprannominata la "Contessa Dracula" o "Contessa Sanguinaria" (magiaro Báthory Erzsébet (/ˈbaːtori ˈɛrʒeːbɛt/), slovacco Alžbeta Bátoriová; Nyírbátor, 7 agosto 1560 – Csejte, 21 agosto 1614), è stata una criminale, serial killer e nobile ungherese.Lei e quattro suoi collaboratori furono accusati di aver torturato e ucciso centinaia di giovani donne. Le vittime oscillerebbero tra le 100 accertate e altre 300 di cui era fortemente sospettata all'epoca; secondo un diario trovato durante la perquisizione in casa sua, le vittime sarebbero 650, e ciò farebbe di lei la peggiore e più prolifica assassina seriale mai esistita. Tuttavia, gli storici tengono per vera la stima delle 100/300 vittime e sono scettici circa la veridicità e/o esistenza di questo diario. 


Secondo invece <<   Elisabetta Bathory, la terribile “contessa Dracula” che uccise oltre 600 giovanissime donne>> di (msn.com)


Riconosciuta dal Guinness World Record come la più prolifica assassina donna della storia, Báthory avrebbe tolto la vita a oltre 600 giovani ragazze per soddisfare la sua sete di sangue. Tuttavia, come molti eventi storici, la sua storia è tutt'altro che semplice da ricostruire.Era una spietata e tormentata assassina o era vittima di un'elaborata cospirazione? Date un'occhiata alla galleria e formate il vostro giudizio.


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Corpi come murales . Regno Unito, polemiche social per la reverenda di Canterbury tatuata: “Serve ancora più impegno contro misoginia e pregiudizi”



L’annuncio dell’arrivo di Wendy Dalrymple, con una foto che mostra i suoi numerosi tatuaggi, ha scatenato offese sessiste su Twitter, tanto da portare il decano di Canterbury a intervenire . il nuovo reverendo della cattedrale di Canterbury è una reverenda. Dal 1994 nella comunione anglicana le donne possono accedere al presbiteriato, ricevere l’ordinazione episcopale, diventare diaconi e sacerdoti. Nessuno quindi tra i sudditi di re Carlo III ha manifestato stupore. Ha destato invece meraviglia che la reverenda abbia le braccia tatuate. Le immagini che si è fatta imprimere sono di carattere religioso e lei, Wendy Dalrymple, 47 anni, sposata, due figli, non le nasconde; anzi, le mostra con orgoglio. Il decano di Canterbury David Monteith ne ha preso le difese e nell’esprimerle il suo sostegno ha detto che «i tatuaggi esistono da migliaia di anni e raccontano storie di cultura». È vero, e chi studia antropologia culturale lo sa. Sa anche, però, che nello scatolone della cultura ognuno mette e toglie ciò che gli fa comodo. Oggi nella società occidentale il tatuaggio è una moda. Sono molti i personaggi in vista, soprattutto calciatori e cantanti, che attraverso i corpi affrescati come murales intendono lanciare messaggi: tatuaggi al posto di pensieri e idee. Gli imitatori, uomini e donne, sono un esercito, e stanno per invadere le spiagge per mostrare i loro capolavori: pelli come arazzi. Il corpo non è più considerato un tempio sacro da non profanare, bensì una vetrina. Dove esporre, come fa la reverenda Wendy, la propria mercanzia.



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La bellezza che salva i libri

di Mario Calabresi







Siamo portati a pensare che la bellezza sia qualcosa di naturale, che le cose belle fioriscano spontaneamente, quasi figlie di una congiunzione astrale o di un caso fortunato. Non è mai così. La bellezza è figlia del tempo, quello necessario alla Natura o all’uomo per mettere le cose in un ordine che poi ci meraviglierà (penso a un bosco, a un roseto o a una spiaggia che il mare ha creato levigando le pietre per centinaia di anni). È figlia del metodo e della costanza. Un libro, un dipinto, un film, una foto, un oggetto, un giardino, una casa, una cena, un gol: non sono mai belli per caso, per incidente o per fortuna, sono belli perché ci sono stati dedizione, cura, allenamento e soprattutto fatica.


L’interno della Libreria Palazzo Roberti © Libreria Palazzo Roberti


Una delle librerie più belle d’Italia, se non la più bella in assoluto, si trova a Bassano del Grappa e si chiama Libreria Palazzo Roberti. Occupa tutti gli 800 metri quadrati di un palazzo del Seicento in cui ha dormito due volte Napoleone - l’8 settembre del 1796, reduce dalla vittoriosa battaglia di Bassano contro gli austriaci, e nel marzo del 1797 in sosta lungo la marcia che lo porterà alle porte di Vienna -, in cui passava le sue serate lo scultore Antonio Canova e i cui soffitti sono stati affrescati nel 1799 da Antonio Scajaro, un allievo del Tiepolo. Dopo tre secoli di splendore, nel Novecento l’edificio perde splendore e declina. Le vetrine vengono affittate e divise tra vari negozi e i piani superiori adibiti a magazzini.
Quel palazzo però è nel cuore di un fotografo che, per risolvere un problema di fatica, ha fatto fortuna. Si chiama Lino Manfrotto, è figlio di un tassista e di una casalinga e fa fotografie di cronaca, nera e rosa, con trasferte freddissime a Saint Vincent per fotografare le star al casinò, scatta foto industriali per le brochure delle aziende locali, foto di battesimi, cresime e soprattutto di matrimoni. Ma proprio le attrezzature che si porta sulle spalle ai matrimoni, così pesanti e scomode, gli fanno venire l’idea con cui avrebbe svoltato la sua vita. Insieme a un amico geniale, Gilberto Battocchio, si ingegna a produrne di più leggere, maneggevoli e veloci da usare. Gli riescono talmente bene che decidono di metterle in produzione: nasce così la Manfrotto, l’azienda di treppiedi per macchine fotografiche numero uno al mondo.
Con la fortuna accumulata, il 2 dicembre 1988 compra Palazzo Roberti, pensando di restaurarlo e di farne l’abitazione di famiglia. In una parte di Palazzo Roberti c’era una libreria e il libraio, che già da qualche anno aveva lo sfratto, in un tentativo di rimanere riesce a fare mettere un vincolo ministeriale che destina l’uso del palazzo a libreria. Ma Lino non ne ha idea, quando lo scopre è costretto ad abbandonare l’idea di dormire nella stessa stanza di Napoleone ma accoglie la sfida: acquista la storica libreria di Bassano, che si chiamava Scrimin, per trasferirla lì.


Lino Manfrotto © Famiglia Manfrotto


Così un vincolo ministeriale cambia la sua vita ma soprattutto cambierà quella delle sue tre figlie: Veronica, Lorenza e Lavinia che non avevano mai desiderato, pensato o immaginato di diventare libraie.
Le tre sorelle, a partire dal 1991, dopo gli studi, iniziano a lavorare da Scrimin: sanno ben poco del mondo dei libri e non sono nemmeno delle lettrici forti, ma imparano a fare gli ordini e vanno con il furgone ai magazzini delle case editrici a Padova per ritirarli, li stipano in un deposito di Bassano da cui poi vanno avanti e indietro con un carretto carico di volumi. Il lavoro è tanto ma le cose non girano, il padre ogni anno deve ripianare i conti. Però imparano a fare tutto e per alzare lo sguardo, a turno, vanno a lavorare nella mitica libreria Hatchards in Piccadilly Street a Londra, da cui poi copieranno gli scaffali, i mobili e le riunioni editoriali.
Il 28 marzo 1998 la libreria si sposta a Palazzo Roberti, che Lino ha restaurato, e inizia la nuova avventura. Il padre però è chiaro: da questo momento dovete stare in piedi da sole. «Le cose sono andate subito bene – racconta Lorenza - ed era anche piuttosto semplice: collaboratori preparati, un buon assortimento di libri, accurati rifornimenti, la bellezza del posto. Era sufficiente aprire il portone e la gente entrava da sé. Nonostante i modelli della scuola librai ci avessero date per spacciate, già al secondo anno avevamo raggiungo il punto di pareggio, il famigerato break-even point».

Da sinistra: Lorenza Manfrotto, Inge Feltrinelli, Veronica Manfrotto, Lavinia Manfrotto e Lino Manfrotto © Famiglia Manfrotto


È l’effetto che fa a me la prima volta che ci entro, resto incantato dalla cura, dalla bellezza, dalla sensazione di accoglienza e dalla quantità di volumi (26mila titoli) divisi in sezioni molto ben definite. «I cinque libri che abbiamo venduto di più in questi 26 anni – racconta Lavinia - sono stati “Il codice da Vinci” di Dan Brown, “Il cacciatore di aquiloni” di Khaled Hosseini, “Sul Grappa dopo la vittoria” di Paolo Malaguti, “Cambiare l’acqua ai fiori” di Valerie Perrin e “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery. Che al terzo posto ci sia il romanzo d’esordio di Malaguti ambientato sul Monte Grappa fa capire quanto sia radicato il legame che i bassanesi hanno con il proprio territorio e la sua storia».
Le cose vanno bene fino al 2008, l’anno magico nel quale, complici dieci giorni di sconti per i festeggiamenti dei dieci anni della libreria, raggiungono il record di fatturato. Finita la festa però inizia il declino, la crisi del libro inizia a farsi sentire sempre più forte e le librerie storiche chiudono una dopo l’altra. Per resistere provano ad ampliare l’offerta, aprendo il reparto cartoleria e oggettistica. Ma non basta.
Nel 2012 le tre sorelle, in difficoltà con alcuni pagamenti, devono rompere il patto e chiedere un piccolo prestito al padre: «Glielo abbiamo restituito il mese dopo – spiega Veronica - ma è stato un monito: la scelta era soccombere o trovare il modo di risollevarci. Con la libreria non ci si arricchisce (o meglio ci si arricchisce in tutto tranne che in denaro) ma non potevamo pensare di dover ricorrere ai prestiti o fare debiti. Ci siamo dette: o invertiamo la rotta o chiudiamo».
Hanno cambiato completamente stile e atteggiamento: «Ci siamo inventate di tutto: dai laboratori per bambini in cui con uova, farina e mattarello facevamo loro preparare tagliatelle e biscotti, al tè con i libri, ai corsi di scrittura, alle tantissime presentazioni. E nonostante i temibili nemici che fronteggiavamo (Amazon, Ebook, smartphone, centri commerciali) ce l’abbiamo fatta. Abbiamo mosso la nostra pesantissima, meravigliosa nave e l’abbiamo rimessa sulla rotta della salvezza».


L'ingresso posteriore della Libreria Palazzo Roberti © Libreria Palazzo Roberti


La cosa che funziona meglio sono gli incontri con gli autori, ne fanno anche settanta l’anno, e da lì è nata la voglia di pensare più in grande: «Quando accompagnavamo gli scrittori a vedere la città, dopo le presentazioni, ci dicevano che era molto bella e che si sarebbe prestata a ospitare un festival. Abbiamo deciso di provarci ma volevamo che fosse una proiezione della libreria all’esterno, con la stessa cura e la stessa magia ma che potesse essere ospitato nei luoghi più belli di Bassano, a partire dal cortile del castello degli Ezzelini».
La prima edizione è nel 2016: «Le case editrici ci proponevano di portare libri che raccontavano tutti storie di resistenza: fisica, psicologica, economica. Così abbiamo deciso di chiamare il nostro festival “Resistere”, perché la vita prima o poi ti mette alla prova e tu devi resistere. Quell’anno è venuto Sepulveda e per noi è stato un momento indimenticabile».


Quest’anno il festival “Resistere” inaugura la collaborazione con Chora Media e Will attraverso una serie di eventi durante i giorni della rassegna. Trovate qui il programma completo

L’inaugurazione della prima edizione del festival nel 2016 con Carlin Petrini


Sono passati 26 anni dall’apertura della libreria: «Se ci guardiamo indietro vediamo che grazie al cielo la strada percorsa era corretta e ci ha portate dove siamo, ma nessun salto triplo ci avrebbe condotte qui: è stato necessario ogni passo, non ci sono scorciatoie. Ci siamo guadagnate ogni punto di sconto in più, ogni autore che è venuto, ogni relazione proficua, ogni cliente, ogni riga scritta su di noi. Ci vogliono tempo e abnegazione. Il lavoro è fatica, prima dell’appagamento viene la fatica. E non si può avere soddisfazione in alcun lavoro se non si fa prima fatica»



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