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in particolare l'introduzione con i suoi link e il primo articolo
Con le parole ci esprimiamo e comunichiamo. Veicoliamo messaggi e la cultura della nostra società. Non sorprende che proprio le parole celino aspetti sociali che caratterizzano la società in cui viviamo, e questo avviene in positivo e in negativo. Ecco una lista di espressioni sessiste che dobbiamo smettere di pronunciare, o fermare gli altri dal dirle quando le ascoltiamo
. 1. “È un lavoro da uomini/un lavoro da maschi” 2. “Con chi è stata per ottenere quel posto?” 3. “Una donna con gli attributi” 4. “Una donna acida” 5. “Vestita e truccata così non esci” 6. “Cosa indossava?” 7. “Era ubriaca?” 8. “È una donna fortunata: ha un compagno che l’aiuta in casa” 9. “Auguri e figli maschi” 10. “Donna al volante pericolo costante” 11. “È una poco di buono” 12. “Dietro ogni grande uomo, c’è una grande donna
Questo in generale . Ma entrando ne dettaglio ad esempio
Sul lavoro
Diverse espressioni utilizzate nel mondo del lavoro sminuiscono le capacità delle donne. Alcune espressioni trasmettono il messaggio che certe posizioni lavorative siano adatte solo agli uomini come nel caso di “Questo lavoro non è adatto ad una donna” e che il ruolo delle donne debba essere confinato alla cucina (“Datti ai fornelli”). Inoltre secondo alcuni modi di dire le donne possono arrivare in alto solo usando il loro corpo (“Con chi sei stata per fare questo lavoro?”). Quando poi una donna dimostra le sue competenze la si paragona a un uomo “Una donna con le palle”. Inoltre le donne sul posto di lavoro vengono talvolta considerate frustrate e acide: “La mia capa/collega è acida, avrà il ciclo” ne è solo un esempio appunto .
Anche nei rapporti sentimentali in cui L’amore come è possesso
Certe espressioni come “Se non stai con me, non puoi stare con nessuno" e "Perché non hai risposto subito al telefono?" possono sembrare espressioni di amore e preoccupazione, quando in realtà rivelano l'intenzione di avere il controllo sull'altra persona. Vi sono poi altre espressioni che più esplicitamente dimostrano l’intento di controllo, come “Vestita/truccata così non esci”.Esso porta anche ad Attacchi all’autostima . Infatti Spesso le donne che vivono una situazione di violenza hanno difficoltà ad uscirne perché il maltrattante le umilia al punto da distruggere la forza e l'autostima necessarie per lasciare la relazione tramite espressioni come "Zitta, a nessuno importa quello che dici", "Nessuno ti crederà" o ancora "Sei pazza, non è mai successo, ti inventi tutto". Oppure a
- espressioni di minacce
Il timore per la propria incolumità e quella dei loro affetti scaturito da minacce e ricatti come "Se mi lasci, mi uccido", "Se lo dici, ti ammazzo", “Se provi a sentire ancora X (amico/collega), vedrai che succede” è uno dei motivi per cui molte donne rimangono in situazioni di abuso o evitano di denunciare i propri aggressori.
- di vittimizzazione
Si ricerca spesso un movente o una giustificazione del reato nei comportamenti o nell’abbigliamento della donna. "L’hai provocato”, "Cosa indossavi?" e “Eri ubriaca” sono solo alcuni esempi.
- Il delitto passionale e il ritratto dell’aggressore fatto dai media
Gli eventi dall’epilogo più grave vengono narrati come “delitti passionali”, dei gesti folli dovuti al “troppo amore” o giustificati dalla gelosia come qualcosa che “acceca”. Inoltre, spesso l’aggressore viene ritratto come una persona per bene per suscitare empatia nei suoi confronti, ad esempio “Sportivo, credente e ottimo lavoratore: il ritratto di X”. "Crediamo che il linguaggio abbia un ruolo centrale nel cambiamento culturale necessario per avere uno sguardo diverso sul fenomeno della violenza di genere. Infatti Non parliamo di VITTIME parliamo di DONNE, in stato di temporaneo disagio. Il termine “vittima” infatti stigmatizza la donna in un ruolo passivo e ignora la forza di cui è portatrice quando intraprende il faticoso percorso di uscita dalla violenza” dichiara Manuela Ulivi.
da https://facta.news/storie/
di Anna Toniolo
Nelle ultime settimane Greta Thunberg è stata al centro di una notizia falsa secondo cui l’attivista avrebbe affermato che se gli esseri umani vogliono continuare a combattere le guerre dovrebbero perlomeno usare «carri armati e armi sostenibili». Si tratta in realtà di un video manipolato. Ma l’attivista svedese non è l’unica donna che si è ritrovata, in tempi più o meno recenti, protagonista di notizie completamente false. È il caso per esempio di Elly Schlein, deputata e segretaria del Partito Democratico (PD), a cui sono state attribuite frasi che non ha mai pronunciato. O ancora Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione europea, che si trova da anni al centro di varie narrazioni della disinformazione.
Questi sono solo alcuni esempi di notizie false, satiriche o fuori contesto che riguardano donne che ricoprono posizioni di potere o ruoli pubblici, come scrittrici, giornaliste, artiste o esponenti della società civile che lottano contro le discriminazioni o la crisi climatica. Si tratta di un tipo di disinformazione non casuale, che segue pattern specifici e che si può definire “disinformazione di genere”. Un modus operandi che colpisce le donne online, ma che ha delle ripercussioni anche offline e, soprattutto, ha degli obiettivi ben precisi.
Cos’è la disinformazione di genere
Lucina Di Meco, esperta di uguaglianza di genere riconosciuta a livello internazionale e co-fondatrice di #ShePersisted Global, un’iniziativa per contrastare la disinformazione di genere e gli attacchi online contro le donne in politica, ha definito a Facta.news la disinformazione di genere come «la diffusione di informazioni e immagini ingannevoli o imprecise» contro donne leader politiche o donne che ricoprono incarichi pubblici. Secondo Di Meco, questo tipo di narrazione attinge dalla misoginia, dal sessismo e da stereotipi sessisti che dipingono le donne come «deboli, stupide e che mettono in risalto l’ossessione nei confronti della sessualità delle donne».
Il report A/78/288 delle Nazioni Unite sulla disinformazione di genere e le sue implicazioni per il diritto alla libertà di espressione, pubblicato il 7 agosto 2023, spiega che l’obiettivo generale della disinformazione di genere «è quello di minare i diritti umani, l’uguaglianza di genere, lo sviluppo sostenibile e la democrazia». Sempre nello stesso report si legge che, a differenza di altre forme di disinformazione, quella di genere non si basa solo su informazioni false, ma anche sulle narrazioni di genere esistenti per raggiungere i suoi obiettivi sociali e politici, «tra cui il mantenimento dello status quo di genere o la creazione di un elettorato più polarizzato».
Si tratta, quindi, di un tipo di narrazione coordinata che ha come obiettivo quello di diffondere notizie false sulle donne in posizione di potere, diffusa rafforzando stereotipi di genere già esistenti, caratteristica che contribuisce a rendere questo tipo di disinformazione ancora più difficile da contrastare. «Se un certo stereotipo esiste, questo viene rafforzato» ha spiegato Di Meco, «è molto difficile contrastarlo con dei mezzi puramente razionali e cognitivi» e le operazioni di fact-checking non bastano più.
L’obiettivo è silenziare voci e rivendicazioni
Nel suo rapporto del 2020 Demos, think tank britannico che conduce ricerche mirate al miglioramento della democrazia, ha presentato la disinformazione di genere come una serie di attività online che hanno obiettivi politici, sociali ed economici. L’anno successivo, invece, uno studio condotto da alcuni studiosi del Wilson Center, centro di ricerca che fornisce ai responsabili politici analisi imparziali sugli affari globali, ha evidenziato tre caratteristiche principali di questo tipo di disinformazione: falsità, intento maligno e coordinamento.
«L’obiettivo è quello di silenziare le donne ma anche, e soprattutto, silenziare alcune delle campagne che queste donne portano avanti» ha spiegato Lucina Di Meco, che ha aggiunto come attraverso il lavoro di #ShePersisted Global «quando noi vediamo che non tutte le donne sono silenziate allo stesso modo ci rendiamo conto che non si tratta solamente di misoginia, ma di un programma politico». In particolare, a essere più colpite sono le donne che si fanno portavoce di battaglie che riguardano, per esempio, il diritto di abortire, ma anche altre tematiche legate alla sessualità, come l’educazione sessuale, o l’accoglienza delle persone migranti.
Si tratta di uno schema d’attacco che accomuna le donne di molti Paesi quando si espongono e rivendicano diritti o sfidano i poteri costituiti. Per esempio, Di Meco ha raccontato che in Paesi dove sono presenti governi autoritari o leader populisti che stanno erodendo la democrazia, come la Tunisia o l’Ungheria,«abbiamo visto che le donne che fanno parte di movimenti in opposizione a queste figure politiche, sono ferocemente attaccate». L’obiettivo è, quindi, silenziare le donne e le loro battaglie, ma chi coordina campagne di disinformazione di questo tipo ha come intento anche un ritorno politico in grado di mantenere lo status quo.
La disinformazione di genere nel concreto
Gli esempi che si possono fare per comprendere come la gendered disinformation si concretizza online sono molteplici, ma ne bastano alcuni per inquadrare le caratteristiche di questo fenomeno.
Laura Boldrini, presidente della Camera dal 2013 al 2018 e oggi deputata del Partito Democratico (PD), è stata per anni al centro di campagne di disinformazione che cercavano di ridicolizzare e sminuire la sua persona. Le illazioni nei suoi confronti in riferimento a opinioni e disegni di legge da lei sostenuti sono state numerose, come ad esempio la proposta di legge sulle “misure per la prevenzione e il contrasto della diffusione di manifestazioni di odio mediante la rete internet”, da lei presentata nel 2021, e che l’ha messa nel mirino di offese che la accusavano di voler censurare la stampa e la libertà di espressione.
Boldrini è stata anche vittima di numerose narrazioni di disinformazione sul tema dell’immigrazione che miravano a descriverla come eccessivamente favorevole ai migranti e rifugiati, e allo stesso tempo indifferente e incurante nei confronti dei cittadini italiani. Un esempio è un’immagine falsa che nel 2021 accusava la parlamentare di aver chiesto all’allora primo ministro Mario Draghi «un reddito di dignità di 500 euro al mese per i migranti». La falsa notizia circolava dal 2016 e si trattava, invece, di un video decontestualizzato in cui in origine Laura Boldrini si riferiva al reddito di dignità per i cittadini europei.
Un altro esempio di campagne disinformative che coinvolgono le donne in Italia è quello che riguarda Maria Elena Boschi, deputata di Italia Viva. Le campagne di disinformazione online contro di lei hanno una forte componente sessista e misogina. Molte vignette, infatti, hanno messo in risalto il suo aspetto estetico puntando sullo stereotipo che associa, chiaramente in malafede, bellezza e stupidità e, quindi, una presunta inadeguatezza di Boschi alla politica. Nel 2015, per esempio, era stata diffusa online una foto di Boschi mentre leggeva una copia de L’Unità, storico quotidiano italiano, al contrario. In realtà si trattava di una foto modificata. L’originale era stata twittata dalla stessa Boschi in occasione del ritorno alle stampe del giornale.
Gender-trolling
Quelli appena citati sono solo alcuni dei moltissimi casi di disinformazione di genere che si scagliano contro le donne e contro le loro rivendicazioni. Spesso, però, notizie false, fuori contesto o addirittura nate con intento satirico generano veri e propri discorsi d’odio.
È in questo contesto che si inserisce un altro fenomeno che ha a che fare con la violenza online nei confronti delle donne, quello che Karla Mantilla, autrice ed esperta di studi femministi, ha chiamato Gendertrolling. Il trolling è un comportamento sociale, adottato dai cosiddetti “troll”, che punta a infastidire le persone online tramite insinuazioni che potrebbero avere un fondamento reale, ma che spesso sono, invece, completamente false.
Mantilla ha spiegato a Facta.news che «le donne subiscono una costellazione unica di molestie che io ho chiamato gendertrolling», ed è un fenomeno più feroce, violento, aggressivo, minaccioso, pervasivo e duraturo del trolling generico. Si tratta, sempre secondo Mantilla, di una strategia anche in questo caso rivolta alle donne che fanno valere le loro opinioni online, che vengono assalite da una serie di commenti a sfondo sessuale che includono minacce di stupro o di morte. «Attraverso questa pratica, le idee delle donne non vengono prese sul serio o vengono messe da parte e ignorate» ha spiegato Mantilla, «con il risultato che i contributi intellettuali delle donne al discorso pubblico vengono ignorati, scartati e cancellati».
Essere donne online, occupare posizioni di potere o, semplicemente, esprimere le proprie opinioni può quindi comportare una serie di conseguenze che comprendono campagne di disinformazione, violenza e insulti. Comportamenti che seguono uno schema preciso.
A questo punto sorge spontaneo chiedersi se campagne di odio come quelle citate possano avere conseguenze offline sulle vite delle donne. Sia Karla Mantilla che Lucina Di Meco concordano sul fatto che questo tipo di aggressioni hanno effettivamente ripercussioni sulle vite delle donne che le subiscono, che possono addirittura finire nel peggiore dei modi: portando ad attacchi fisici o alla morte.
La violenza digitale ha conseguenze sulle vite delle persone
In tutto il mondo molte delle minacce che derivano dalla narrazione disinformativa e violenta nei confronti delle donne portano con sé pericoli reali.
Per esempio, l’ex ministra dell’ambiente e dei cambiamenti climatici del Canada Catherine McKenna ha lasciato il suo incarico nel 2021, dopo essere stata bersaglio di campagne disinformative che avevano portato l’odio nei suoi confronti a un livello tale da essere fermata per strada insieme alla sua famiglia, ricevendo minacce. Accusata ingiustamente di diffondere notizie che esageravano le conseguenze dei cambiamenti climatici, McKenna era stata definita “Barbie del clima” da un collega e tale hashtag era stato poi ripreso e diffuso online migliaia di volte.
Un altro esempio da citare quando si parla delle conseguenze concrete che la disinformazione di genere ha sulla vita delle donne è l’assassinio di Jo Cox in Gran Bretagna. La deputata laburista è deceduta dopo essere stata ripetutamente colpita con un’arma da taglio il 16 giugno 2016, una settimana prima del referendum del 23 giugno sull’appartenenza del Regno Unito all’Unione europea (UE). Cox era una politica impegnata nella campagna per il “remain”, ovvero per restare all’interno dell’Unione Europea, nel periodo in cui nel Paese si discuteva della Brexit ed era stata più volte al centro di narrazioni di disinformazione che avevano generato una violenta ondata di odio nei suoi confronti. Mentre eseguiva l’attacco, il suo assassino aveva pronunciato frasi come «prima la Gran Bretagna» e «mantenere la Gran Bretagna indipendente».
Questo omicidio si inserisce in un contesto politico più ampio, in cui suprematisti bianchi e sostenitori del “leave”, quindi dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, hanno condiviso per mesi sui social una serie di informazioni false e teorie del complotto che hanno aumentato la rabbia nei confronti di chi sosteneva, invece, l’appartenenza all’UE.
Su Facebook e Twitter erano stati diffuse notizie false su temi come l’immigrazione, l’Islam e la politica estera. Il giorno prima che Cox fosse barbaramente assassinata, ad esempio, il leader del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito Nigel Farage aveva diffuso un’immagine anti-immigrazione che mostrava migliaia di persone migranti, insieme al commento «L’UE ha fallito con tutti noi. Dobbiamo liberarci dall’UE e riprendere il controllo dei nostri confini». In realtà si trattava di una fotografia scattata in Slovenia nel 2015, quindi un anno prima, che mostrava migliaia di persone che avevano appena attraversato il confine con la Croazia e non aveva, quindi, niente a che fare con il Regno Unito. Secondo il deputato laburista Stephen Kinnock, prima della sua morte Cox aveva commentato indignata la diffusione di quell’immagine. Questo mix di odio, notizie false, complottismo e suprematismo ha, infine, trovato in Cox il capro espiatorio perfetto, portando alla più tragica delle conclusioni.
Ma non solo episodi sporadici e specifici, la disinformazione di genere che colpisce le donne può avere conseguenze anche più generalizzate, su tutta una categoria di giovani donne che si sentono intimorite da quanto accade online e dai rischi che comporta esporsi per una determinata causa. Secondo Lucina Di Meco questo ha delle conseguenze molto gravi: «di fatto noi sappiamo che le donne, in particolare le giovani donne, si auto censurano online sempre di più».
Tutto ciò è poi aggravato dalla diffusa assenza di una legislazione specifica per poter affrontare casi di disinformazione come quelli descritti e le piattaforme social, l’ambiente digitale in cui le campagne d’odio si dispiegano, non si sono ancora dotate di strumenti vincolanti e davvero efficaci per evitare che questo tipo di narrative riescano a diventare virali.
Una combinazione di fattori che mette a rischio la presenza delle donne online, la loro credibilità e le loro rivendicazioni, ma che ha anche delle ripercussioni sulle loro vite offline e sui sogni e le aspirazioni delle generazioni future. La disinformazione di genere agisce come un silenziatore per portare avanti dinamiche patriarcali che vedono le donne come soggetti che non possono occupare posizioni di potere ed escludendo di conseguenza un’intera parte della popolazione dalla vita pubblica. Una dinamica che, in ultima analisi, danneggia tutti e tutte.
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