Lavoro e figli: un altro modo è possibile

    della newsletter  di repubblica   Scusi, Lei. 


Sono 500 fogli, uno sull’altro. Stampati tutti, con poche righe di descrizione o con lunghi racconti tutt’altro che burocratici. “Richieste di lavoro, certo, ma anche storie da condividere. E non è difficile: perché tante di quelle sensazioni le conosco bene”, Virginia Scirè in questi giorni non sa più come rispondere a tutti. A quei 500 curriculum arrivati in pochi giorni, a mail, messaggi, telefonate, dopo che aveva visto la stilista Elisabetta Franchi raccontare delle sue dipendenti “donne over 40 che possono lavorare h24 perché i figli sono grandi” e per questo aveva fatto un video su Instagram per dire che un altro modo è possibile.
Il team di WearMe, al centro Virginia Scirè 
 Senza immaginare cosa sarebbe successo. “Eppure se ci pensi quello che facciamo è la cosa più naturale del mondo: lavorare e crescere i nostri figli. Senza dover scegliere tra le due cose”. È una piccola imprenditrice di Castelfranco Veneto, due dipendenti più altre due che firmano in questi giorni e sei collaboratori – c’è anche un uomo, uno solo per ora – esterni che si occupano del marketing. E la sua azienda fa del lavoro agile una religione: orario di apertura dalle 9 alle 16, per avere il pomeriggio e la sera realmente liberi – “ma una di noi esce alle 15,30 perché l’asilo di suo figlio chiude alle 16, semplicemente al mattino arriva mezz’ora prima” – e fa niente se ci sono compratori che restano spiazzati, abituati a incontrare le aziende anche dopo le 18. La flessibilità è totale, si lavora sui progetti e non sul monte ore (che ovviamente però è scritto nei contratti), chi è nel periodo dell’allattamento può scegliere di lavorare da casa alcune ore e in ufficio altre. E quando le scuole erano chiuse e i bambini in Dad “li portavamo in ufficio: certo, quella giornata era sicuramente meno produttiva per noi, ma poi si recupera”. Della storia di Virginia Scirè, 43 anni, founder di WearMe – abbigliamento per portare i neonati, cioè non solo fasce e marsupi – ne ho letto sul profilo Instagram di Lia Quartapelle. Che è una deputata del Pd, ma è anche una (giovane) donna che mette in connessione altre donne. Nel post scrive: “Lia, devo portarti alcuni curriculum. Circa 500”. No, non è la storia di come si raccomandano delle persone a una politica. È la storia di Virginia Scirè, imprenditrice e fondatrice di WearMe. Ed è la storia di 500 mamme che vorrebbero lavorare in modo diverso. Virginia fonda WearMe quando si deve licenziare dall’azienda in cui lavorava perché si assentava troppo. Virginia doveva infatti lavorare e intanto prendersi cura di suo figlio, affetto da una malattia che richiedeva la presenza assidua della mamma in ospedale e durante le cure. A partire dalla sua vicenda, ha deciso che lavorare nella sua azienda sarebbe stato diverso: ha scelto di organizzare il lavoro secondo i tempi delle sue dipendenti, che sono tutte mamme, con orari di ingresso flessibili, la possibilità di smart working in base alle esigenze delle famiglie, e alle 16 si chiude. Dopo la vicenda di Elisabetta Franchi, il suo modo di lavorare, a misura di genitore, è stato raccontato da vari giornali e TV a dimostrazione che, per fortuna, non tutti gli imprenditori o le imprenditrici si comportano come Elisabetta Franchi. Con questo tam tam, più di 500 mamme hanno mandato a Wear me il loro curriculum. Sono mamme stanche, nervose, piene di senso di colpa, mamme che cercano di tenere tutto insieme e che “lavorano solo per lo stipendio”, ma che vorrebbero essere impiegate da aziende capaci di lavorare in modo flessibile, per risultati. Virginia mi ha consegnato simbolicamente i loro curriculum, che ho ricevuto come impegno a lavorare insieme per avere: il congedo di paternità obbligatorio; più servizi per la famiglia; più tempo pieno, per i bambini e anche per permettere alle mamme di lavorare. Costruire un’azienda che tenga conto delle persone e delle loro esigenze è possibile. Costruire intorno a queste aziende un paese che aiuta i genitori che lavorano non solo è necessario ma è anche giusto”.

Lia Quartapelle con Virginia Scirè
Lia Quartapelle con Virginia Scirè  

Virginia Scirè ha deciso di provare a costruire qualcosa intorno ai suoi ritmi quando questi sono cambiati. “Ho iniziato a lavorare in una società finanziaria a Castelfranco, poi nel 2008 è nato il mio primo figlio, che aveva dei problemi di salute e necessità di ricoveri. Ero ancora in maternità, avevo partorito da tre mesi quando la mia società mi ha comunicato che mi avrebbero trasferito a Verona, a 110 chilometri da casa”. Passa ancora qualche mese, la maternità finisce: “Ho capito che non sarebbe stato possibile conciliare quel lavoro con quelle condizioni e la mia vita ma non avevo alternativa: così mi sono dovuta licenziare. Ed è stata una rinuncia, non solo economica”. In quei mesi di maternità Virginia fa acquisti online per il suo bambino, e lì decide di provare ad aprire un negozio di abbigliamento per bambini su eBay, da lì passa a un sito di e-commerce e a un ufficio fisico “perché così non dovevo stare sempre a casa”, poi un piccolo capannone e i primi quattro dipendenti, “tra loro Tania, che è ancora con me”, fino alla seconda gravidanza, nel 2013. “Mia figlia non dormiva mai, se non quando la prendevo in braccia, di lavorare non se ne parlava. Fino a quando un’amica mi ha regalato una fascia: la svolta”. Il baby wearing diventa il suo lavoro, vende fasce e marsupi e, nel 2017 con una sorta di crowdfunding, riesce a produrre la prima giacca per portare i bambini, che adesso è uno dei punti di forza di WearMe. “Ma lavoravo tantissime ore, vedevo i miei figli al mattino e a sera tardi, mi sembrava di non fare bene l’imprenditrice, ma neanche la mamma”. In quel periodo Tania aveva avuto un bambino, “allora ho iniziato a riflettere su come impostare il nostro lavoro: in Germania tante aziende chiudono alle 16, chi mi impediva di fare lo stesso?”. Tania è stata la prima a sperimentare la flessibilità totale durante l’allattamento, e lo smart working per noi era una realtà prima della pandemia. Durante la seconda ondata, quando siamo tornati anche in ufficio, c’erano giorni in cui portavamo i bambini: loro erano in Dad, i nonni andavano protetti, la cosa migliore era quella”. Oggi WearMe ha triplicato il fatturato (dai 180mila del 2019 ai 610mila del 2021, quanto i primi sei mesi di quest’anno, è stata inserita nell’incubatore SocialFare come start up di impatto sociale e Virginia Scirè ha due dipendenti e sei collaboratori per il team marketing che lavorano in smart working, dalla Puglia e dalla Spagna. Tutte donne, tranne uno, e sono donne e madri anche le due nuove dipendenti che firmano in questi giorni. Madri come quelle che, dopo quel reel su Instagram, le hanno scritto: “Tante hanno perso il lavoro perché non potevano avere il part-time che serviva per la famiglia, hanno diverse professionalità, livelli di istruzione e storie. Tante altre lavorano ma con il costante affanno di vedere i figli solo quando tornano la sera di perdersi qualcosa”. Ma gli uomini esistono in questa storia? “Sì, ci sono, e ce ne sono molto presenti: ma se non ci sono servizi o nonni non bastano neanche loro. Infine: le madri e i padri dovrebbero avere entrambi la possibilità di crescere i figli

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