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6.7.24

nonostante lo schifo del caso di Giovanni Ianelli e dell'insabbiamento dellla vicenda mi appassionano le storie ad esso legate come quella di Tadej Pogacar

 Nonostante    il  doping    e le  corruzioni  presenti  in tutti gli sport  agonistici   e casi   di criminalità    e  insabbiamenti   come il Pantani  e   il   caso del povero   Giovanni Ianelli   per  rimanere  nell'ambito del  ciclismo  ne  ho parlato   in 

Lo sport    e le  sue    storie  mi  ha   sempre  anche  se  passivamente    mi   ha  sempre  appassionato . In questo caso  il  ciclismo  . 
Ecco    dallo  scorso numero dell'inserto di  7 settimanale  del  corriere  della sera    la   storia    di  Tadej Pogacar  





L’EROE TOTALE CHE HA PORTATO IL CICLISMO FUORI DAI CONFINI DEL TIFO SPECIALIZZATO SENZA ESSERE UN CANNIBALE, ANZI...

Il  ciclismo   e le  sue storie Alle 16 e 30 dello scorso 25 maggio la penultima tappa del Giro d’Italia si arrampicava tra migliaia di tifosi su quel Monte Grappa tanto caro alla Patria quanto stramaledetto dai ciclisti per la sua durezza. Lasequenza più memorabile (un milione di visualizzazioni sui social in poche ore) di tre settimane di corsa si è materializzata in una curva orientata dolcemente verso destra, poco lontano dalla cima. Solo al comando in maglia rosa e lanciato ad altissima velocità verso il trionfo finale, Tadej Pogacar si è visto affiancare a destra da un massaggiatore della sua squadra pronto ad allungargli una borraccia, a sinistra da un ragazzino che gli correva a fianco incitandolo. Con tempismo surreale e un solo ampio gesto del braccio, Tadej ha afferrato senza rallentare la borraccia e l’ha passata al ragazzino (Mattia da Vincenza, 12 anni, che per poco non è svenuto per l’emozione) regalandogli anche un sorriso. La leggenda del più forte ciclista di tutti i tempi è in corso di scrittura da quattro stagioni, quella dell’Eroe  Sorridente si è concretizzata per la prima volta sul Monte Grappa  braccio, Tadej ha afferrato senza rallentare la borraccia e l’ha passata al ragazzino (Mattia da Vincenza, 12 anni, che per poco non è svenuto per l’emozione  foto sotto  a sinistra   ) regalandogli anche un sorriso.
La leggenda del più forte ciclista di tutti i tempi è in corso di scrittura da quattro stagioni, quella dell’Eroe  Sorridente si è concretizzata per la prima volta sul Monte Grappa.
La storia del ciclismo è piena di eroi.Eroi afflitti da cannibalismo come i supremi Eddy Merckx e Bernard Hinault, incapaci di considerare l’avversario altro che una preda da sbranare. Eroi dal sorriso triste e dalla vita breve come Fausto Coppi, dal destino segnato come Jacques Anquetil e Luis Ocaña. Eroi farmacologici come Lance Armstrong, tragici come Marco Pantani. Nelle biografie di quella dozzina di uomini che hanno fatto la leggenda ci sono spesso sfumature ciniche, malinconiche o da tragedia. Ora c’è lui, Tadej Pogacar da Klanec, Slovenia, classe 1998, prima apparizione nel mondo delle due ruote il 29 marzo 2015 a Loano, nel Savonese, quand’era poco più che adolescente. Oggi Poga appare come il primo fuoriclasse capace di traghettare il ciclismo fuori dai confini del tifo specializzato, dei praticanti, del popolo dei camperisti e dei cicloturisti che fanno la coda per tifare a bordo strada, sulle salite mitiche di Alpi e Pirenei. Il primo a non suscitare retropensieri in un mondo dove troppo spesso gli asini si sono trasformati in cavalli di razza grazie all’aiuto di compiacenti stregoni e di un’etica fragilissima: quando Poga

SE A 20 ANNI NON HAI COMBINATO QUALCOSA DEVI ABBANDONARE A 25, TADEJ HA GIÀ VINTO PIÙ DI MERCKX E HINAULT

pedala, sprizza classe visibile anche a chi di ciclismo capisce poco o nulla .Un uomo con la popolarità di un asso del calcio ma senza un minimo della spocchia di un Ronaldo o di un Messi che rispetta e onora ogni avversario e che ammette sempre la superiorità di chi (pochissimi, a dire il vero) lo sconfigge.

In quel Trofeo Città di Loano dove vestiva la maglia del Team Radenska, Pogacar arrivò 18°: la maggior parte degli 89 giovanissimi che parteciparono alla corsa ha lasciato da tempo l’agonismo. Il ciclismo è così totalizzante, così brutale che se a 20 anni non hai combinato qualcosa devi abbandonare il tuo sogno e provare a finire gli studi trascurati per sei ore di allenamento al giorno o trovare velocemente un lavoro. Chissà se Matteo Bellia o Francesco Bonadrini che allora staccarono Pogacar per poi, nel giro di uno due anni, appendere la bicicletta al chiodo e sparire anche dai radar dei siti specializzati, si resero conto di aver battuto colui che oggi è già considerato il più forte di tutti i tempi.

Far capire la grandezza di Pogacar a un non addetto ai lavori non è semplicissimo. Da 50 anni a questa parte, nelle due ruote domina la specializzazione. O vinci le grandi corse a tappe (sei scheletrico, agilissimo, forte in salita) o le classiche di un giorno (sei potente, aggressivo) o le cronometro (hai vistose masse muscolari, enorme capacità di sofferenza), combinando al massimo due qualità su tre. O vai forte in salita o sei implacabile in pianura. Gli ultimi eroi totali sono stati, quasi 50 anni fa, il belga Merckx, detto il Cannibale, e il francese Hinault. Frutti tardivi del ciclismo contadino e affamato dei tempi eroici, pronti a tutto pur di umiliare gli avversari, severissimi con i gregari considerati poco più che fedeli servitori di una causa divina. Hinault che vinse imprecando l’odiatissima Roubaix pur di completare il suo palmares e smentire chi non lo riteneva adatto. Merckx che tutt’ora — anziano e malconcio — rimpiange di non aver mai vinto la Paris-Tour, la mezza classica insignificante che è l’unica a mancare alla sua sterminata collezione.

A 25 anni Pogacar ha — in rapporto all’età — già vinto più di entrambi: due Tour de France, l’ultimo Giro d’Italia, tre delle cinque classiche-monumento (Il Lombardia tre volte, la Liegi due, una il Fiandre) e un’infinità di altre gare del calendario, in quasi tutti i casi con ampio distacco. A metà luglio potrebbe aver realizzato la doppietta Giro-Tour nello stesso anno (ultimo a riuscirci Pantani nel 1998, in altri tempi e altro ciclismo) a settembre vestire la maglia iridata sul durissimo percorso di Zurigo.

Per descrivere i super poteri di Pogacar si può, certo, ricorrere alla scienza. Quando pedala alla morte in salita o durante una cronometro, in ogni chilo di muscoli del corpo dello sloveno c’è quasi un watt di vantaggio rispetto ai suoi avversari più quotati: una F1 contro delle sportcar di serie. Quando gli altri scattano lui passeggia e quando lui scatta il resto del mondo boccheggia. A chi non interessano i watt basta guardarlo: la bocca mai dilatata a cercare ossigeno, spalle e fianchi che non ondeggiano nel fuorisella, il corpo mai accasciato sul manubrio ma sempre proteso in avanti a cercare con gli occhi il punto in cui fare la differenza, come un felino sul punto di ghermire la preda. Stilisticamente, una delle cose più sublimi in circolazione da sempre. «Che Tadej sia un fuoriclasse» ha spiegato Guillaume Martin, corridore francese che scrive saggi di filosofia come Socrate a Pedali «lo vedi anche quando cammina o nei momenti più tranquilli di gara, mentre risale il gruppo dopo essere andato a prendere una borraccia alla macchina. Emana un’aura inconfondibile. Essendo un mio avversario, l’idea di considerarlo dotato di superpoteri è controproducente e metodologicamente sbagliata ma ci sono momenti in cui non riesco proprio a non farlo». Quando Pogacar scatta sul serio, chi prova a seguirlo si fa male. Ci ha provato il forte danese Mattias Skjelmose all’ultima Liegi-Bastogne-Liegi spiegando poeticamente di «aver pagato a carissimo prezzo la fatica: se ti avvicini troppo al sole rischi di bruciarti». E ci ha provato all’ultimo Giro d’Italia, nella tappa di Oropa, l’australiano Ben O’Connor che commenta meno prosaicamente di «aver fatto di puro istinto

una cavolata pazzesca, ho rischiato di esplodere e chiudere la corsa lì. Quando lui parte bisogna contare fino a tre prima di fare qualunque cosa».

Dietro Pogacar c’è la formidabile ascesa della Slovenia e dei suoi 2,1 milioni di abitanti, un nazione ciclisticamente insignificante fino a 15 anni fa specie rispetto a chi come Francia, Italia, Belgio e Spagna pensava di detenere una sorta di potere ereditario nel mondo delle due ruote. Ora mentre noi italiani, pensionato Vincenzo Nibali, ci attacchiamo solo alle imprese del crono-fenomeno Pippo Ganna i nostri cugini hanno Pogacar, il suo amico avversario Primoz Roglic, che ha vinto tre volte la Vuelta, un Giro d’Italia e lo sfiderà al Tour, e il funambolo Mohoric che ha conquistato la Sanremo con un’impresa in discesa. Nazione dove lo sport è religione fin dalle quattro ore di obbligo scolastico dell’educazione fisica e dove i Pogacar nel ciclismo e i Doncic nel basket hanno rimpiazzato i modesti eroi del calcio che si stanno giocando gli Europei.Fuori dal ciclismo Pogacar fa una vita di banalità quasi sconcertante. Vive a Montecarlo per comodità fiscale (l’Emirates gli garantisce sei milioni l’anno di solo ingaggio) con Urška Žigart, anche lei ciclistica professionista, di due anni più giovane, che ha a lungo corteggiato durante i raduni di allenamento in altura della nazionale slovena dove la coppia si recava assieme ai compagni sullo scassato pulmino federale. «La meta del viaggio era Saint Moritz» ha spiegato Poga «ma dopo aver scoperto quanto costavano la benzina e la spesa al supermercato decidemmo di trasferirci a Livigno dove mi innamorai di Urška e della Valtellina».





 I due amano le gite fuori porta (quasi sempre in bicicletta) e le cene in casa con gli amici dove lui si improvvisa cuoco con risultati modesti, a detta della compagna.Pogacar non si pone limiti ma ha degli obiettivi precisi. Domani, 29 giugno, a Firenze comincia il suo quinto Tour de France: due li ha vinti, in due è arrivato secondo dietro al diafano danese Vingegaard che quest’anno partirà (se partirà) svantaggiato dopo il terribile incidente di gara a marzo, nei Paesi Baschi. Dovesse vincere anche il Tour, Poga sarebbe il primo a riuscire nella doppietta dopo Marco Pantani, appunto, in un ciclismo dove un’impresa del genere — per il livello della concorrenza — oggi è considerata quasi impossibile. Altri traguardi sono immaginabili: concreto già quest’anno quello del titolo mondiale, facilmente pronosticabile in futuro la Vuelta. Delle due classiche-monumento che ancora gli mancano Poga ha già sfiorato la Milano-Sanremo ma non ha mai affrontato quella più lontana dalle sue mille qualità, la Parigi-Roubaix. Se volesse, pensano in molti, non avrebbe nessuna difficoltà a scatenare l’inferno anche sul pavè, lui che alla Strade Bianche di Siena ha ballato da solo sullo sterrato per 80 chilometri.

 concludo   riportando sempre   dallo  scorso numero  del  settimanale  7 



 altre storie   a  tema  



26.7.23

Da licenziati diventano soci titolari e ora ripartono con la seconda sfida . Dopo un fallimento quattro ex dipendenti rilevano il market e lo portano al successo Super Dis a Predda Niedda (Sassari) si affilia al gruppo Frongia di Oristano

  da  la nuova  sardegna  del   26\7\2023

Lo vedi dagli sguardi, dai sorrisi, dalle battute. Lo intuisci dal cercarsi sempre l’uno con l’altro. C’è amicizia, complicità, c’è una storia creata e vissuta insieme, tra tempeste, paura di non farcela e pacche sulle spalle per darsi forza. È una squadra quella che si appresta ad affrontare una nuova avventura nel supermercato di Predda Niedda, circa 1000 metri quadri nella strada 2 a Sassari.  Si chiama ancora Super Dis  ma da giovedì 27 il suo nome  diventerà “Vicino a te”: entrerà a far parte della catena della famiglia Frongia di Oristano, di cui sarà il diciannovesimo punto vendita nell’isola.
Sarà un rapporto di affiliazione e collaborazione stretta, ma i proprietari del supermercato sassarese resteranno i quattro che lo hanno creato e portato avanti in questi anni, rilevando una attività in fallimento. Si chiamano





 Vittoria Bazzu, 57 anni, Gavino Poddighe, 45, Stefania Demuru, 40 e Stefano Chessa, 51. Amici, tutti con grande esperienza nel commercio, reduci da chiusure, trasferimenti, periodi di cassa integrazione e fallimenti dei vari marchi per i quali hanno lavorato come dipendenti. Sino a quando, a cavallo tra il 2014 e il 2015, hanno deciso di provare a farcela  da soli. «E siamo diventati soci proprietari – racconta Vittoria con gli occhi che brillano  dall’emozione – Poteva sembrare una follia e invece eccoci qua. Ci abbiamo creduto, non abbiamo mollato».Al punto che la loro società  già da tre anni è entrata nel Top 1000, cioé nell’elenco delle mille aziende che vantano i fatturati più alti in Sardegna: si chiama Vsgs, acronimo che sta per Vittoria, Stefania, Gavino e Stefano e il volume d’affari supera i 4 milioni di euro.La sfida nel 2015 Verso la fine del 2014, dopo varie vicissitudini e periodi altalenanti, arriva la parola più temuta: fallimento. «È stato un momento terribile – dice Vittoria – perdere il lavoro significa tornare al punto di partenza, rimettersi in gioco e sperare che qualcun altro ti assuma. Per me, che avevo già 48 anni, sapevo che sarebbe stato molto difficile perché la mia età non piace al mercato. Ma non potevo immaginare di smettere di lavorare e come me altri colleghi, chi con famiglia a carico, tutti con spese da affrontare. Ho pensato che potevamo unirci, costruire il futuro con le nostre mani». Aggiunge Gavino: «Quando Vittoria mi ha spiegato la sua idea, l’ho accolta con entusiasmo. Avevamo dalla nostra una grande esperienza e conoscenze tra i fornitori e anche una buona dose di intraprendenza. Ho
pensato che potesse essere per noi una opportunità di rivincita e ci siamo lanciati, con il pieno appoggio delle nostre famiglie». Anche Stefania, che già lavorava con Vittoria, e poi Stefano, per anni titolare di un market apprezzatissimo nel quartiere di Prunizzedda a Sassari, hanno detto sì a occhi chiusi. «Avevamo una caratteristica in comune – dice Vittoria – lo spirito imprenditoriale, la voglia di mettersi in gioco pienamente consapevoli dei rischi ma anche della possibilità di realizzare il nostro sogno. Qualcuno ci avrà preso per matti, ma tornando indietro rifaremmo tutto».Dal 2015 a oggi Per prima cosa i nuovi soci-titolari hanno rilevato i macchinari del precedente supermercato, hanno chiesto e ottenuto un sostegno dalle banche e con un capitale di circa 100mila euro sono partiti. «Super Dis è stato inaugurato nel 2015 – dicono Vittoria e Gavino – e nella fase iniziale non avevamo una grande scelta di prodotti perché i fornitori non erano tanti». E la concorrenza agguerritissima, in una città in cui apre un supermercato dopo l’altro, e la grande distribuzione alimentare è presente con tutti i più importanti marchi nazionali ed esteri. Per i quattro soci la ripartenza è stata dura ed in quei momenti è stato fondamentale restare uniti e tenere sempre a mente l’obiettivo. Il buio è durato qualche anno, poi tra il 2018 e il 2019 la ruota ha iniziato a girare nel verso giusto, sia per il Super Dis di Sassari sia per il punto vendita di Osilo, più piccolo e seguito prevalentemente da Stefania. Se già prima della pandemia Super Dis era riuscito a ritagliarsi uno spazio significativo nel mercato, nel 2020 l’arrivo del Covid ha fatto aumentare i clienti e lievitare i guadagni. Perché il negozio, con le sue dimensioni a misura d’uomo, appariva più rassicurante rispetto agli ipermercati. E anche perché proprio in quel periodo è stata arricchita l’offerta della gastronomia, con menu diversi ogni giorno e piatti preparati dal capochef. I dipendenti, inizialmente 8 a Sassari compresi i soci-lavoratori, sono diventati 20. Altri 7 invece operano nel negozio di Osilo. Vicino a te Da giovedì nuovo nome, ancora più prodotti sardi tra gli scaffali (con la linea Bobore creata dai Frongia), un’ampia sezione enoteca, più attenzione verso chi è affetto da intolleranze alimentari varie e sguardo aperto verso nuove cucine come quelle di Cina e Giappone. Ma la formula vincente, nell’area organizzata in maniera più circolare e avvolgente, non si cambia e i pezzi forti, come la macelleria e ovviamente la gastronomia, restano. Si ricomincia, e sarà la seconda sfida, dopo la prima vinta con onore e orgoglio

2.11.21

Astutillo Malgioglio ex giocatore di serie A una vita per gli altri lontano dai media

 da  

Astutillo Malgioglio è un nome sconosciuto a molti. Onesto portiere di calcio, non un campionissimo. Nel ’77 apre, a sue spese, una palestra per ragazzi cerebrolesi e, quando dal Brescia arriva l’allenatore Marino Perani, lo relega in panchina dicendogli in faccia: “Tu pensi agli handicappati anziché parare”. A Roma una domenica compare uno striscione in curva: “Torna dai tuoi mostri”. Lui perde le staffe,
si toglie la maglia della Lazio e la calpesta. La dirigenza chiede la sua radiazione, ma un giorno gli telefona Trapattoni, che allena l’Inter: “Ho letto che abbandoni, è un peccato – gli dice – . Ripensaci. Per uno come te, all’Inter, c’è sempre spazio. Il calcio ha bisogno di figure come la tua”. Accetta e si allena duramente ad Appiano Gentile, ma alla sera torna sempre nella palestra dai suoi ragazzi e un giorno anche Jurgen Klinsmann, incuriosito, lo segue: in quella palestra vede tanta sofferenza, ma anche tanto amore, e stacca un assegno da settanta milioni di lire per quel progetto. «Jurgen veniva anche due volte a settimana – ricorda poi Malgioglio – . Andava nelle case dei ragazzi, mangiava con loro, parlava coi genitori. Grande persona». Chiusa la carriera, A causa di problemi di salute di Malgioglio e della mancanza di fondi, l'associazione ha chiuso nel 2001[Per questo suo impegno nel 1995 ha ricevuto il premio Sportivo Più. E  Nel 2018, il suo impegno nel sociale è stato ulteriormente riconosciuto con l'assegnazione del premio ISUPP (acronimo di "Io sono una persona perbene"). Nel 2019 riceve il premio BUU - Brothers Universally United, istituito dall'Inter e destinato a figure che si sono messe in luce per meriti umanitari contro discriminazione e razzismo. Inoltre continua tuttora ad organizzare iniziative benefiche per ragazzi come quelli che ha sempre seguito.
Di Francesco Castracane


Quindi mi chiedo Si può dare amore e ricevere odio? È possibile essere ripagati di solo livore quando il primo pensiero è sempre, costantemente rivolto agli altri? Si può essere condannati per aiutare i più deboli, i meno fortunati? Con logica e buon senso sapremmo facilmente come rispondere a queste domande. Ma non sempre la nostra società si nutre di logica e buon senso. E il calcio - limpida espressione della nostra società - non fa ovviamente differenza. Ma ci sono delle eccezioni. Una di queste porta il nome di Astutillo Malgioglio di cui  trovate  nel post  facebook   una  sintesi della sia  storia   perchè volesse  saperne  di  più ecco  alcuni    siti

7.11.20

IN AFGHANISTAN Marina, infermiera: «Faccio nascere bambini sotto le bombe»


DA  CORRIERE  DELLA SERA  DEL  5 novembre 2020 (modifica il 6 novembre 2020 | 17:32)

IN AFGHANISTAN

Marina, infermiera: «Faccio nascere bambini sotto le bombe»
Marina Castellano, 58 anni di Torino, è responsabile dell’ospedale materno di Msf a Khost. Nonostante la guerra, le coppie che fanno figli sono tantissime. «Le famiglie numerose si aiutano le une con le altre»
                           di Jacopo Storni


Marina Castellano, torinese di 58 anni, è nello staff di Msf in Afghanistan




C’è la guerra in Afghanistan. L’ultimo attacco pochi giorni fa, a Khost. Un attentato con sei morti e dozzine di feriti. Ma nella guerra non c’è solo morte. Se guardi da vicino, ti accorgi anche del suo opposto, la vita, quella che nasce, tutti i giorni, ad ogni ora, all’ospedale materno infantile di Khost, gestito da Medici Senza Frontiere. Ogni giorno, mentre le bombe esplodono e i kalashnikov gridano, ci sono quasi cento nascite. Neonati che vengono alla luce avvolti dalle tenebre del conflitto, che dovranno diventare adulti prima del tempo. Ma che però sono in vita. E che urlano gioia, sognano pace, proclamano vita oltre la guerra. E poi ci sono loro, le famiglie, quelle famiglie che si ostinano ad avere figli, nonostante tutto. E sono tantissime.
«Perché essere famiglia in Afghanistan è importantissimo, avere una famiglia numerosa fa parte della cultura afghana ma soprattutto significa essere famiglia davvero, cioè aiutarsi gli uni con gli altri, supportarsi, stare insieme, condividere. La famiglia è veramente al centro della vita in Afghanistan». A dirlo è Marina Castellano, torinese di 58 anni, l’infermiera che quei bambini li vede nascere ogni giorno, la responsabile dell’ospedale, per la seconda volta in Afghanistan nelle sue missioni, una terra che le è nel cuore. E ogni volta che nasce qualcuno, è una commozione nuova, forse doppia, proprio perché la nascita è dentro la guerra. E ogni volta, quella nascita, alimenta una nuova speranza.
«È sempre una grande emozione veder nascere un bambino e tutto quello che è legato alla sua nascita», dice. Non ci dovrebbe essere guerra che tenga dentro un ospedale materno. E invece, il richiamo delle armi risuona spesso. «Anche nel nostro ospedale - racconta - capita che la guerra in qualche modo interferisca nella vita delle donne che devono partorire e nella vita dei bambini perché spesso queste donne vivono in villaggi lontano dalla città dove ci sono combattimenti e nel momento del parto non possono accedere alle cure necessarie, oppure non possono arrivare in ospedale in tempo perché la strada non è sicura o magari vengono colpite durante il tragitto da casa all’ospedale».
Fra i tanti parti a cui Marina ha assistito, ce n’è uno indimenticabile, quello di 4 gemelli: «Ad avermi colpito - al di là dei 4 gemelli che pesavano tutti più di un chilo ciascuno e il parto che è avvenuto in modo naturale - è la serenità, il coraggio e la gioia che si leggeva in faccia alla madre. Non si è mai lamentata, non ha mai chiesto nulla a nessuno per il dolore, ha affrontato il travaglio tranquilla e al momento del parto sorrideva nonostante la grande fatica. È stata bellissima ed emozionante l’immagine, che credo non dimenticherò, dei 4 bambini appoggiati sulla sua pancia e lei che li abbracciava tutti e 4 piangendo, così come piangevamo noi infermiere».
Infiniti gli aneddoti che potrebbe raccontare, come quello di lunedì scorso: «Siamo stati svegliati al mattino presto da un attacco sulla città, abbiamo dovuto rifugiarci all’interno della saferoom del compound dove viviamo e allo stesso tempo anche tutto l’ospedale, lo staff e i pazienti hanno dovuto rifugiarsi. Poco prima che iniziasse l’attacco, era stata ammessa una donna al termine della gravidanza con un’emorragia in corso. Alla prima visita il bambino è purtroppo risultato morto, la donna doveva subire un taglio cesareo per fermare l’emorragia e per rimuovere il bambino che era messo di traverso e non poteva essere partorito in modo naturale. La ginecologa Ziya, presente nella saferoom con la donna, tramite radio e telefono ci ha chiesto l’autorizzazione per andare in sala operatoria ma purtroppo il coordinatore di progetto non ha potuto darla: fuori continuavano gli spari, gli attacchi erano troppo vicini e i rischi erano troppo alti. Allora la dottoressa ha deciso di creare una sala operatoria all’interno della saferoom e con l’aiuto delle ostetriche presenti hanno effettuato il taglio cesareo. La donna si è salvata ma se non fossero intervenuti avremmo perso anche lei».

20.7.17

in cammino nonostante tutto

  consigliata  Modena City Ramblers - La Strada

siamo alle solite !! se qualcosa andrà storto \ male la colpa sarà solo mia e se andrà bene i meriti se li prenderanno gli altri . Ormai dovrei esserci abituato ma è difficile alle ingiustizie piccole e grandi che siano . Devo sbrigarmi ad imparare ed andare avanti 




rincominciare a viaggiare nella strada della vita

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...