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22.6.25

La ragazza di Scampia sul tetto del mondo, il judo simbolo di riscattoLa campionessa mondiale Susi Scutto viene dalla palestra di Gianni Maddaloni, faro di educazione e legalità nel rione napoletano




La ragazza di Scampia sul tetto del mondo, il judo simbolo di riscattoLa campionessa mondiale Susi Scutto viene dalla palestra di Gianni Maddaloni, faro di educazione e legalità nel rione napoletano

Assunta Scutto campionessa del mondo sul tatami di Budapest (Foto Ansa)


Una ragazza di Scampia sul tetto del mondo: quell’oro di Scampia che non è solo il titolo di un film e neppure il colore di tante medaglie conquistate dagli atleti nati e cresciuti nel vivaio dello Star judo club ma brilla nel presidio di sport e legalità creato dal maestro Gianni Maddaloni nel cuore del quartiere napoletano sulla scia di un altro oro, quello olimpico conquistato da suo figlio Pino a Sidney nel 2000.
C’è la lunga storia del club napoletano di trincea alle radici del titolo di Assunta Scutto, classe 2002, oggi in forza al gruppo sportivo delle Fiamme Gialle, conquistato qualche giorno fa a Budapest nei 48 chili (e seguito dopo qualche giorno da quello della bresciana Alice Bellandi, già campionessa olimpica, nei 78 chili). Una marcia implacabile verso il podio, con la rivincita sulla francese che gliel’aveva negato alle Olimpiadi di Parigi e la finale con la judoka kazaka risolta con un ippon (il ko del judo) a una manciata di secondi dalla fine. Non è la prima medaglia iridata di Susi Scutto che nel suo palmares ne ha già quattro assoluti, due bronzi nel 2022 e 2023 e un argento lo scorso anno ad Abu Dhabi. L’oro nella categoria junior, invece, l’aveva conquistato proprio in Sardegna, ad Olbia, nel 2021, seguita ancora dal suo maestro prima del passaggio alle Fiamme Gialle.


Assunta Scutto campionessa mondiale junior sul tatami di Olbia nel 2021 (Foto Fijlkam)


Sul tatami c’è arrivata, come tanti piccoli judoka, a cinque anni sulla scia di un cugino più grande e non ne è più scesa. Una delle foto della pagina di European judo union, la mostra bambina col suo judogi e lo slogan, “non smettere di credere in quella bambina che ha osato sognare”.
L’impresa di Maddaloni
Cadere e rialzarsi sempre, la prima regola del judo che si impara da piccoli e non si scorda più. Ma a Scampia cadere e rialzarsi va oltre il judo. L’impresa di Gianni Maddaloni è una di quelle belle storie che sa talvolta raccontare lo sport. E soprattutto lo sport più povero, quello dove non si diventa ricchi neppure da campioni del mondo. Raccontata in un libro per ragazzi di Giuseppe Garlando, “‘O mae”, nel film “L’Oro di Scampia” di Marco Pontecorvo con Giuseppe Fiorello (tratta da un libro di Maddaloni) e nella più recente serie tv “Clan, scegli il tuo destino”, andata in onda sulla Rai che vede come protagonista lo stesso Gianni Maddaloni.

Gianni Maddaloni con Susi Scutto (Foto instagram)

«Dopo la vittoria alle olimpiadi di mio figlio Pino nel 2000 mi è stato offerto di prendere in gestione diverse palestre altrove, anche in bei quartieri residenziali ma ho scelto di restare qua a Scampia nel mio territorio per mostrare ai ragazzi che anche se nasci qui non hai il destino segnato», ha raccontato in una delle tante interviste Maddaloni che a Scampia ci è nato e cresciuto e ha trovato nel judo e in un buon maestro quel punto di riferimento che oggi offre a tanti bambini e bambine. Sono una sessantina quelli che frequentano i corsi gratis e diversi sono i giovani detenuti messi alla prova che sul tatami – grazie alla collaborazione con il Ministero di Grazia e Giustizia – fanno anche un percorso di recupero. Un progetto che coinvolge anche le famiglie. Qua si combatte la povertà sociale ed educativa e anche gli stereotipi che dipingono Scampia come un luogo senza speranza.
Presidio sociale di legalità e fucina di campioni (sono innumerevoli gli atleti di interesse nazionale), la palestra di Maddaloni va avanti superando ostacoli. Nel 2023 ha incredibilmente rischiato lo sfratto, nel 2024 mentre a Parigi si combatteva sul tatami, a Scampia si piangeva per il crollo alle Vele.
I campioni nati qua vincono in giro per il mondo e ogni tanto tornano a casa, anche per un saluto. Anche ora che è sul tetto del mondo Susi Scutto, ha raccontato il maestro, torna appena può come tanti compagni e compagne di tatami diventati punti di riferimento per tutti quei bambini e bambine che osano sognare. Cadendo e rialzandosi

16.6.25

DIArio di bordo n 128 anno III Lui non insegna calcio, insegna vita. il caso di Silvio baldini ., “Dopo l’amputazione sono rinato grazie allo sport, ma ora lo Stato mi ha abbandonato”: la storia di Massimo castellani., «Il judo mi mantiene giovane» A 94 anni Pietro Corona continua a essere un esempio per sportività, stile e classe ., Andrea Cadelano, un sardo a Miami tra business, sogni e solidarietà.,Ballerina italiana ferita durante un'esplosione di Parigi, dopo 6 anni la rinascita di Angela

 fonti  cronache  della  sardegna  msn.it    e  unione  sarda 

Lui non insegna calcio, insegna vita.
È nato povero. I suoi sono valori trasmessi da genitori che sono stati umili operai e dai nonni che hanno vissuto la guerra.
Quando non allena si rifugia in montagna, gli piace fare il pastore e andare a caccia di pernici.
È un uomo che ha commesso degli errori ma che poi ha saputo rimediare ed imparare dagli stessi.
Come quella volta che tirò quel famoso calcio nel sedere a Domenico Di Carlo. Un gesto che gli è costato tanto, a tal punto, da restare senza panchina per sei lunghi anni.
È rientrato nel calcio accettando di allenare gratis la Carrarese, senza pretendere nemmeno i rimborsi spese.
L'ultima volta che ha fatto qualcosa per denaro è stato nel 2004 quando Zamparini gli ha offerto per la panchina del Palermo un milione di euro l'anno per tre stagioni. Un'esperienza finita malissimo: da quel momento si è promesso di non fare più niente se spinto solo dai soldi.È un uomo schietto, onesto, sincero e mai banale.È uno dei pochissimi che davanti ai microfoni dice ciò che pensa, senza leggere un copione come fanno quasi tutti i suoi colleghi.È uno che nel bene o nel male ha portato sempre avanti con coraggio le sue idee.È un uomo dall'anima feroce ma che si commuove facilmente perché ha un cuore enorme in petto.Per lui la famiglia è sacra: ama tremendamente la moglie Paola e suoi tre figli, la prima delle quali, Valentina, disabile.È un uomo di fede e cerca di trasmetterla anche ai suoi calciatori per condividere l'esperienza dell'amore, della fatica, della vittoria e della sconfitta.È un allenatore preparato, delle volte sottovalutato.Chi lo conosce bene lo definisce un genio.Ha promosso e salvato l'Empoli in Serie A.Ha promosso il Palermo in Serie B.E proprio ieri sera, ha riportato il Pescara in Serie B, dopo 4 anni di purgatorio.Il calcio dovrebbe essere pieno di gente come te, sarebbe sicuramente un mondo migliore.Complimenti Silvio Baldini...
👏🏻❤️
Testo e foto di Calcio totale.

Lo sport salva la vita. Lo sanno  bene 

Massimo Castellani, 50 anni, che da quando nel gennaio 2024 ha subito l'amputazione della gamba destra ha sperimentato una lunga fase di depressione. A convincerlo a uscire di casa dopo molti mesi di solitudine è stato proprio lo sport al quale si è dedicato grazie al supporto delle associazioni della sua Rimini.
Praticare tiro con l'arco, scherma e tiro al piattello gli ha ridato la voglia di lottare per una vita che non sentiva più sua, e conoscere compagni di corso e istruttori lo ha convinto a uscire fuori dalla sua stanza
per mettersi ancora in gioco. Ora però anche questa speranza sembra destinata a spegnersi, come racconta al portale Fanpage.it : "Da quando tutti gli amici si sono dileguati mi sono isolato, ma da quando lo sport ha cominciato a fare parte della mia vita tutto è cambiato. Il problema è che le attrezzature per le persone con disabilità come me sono spesso molto diverse dalle altre e acquistarle in maniera autonoma è praticamente impossibile a causa del costo".
Castellani ha quindi rivolto via mail un appello al ministro dello Sport, Andrea Abodi, e alla senatrice e atleta paralimpica Giusy Versace. "Ho scritto a entrambi ma per il momento la situazione non è cambiata, sento di non avere speranze".
L'appello di Castellani: "Con lo sport ho ritrovato la voglia di vivere, non fatemi smettere"
Dopo l'amputazione della gamba avvenuta l'anno scorso a seguito di una malattia, per Castellani è iniziato un lungo periodo di isolamento, come ammette lui stesso: "Tra luglio e novembre ho passato un periodo di buio totale. Non uscivo mai a causa degli attacchi di panico. Ogni giorno era uguale all'altro". Poi, pian piano, attraverso i benefici ottenuti con la fisioterapia, in lui si è acceso qualcosa e ha iniziato a contattare le associazioni e i circoli sportivi della sua regione.
Da ex atleta di livello agonistico, Castellani aveva già un'idea di come muoversi in questo mondo, e nel momento più buio della sua depressione si è rivolto al comitato paralimpico. Gli organizzatori gli hanno messo a disposizioni i loro contatti e lui è riuscito a entrare all'interno dei gruppi presenti sul suo territorio. Da quel momento la sua vita è cambiata: "Ho trovato un motivo per uscire di casa".
Castellani dopo una serie di mail e telefonate a vuoto tra Roma e Rimini finalmente ha incontrato le persone che lo hanno fatto uscire da casa: "L'allenatore di tiro con l'arco mi viene a prendere tutti i giorni per gli allenamenti e poi mi riporta a casa. Abbiamo partecipato anche al Rimini Wellness ed è stata una esperienza bellissima. Lo è stata ancora di più perché l'ho vissuta con altre persone con le quali ho socializzato. Per me che amo lo sport e ho sempre fatto agonismo sento di riuscire a respirare di nuovo. Prima preferivo gli sport di contatto, ma quando hai l'arco tra le mani devi essere concentrato, se non sei lì con la testa non puoi fare nulla, e questo mi ha fatto bene".
Oltre al tiro con l'arco, Castellani ha iniziato a praticare anche la scherma, ottenendo gli stessi benefici: "Siamo diventati subito come una grande famiglia, la sera andiamo a mangiare tutti insieme. Però c'è un problema che riguarda le attrezzature e non sono il solo a viverlo".
I costi per le attrezzature adatte alle persone con disabilità sono spesso proibitivi e Castellani ha pensato di rivolgersi alle istituzioni, dalle quali, però non ha trovato il riscontro che voleva: "Mi sento preso in giro. Leggo di fondi regionali e nazionali ma al momento di ottenere informazioni concrete spariscono tutti".
"Scarsa informazione e difficoltà di accesso ai fondi"
Castellani ha quindi scritto al ministro dello sport Andrea Abodi e poi alla senatrice Giusy Versace, oggi tra le fila di Azione. Con una mail firmata dalla segreteria di Versace, è stato spiegato a Castellani che i fondi esistono, e che un emendamento della senatrice alla Legge di Bilancio ha destinato 3 milioni di euro in tre anni (dal 2025 al 2027) per protesi e ausili funzionali allo sport. La mail invita quindi a "verificare sul sito della sua regione se è stato già pubblicato un bando al quale può accedere".
Una risposta che non aiuta Castellani, il quale aveva contattato direttamente la senatrice proprio a causa della scarsità di informazioni reperite in Rete: "Mi sento preso in giro io, ma dovrebbero sentirsi presi in giro anche i politici che creano questi fondi di cui poi spariscono tutte le notizie. Penso alle persone che non sono fortunate come me, che non hanno un allenatore che va a prenderli e che li aiuta. Come fanno le persone sole se lo Stato non c'è?".
Anche nel caso del ministro Abodi ha risposto la segreteria e il 22 maggio, il giorno dopo l'invio della mail, Castellani ha ricevuto una telefonata con numerose rassicurazioni. Da allora però è tutto fermo, e nessun ente locale, ad esclusione della Provincia, ha mai fornito informazioni o riscontro.
Eppure, la stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni conosce bene il valore dello sport, come ha dichiarato lei stessa nel corso il comizio ad Ancona in occasione della campagna elettorale per le politiche del 2022: "Da ragazzina ero obesa sono stata e sono stata anche bullizzata […] Mi ha salvato lo sport, perché lo sport salva un sacco di gente". Il valore salvifico dello sport, soprattutto per le persone che vivono in contesti di marginalità sociale, non è aneddotico, ma reale.
La psicologa: "Depressione ancora sottovalutata in Italia"
"L'attività fisica agisce sul nostro benessere su più livelli: stimola la produzione di endorfine e serotonina, sostanze che ci aiutano a regolare l'umore, e migliorano e abbassano gli ormoni dello stress come il cortisolo. Inoltre, lo sport favorisce l'autostima e l'autodeterminazione, e crea situazioni di socializzazione molto importanti per chi sta affrontando un momento di difficoltà", spiega la psicologa psicoterapeuta Ilaria Falchi.
Oggi sappiamo che esiste un rapporto tra depressione e il sopraggiungere di una disabilità: "La depressione è collegata a una diminuzione di risorse di cui la persona può usufruire per affrontare il futuro. Si sperimenta la mancanza di ascolto e prospettive, la indisponibilità dell'altro, il voler fare qualcosa e non riuscire, e quindi l'isolamento sociale. Ovviamente non è così per tutti, molto cambia dal tipo di disabilità e dalla sua manifestazione".
Nel caso di persone che iniziano a vivere con una disabilità in età adulta si crea una vera frattura tra il prima e il dopo, come rileva la psicologa: "L'adulto è chiamato a riadattarsi e a trovare strategie compensative a livello fisico ma anche mentale. Si tratta di un'elaborazione simile a quella del lutto perché si è costretti a ripensare a com'era la vita prima rispetto a quella che si vive dopo. Mentre i bambini hanno una capacità velocissima di riadattamento, tale da non influire sempre sul loro stato emotivo, per gli adulti è diverso perché hanno tutta una serie di sovrastrutture, ambizioni e progetti che vengono messi a dura prova nel momento in cui le condizioni di vita cambiano profondamente".
Secondo i dati condivisi da Falchi, più del 30% delle persone con disabilità accusa sintomi depressivi o ansiosi, eppure si tratta di una condizione ancora largamente sottovalutata in tutta la popolazione: "Si fa molta fatica a riconoscerla come una malattia e a trattarla. Ci vogliono molte risorse anche per aiutare una persona a vedere che qualcosa non va e nel nostro Paese purtroppo la salute mentale non è una priorità. Ciò rende molto difficile l'accesso alle cure".



e Pietro Corona di 94 anni  che  continua  con il judo a essere un esempio per sportività, stile e classe



Tutti i giorni indossa pantaloni e giacca da judo, li chiude con la sua cintura bianca e rossa, quella che spetta ai settimo dan, e insegna questo sport ai bambini nella sua palestra a Genneruxi a Cagliari. A 94 anni Pietro Corona continua a essere un esempio per sportività, stile e classe. «Per me il judo è stato la vita, mi ha fatto girare il mondo, mi ha dato tantissime soddisfazioni attraverso non soltanto i risultati che ho ottenuto personalmente, ma soprattutto per i traguardi conseguiti dai miei allievi e dalle mie allieve, che in tanti casi ho aiutato poi ad aprire le loro palestre. Questo per me è lo sport, l’insegnamento che ogni buon istruttore deve dare».

Pietro Corona con la cintura che spetta a chi ha ottenuto il settimo dan (foto p. c.)
Pietro Corona con la cintura che spetta a chi ha ottenuto il settimo dan (foto p. c.)

Pietro Corona è cagliaritano doc, figlio di un impresario edile di quelli tutti d’un pezzo. «Sono nato nel 1931, in seconda media venni rimandato e mio padre mi fece lavorare tutta l’estate come muratore. E si raccomandava al capo cantiere: nessun favoritismo, è mio figlio ma in questo lavoro è l’ultimo, devo solo imparare e obbedire». E così ha fatto: maestro Corona non è mai rimasto con le mani in mano, dopo la scuola ha fatto mille lavori e ha sempre praticato lo spot. «Giocavo a calcio, nella Gennargentu Pacini. Nel 1957 passavo per caso in via Verdi a Cagliari e vidi entrare in una palestra un gruppo di ragazzi vestiti di bianco. Rimasi letteralmente ammaliato da quella visione, li seguii, riuscii a seguire un loro allenamento. Il loro istruttore era Leonardo Siazzu, rimasi così colpito da quello sport che cominciai a frequentare quella palestra, quel gruppo di atleti. Soltanto cinque anni dopo disputai il campionato sardo, il primo organizzato nell’isola: la nostra società contro la Torres di Sassari, in una palestra all’angolo tra via Sonnino e via Grazia Deledda a Cagliari».

Foto di gruppo dei primi appassionati di judo cagliaritani (foto p. c.)
Foto di gruppo dei primi appassionati di judo cagliaritani (foto p. c.)

Pietro Corona ha cominciato tardi con il judo, ma ha subito dimostrato il suo valore e ha cominciato a ottenere importanti successi. «Ma i risultati più importanti poi li ho avuti da veterano, nella categoria master, dopo che sono andato in pensione: sono diventato campione del mondo nella categoria 66 chilogrammi, ho battuto anche alcuni maestri giapponesi. Una grandissima soddisfazione».L’insegnamento del judo è stato importante per la sua vita: «Ho cominciato in un locale di 50 metri quadri in via Giardini, ma subito grazie al passaparola sono venuti a me tantissimi bambini e giovani, così dopo qualche anno ho dovuto cercare uno spazio più grande, e l’ho trovato qui, a Genneruxi, dove ho aperto la palestra dal 1973». Judo non a tempo pieno, ovviamente. «Ero dipendente del Comune di Cagliari, ho sempre lavorato nel settore dei mercati sino a quando sono diventato direttore di quello di via Quirra: ancora oggi ho un bellissimo rapporto con tante persone che lavorano ancora nella zona di Is Mirrionis, ho sempre cercato di risolvere i problemi per il bene di tutti, spero di aver lasciato un buon ricordo anche negli uffici comunali».

Pietro Corona a 94 anni con alcun idei trofei vinti nella sua carriera (foto p. c.)
Pietro Corona a 94 anni con alcun idei trofei vinti nella sua carriera (foto p. c.)

Ancora oggi Pietro Corona mantiene il suo peso forma: «Mi sono pesato anche oggi: 66 chili spaccati. Quando sono alto? Non lo so, credo 1,68». In palestra ancora oggi dimostra tutti gli schemi dello judo ai suoi allievi. «Evito soltanto alcune cadute, ma non tutte» sorride.
Il segreto per una longevità che è anche sportiva? Corona comincia dalla dieta: «Uova, caffè e frutta a colazione, pasta e pesce a pranzo, pesce e verdure a cena. Niente dolci, niente alcol». E poi lo sport: «Ogni giorno faccio qualcosa, mi tengo in forma, sono ancora di fare piegamenti sulle braccia e sulle gambe, fondamentali per un sport come lo judo».E così che il suo palmares è davvero invidiabile per chiunque abbia praticato sport a livello agonistico: oltre a essere maestro benemerito di judo, Pietro Corona è settimo dan di judo, ha vinto la medaglia d’oro ai mondiali master di San Paolo in Brasile nel 2007 , lo stesso anno in cui gli è stata conferita la stella d’oro al merito sportivo del Coni. Riconoscimento che onora ogni giorno quando indossa pantaloni e giacca da judo, all’età di 94 anni, nella sua palestra di Genneruxi a Cagliari

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Andrea Cadelano, un sardo a Miami tra business, sogni e solidarietà
Partito da Cagliari si è stabilizzato in Florida, con delle “fughe” in Kenya per aiutare i villaggi senza acqua potabile


Al centro Andrea Cadelano dopo aver ripulito con un gruppo di amici le spiagge di Miami


In valigia, Andrea Cadelano aveva solo sei mesi. Il tempo per imparare l’inglese, «fare un’esperienza», guardare il mondo da un’altra angolazione. Ma come spesso accade ai viaggi più autentici, la meta si è trasformata in casa.
Andrea è partito da Cagliari con il desiderio di misurarsi con qualcosa di più grande, di nuovo. Ma non ha portato solo ambizione e competenze: con sé ha portato anche uno spirito profondo di appartenenza e un senso del dovere che ha radici nei valori della sua terra.
Così, mentre a Miami costruiva un’azienda solida e innovativa, metteva anche le basi per iniziative

di solidarietà che oggi toccano gli Stati Uniti e arrivano fino all’Africa.
«Ho lasciato la Sardegna non perché non la amassi, anzi, le mie radici sono profondamente legate a
quell’Isola meravigliosa, ma perché sentivo il bisogno di mettermi alla prova in un contesto nuovo, dove poter crescere professionalmente e realizzare alcuni progetti che lì, purtroppo, erano difficili da sviluppare».
A segnare quel punto di svolta anche un evento personale doloroso: la perdita del padre. Un vuoto che Andrea ha trasformato in forza propulsiva. L’idea iniziale di un soggiorno breve si è allungata fino a diventare una nuova vita, fatta di lavoro, responsabilità e anche tanto altruismo.
«Sono partito con l’idea di restare sei mesi – racconta – per migliorare l’inglese e fare un’esperienza all’estero. Avevo un visto studentesco valido per cinque anni e, quasi senza accorgermene, ho finito per costruire una nuova vita qui».
Prima della svolta americana, Andrea aveva già tracciato un percorso professionale importante in Sardegna: dalla finanza ai media, collaborando con testate e realtà come Sardegna 1, Videolina, Radiolina, L’Unione Sarda e i portali del gruppo PBM. Un’esperienza che ha mescolato comunicazione, creatività e impegno civico.
«È stato un periodo intenso e creativo – ricorda – che mi ha lasciato tanto a livello umano e professionale».
Il volo verso gli Stati Uniti parte grazie a un suggerimento arrivato quasi per caso, da un’insegnante di inglese. Tra le ipotesi sul tavolo, Londra, New York e San Francisco. Poi la scelta di Miami, dove il clima favorevole e le condizioni economiche più accessibili lo convincono.
«La Florida, rispetto ad altri Stati americani, offre anche numerose agevolazioni fiscali e incentivi finanziari per le nuove imprese: un elemento fondamentale per chi, come me, desiderava costruire qualcosa da zero».
Quel “qualcosa” è oggi un’impresa specializzata in servizi ambientali, sanificazione e sicurezza. Ma il giovane cagliaritano non si è fermato alla logica del profitto.
Nei momenti più duri della pandemia ha messo gratuitamente a disposizione i suoi mezzi per aiutare la comunità, disinfettando ambienti pubblici, partecipando a iniziative per pazienti oncologici e fondando una charity – Victor Water for Life – che ha già portato acqua potabile in dieci villaggi del Kenya.
«Credo profondamente nel restituire qualcosa – spiega – . Sono partito da solo, senza conoscere nessuno, ma oggi sento il dovere di aiutare chi è in difficoltà, così come io stesso sono stato aiutato nei momenti più duri».
C’è però qualcosa che Miami non potrà mai dargli. Lo si intuisce quando parla dei ricordi, dei profumi della macchia mediterranea, di certe albe sarde che non si dimenticano.
«Gli affetti, prima di tutto. La mia famiglia, i miei amici, i miei nipoti. E poi gli odori, i sapori, la luce del sole. Non si dimenticano mai».
Per Andrea Cadelano la Sardegna non è mai davvero distante. Non solo perché ci torna ogni volta che può, ma perché ogni gesto – imprenditoriale o umanitario – ha la forma di chi parte da lontano, senza mai tagliare il filo.
«Sì, torno. Almeno per le vacanze. Ma intanto continuo a costruire, a lavorare, a dare il mio contributo qui. Perché, anche lontano, un pezzo di Sardegna resta sempre con me».


Ballerina italiana ferita durante un'esplosione di Parigi, dopo 6 anni la rinascita di Angela




(Adnkronos) - "Dopo sei anni di inferno, dieci operazioni complicate e altrettante anestesie, posso finalmente dire che è finita. E non ho dovuto amputare la mia gamba. Oggi sono davvero felice. Il prossimo passo sarà adesso il processo. Intanto, mi voglio godere questo momento, dopo tanti mesi, anni, di angoscia...". Ha gli occhi che brillano, Angela Grignano, 30 anni, la giovane trapanese che la

mattina del 12 gennaio 2019, rimase gravemente ferita nella tragica esplosione avvenuta in Rue de Trévise, a Parigi, che causò 4 morti e centinaia di feriti tra i quali anche lei, che ha visto distrutto il suo futuro nella danza. Ha rischiato l'amputazione della gamba sinistra, ma grazie all'intuizione di un chirurgo e ad un complesso intervento è riuscita a salvare la gamba e la vita, anche se il sogno di un futuro da ballerina a Parigi si è infranto.
"Negli ultimi tre anni, dopo l'ennesimo intervento chirurgico, il piede era peggiorato molto. Tendeva a torcersi verso l'interno. Era una postura dolorosa, difficile, anche realizzare le scarpe ortopediche era molto complicato. Non riuscivo più a camminare. Era davvero molto doloroso. Il piede non aveva la possibilità di essere mantenuto adeguatamente. La situazione era peggiorata l punto che non riuscivo più a camminare. Negli ultimi mesi avevo anche ripreso la sedia a rotelle, quando dovevo fare tratti un po' più lunghi", racconta all'Adnkronos Angela, visibilmente commossa.
"Mi sono rivolta a diversi medici ortopedici. Il Covid, poi, non mi aveva permesso di fare visite e altri interventi, nonostante sia andata a Londra, Milano, e in altri posti. Ho visto almeno dieci chirurghi. Erano sbalorditi per il lavoro fatto dai chirurghi francesi, ma quando chiedevo questo intervento avevano paura, perché c'era il rischio di amputazione. Quando vedevo gli altri con le protesi, pensavo 'Se va bene abbiamo superato un altro limite, se va male metto la protesi. Ormai ti danno una buona qualità di vita. Meglio che camminare con il dolore". Poi, la svolta.
"Alla fine ho conosciuto un chirurgo francese che mi ha parlato della ipotesi di artrodesi, cioè il blocco definitivo e permanente della caviglia", racconta ancora Angela Grignano. L'artodresi è un intervento chirurgico che trasforma un'articolazione mobile in una rigida, fissando le ossa che la compongono. Questa procedura, conosciuta anche come anchilosi chirurgica o fusione articolare, può essere eseguita su diverse articolazioni del corpo, come il ginocchio, la colonna vertebrale, il piede, come nel caso di Angela. "Da ex ballerina sentirmi dire di avere la caviglia totalmente bloccata, un po' mi spaventava- continua Angela- Alla fine ho deciso di fare l'intervento. Almeno poteva essere il penultimo passaggio, prima dell'amputazione. Ad agosto 2024 sono tornata a Parigi con la previsione di due interventi. A settembre mi hanno tolto la placca che avevo nella gamba. Ma siccome si è ben consolidato, mi hanno detto è inutile tenerla. E a novembre sono stata operata per artrodesi. Hanno dovuto forzare parecchio la caviglia per rimetterla in asse. L'intervento è durato diverse ore. E ho tenuto il gesso per quasi tre mesi"
"Il chirurgo mi aveva avvertito: 'La situazione migliorerà, ma dovrai tenere scarpe ortopediche perché ci possono essere differenza e di altezza tra le due gambe'. Ringrazio sempre mia madre e gli amici perché il Comune di Parigi se n'è lavato la mani. A gennaio quando abbiamo tolto il gesso ci siamo commossi perché abbiamo capito che la gamba aveva recuperato, tanto da permettermi di camminare. L'ortopedico mi ha detto che è andata meglio di come immaginavamo. E' andata meglio di quanto immaginassi". "Ho cercato di rimettermi in sesto, ho comprato le prime scarpe normale, da ginnastica, cammino senza stampelle ed è incredibile. E' migliorata la posizione della schiena, anche loro sono rimasti".
"Se fosse andata male sarei stata costretta a fare l'amputazione. Adesso finalmente riesco a camminare quasi normalmente. Posare tutto il piede per terra è stata una sensazione incredibile, Camminare scalza per casa è stata quasi commovente- dice - La sensazione più bella è vedere gli altri felici per me. Mi sono rasserenata, non avere il dolore forte come prima è un'altra storia. Prima era una coltellata a ogni passo. Prima contavo i passi, perché ogni passo era un dolore. Oggi riesco a modulare anche la velocità del mio passo. Da sei anni il mio desiderio era quello di potere camminare bene".
Ma ora arriva la nota dolente: il risarcimento. A distanza di sei anni ancora non si è celebrato il processo. "A Parigi hanno detto che il processo poteva essere fatto a febbraio 2026. A quanto pare il Comune di Parigi ha chiesto di potere spostare le date e hanno posticipato all'autunno 2026, dopo le elezioni", racconta. "Sa quale è la verità? Che siamo stati abbandonati, ma continuiamo la nostra battaglia per ottenere giustizia e i risarcimenti adeguati e proseguiamo la lotta per ottenere il riconoscimento del diritto al risarcimento e un adeguato supporto per ricostruire le nostre vite". "La situazione burocratica va molto per le lunghe nonostante il comune di Parigi sia stato dichiarato colpevole di omicidio colposo con la società proprietaria dell'immobile", dice.
"Le assicurazioni sono di una crudeltà inaudita- si sfoga - Volevano pagare un risarcimento da 500 mila euro per una donna morta nell'esplosione, una spagnola. E alla figlia un risarcimento da 10 mila euro. Aveva solo un anno quando è morta la sua mamma...". E conclude: "Non mi fermerò mai. Voglio ottenere giustizia. E la otterrò". (di Elvira Terranova)

6.7.24

nonostante lo schifo del caso di Giovanni Ianelli e dell'insabbiamento dellla vicenda mi appassionano le storie ad esso legate come quella di Tadej Pogacar

 Nonostante    il  doping    e le  corruzioni  presenti  in tutti gli sport  agonistici   e casi   di criminalità    e  insabbiamenti   come il Pantani  e   il   caso del povero   Giovanni Ianelli   per  rimanere  nell'ambito del  ciclismo  ne  ho parlato   in 

Lo sport    e le  sue    storie  mi  ha   sempre  anche  se  passivamente    mi   ha  sempre  appassionato . In questo caso  il  ciclismo  . 
Ecco    dallo  scorso numero dell'inserto di  7 settimanale  del  corriere  della sera    la   storia    di  Tadej Pogacar  





L’EROE TOTALE CHE HA PORTATO IL CICLISMO FUORI DAI CONFINI DEL TIFO SPECIALIZZATO SENZA ESSERE UN CANNIBALE, ANZI...

Il  ciclismo   e le  sue storie Alle 16 e 30 dello scorso 25 maggio la penultima tappa del Giro d’Italia si arrampicava tra migliaia di tifosi su quel Monte Grappa tanto caro alla Patria quanto stramaledetto dai ciclisti per la sua durezza. Lasequenza più memorabile (un milione di visualizzazioni sui social in poche ore) di tre settimane di corsa si è materializzata in una curva orientata dolcemente verso destra, poco lontano dalla cima. Solo al comando in maglia rosa e lanciato ad altissima velocità verso il trionfo finale, Tadej Pogacar si è visto affiancare a destra da un massaggiatore della sua squadra pronto ad allungargli una borraccia, a sinistra da un ragazzino che gli correva a fianco incitandolo. Con tempismo surreale e un solo ampio gesto del braccio, Tadej ha afferrato senza rallentare la borraccia e l’ha passata al ragazzino (Mattia da Vincenza, 12 anni, che per poco non è svenuto per l’emozione) regalandogli anche un sorriso. La leggenda del più forte ciclista di tutti i tempi è in corso di scrittura da quattro stagioni, quella dell’Eroe  Sorridente si è concretizzata per la prima volta sul Monte Grappa  braccio, Tadej ha afferrato senza rallentare la borraccia e l’ha passata al ragazzino (Mattia da Vincenza, 12 anni, che per poco non è svenuto per l’emozione  foto sotto  a sinistra   ) regalandogli anche un sorriso.
La leggenda del più forte ciclista di tutti i tempi è in corso di scrittura da quattro stagioni, quella dell’Eroe  Sorridente si è concretizzata per la prima volta sul Monte Grappa.
La storia del ciclismo è piena di eroi.Eroi afflitti da cannibalismo come i supremi Eddy Merckx e Bernard Hinault, incapaci di considerare l’avversario altro che una preda da sbranare. Eroi dal sorriso triste e dalla vita breve come Fausto Coppi, dal destino segnato come Jacques Anquetil e Luis Ocaña. Eroi farmacologici come Lance Armstrong, tragici come Marco Pantani. Nelle biografie di quella dozzina di uomini che hanno fatto la leggenda ci sono spesso sfumature ciniche, malinconiche o da tragedia. Ora c’è lui, Tadej Pogacar da Klanec, Slovenia, classe 1998, prima apparizione nel mondo delle due ruote il 29 marzo 2015 a Loano, nel Savonese, quand’era poco più che adolescente. Oggi Poga appare come il primo fuoriclasse capace di traghettare il ciclismo fuori dai confini del tifo specializzato, dei praticanti, del popolo dei camperisti e dei cicloturisti che fanno la coda per tifare a bordo strada, sulle salite mitiche di Alpi e Pirenei. Il primo a non suscitare retropensieri in un mondo dove troppo spesso gli asini si sono trasformati in cavalli di razza grazie all’aiuto di compiacenti stregoni e di un’etica fragilissima: quando Poga

SE A 20 ANNI NON HAI COMBINATO QUALCOSA DEVI ABBANDONARE A 25, TADEJ HA GIÀ VINTO PIÙ DI MERCKX E HINAULT

pedala, sprizza classe visibile anche a chi di ciclismo capisce poco o nulla .Un uomo con la popolarità di un asso del calcio ma senza un minimo della spocchia di un Ronaldo o di un Messi che rispetta e onora ogni avversario e che ammette sempre la superiorità di chi (pochissimi, a dire il vero) lo sconfigge.

In quel Trofeo Città di Loano dove vestiva la maglia del Team Radenska, Pogacar arrivò 18°: la maggior parte degli 89 giovanissimi che parteciparono alla corsa ha lasciato da tempo l’agonismo. Il ciclismo è così totalizzante, così brutale che se a 20 anni non hai combinato qualcosa devi abbandonare il tuo sogno e provare a finire gli studi trascurati per sei ore di allenamento al giorno o trovare velocemente un lavoro. Chissà se Matteo Bellia o Francesco Bonadrini che allora staccarono Pogacar per poi, nel giro di uno due anni, appendere la bicicletta al chiodo e sparire anche dai radar dei siti specializzati, si resero conto di aver battuto colui che oggi è già considerato il più forte di tutti i tempi.

Far capire la grandezza di Pogacar a un non addetto ai lavori non è semplicissimo. Da 50 anni a questa parte, nelle due ruote domina la specializzazione. O vinci le grandi corse a tappe (sei scheletrico, agilissimo, forte in salita) o le classiche di un giorno (sei potente, aggressivo) o le cronometro (hai vistose masse muscolari, enorme capacità di sofferenza), combinando al massimo due qualità su tre. O vai forte in salita o sei implacabile in pianura. Gli ultimi eroi totali sono stati, quasi 50 anni fa, il belga Merckx, detto il Cannibale, e il francese Hinault. Frutti tardivi del ciclismo contadino e affamato dei tempi eroici, pronti a tutto pur di umiliare gli avversari, severissimi con i gregari considerati poco più che fedeli servitori di una causa divina. Hinault che vinse imprecando l’odiatissima Roubaix pur di completare il suo palmares e smentire chi non lo riteneva adatto. Merckx che tutt’ora — anziano e malconcio — rimpiange di non aver mai vinto la Paris-Tour, la mezza classica insignificante che è l’unica a mancare alla sua sterminata collezione.

A 25 anni Pogacar ha — in rapporto all’età — già vinto più di entrambi: due Tour de France, l’ultimo Giro d’Italia, tre delle cinque classiche-monumento (Il Lombardia tre volte, la Liegi due, una il Fiandre) e un’infinità di altre gare del calendario, in quasi tutti i casi con ampio distacco. A metà luglio potrebbe aver realizzato la doppietta Giro-Tour nello stesso anno (ultimo a riuscirci Pantani nel 1998, in altri tempi e altro ciclismo) a settembre vestire la maglia iridata sul durissimo percorso di Zurigo.

Per descrivere i super poteri di Pogacar si può, certo, ricorrere alla scienza. Quando pedala alla morte in salita o durante una cronometro, in ogni chilo di muscoli del corpo dello sloveno c’è quasi un watt di vantaggio rispetto ai suoi avversari più quotati: una F1 contro delle sportcar di serie. Quando gli altri scattano lui passeggia e quando lui scatta il resto del mondo boccheggia. A chi non interessano i watt basta guardarlo: la bocca mai dilatata a cercare ossigeno, spalle e fianchi che non ondeggiano nel fuorisella, il corpo mai accasciato sul manubrio ma sempre proteso in avanti a cercare con gli occhi il punto in cui fare la differenza, come un felino sul punto di ghermire la preda. Stilisticamente, una delle cose più sublimi in circolazione da sempre. «Che Tadej sia un fuoriclasse» ha spiegato Guillaume Martin, corridore francese che scrive saggi di filosofia come Socrate a Pedali «lo vedi anche quando cammina o nei momenti più tranquilli di gara, mentre risale il gruppo dopo essere andato a prendere una borraccia alla macchina. Emana un’aura inconfondibile. Essendo un mio avversario, l’idea di considerarlo dotato di superpoteri è controproducente e metodologicamente sbagliata ma ci sono momenti in cui non riesco proprio a non farlo». Quando Pogacar scatta sul serio, chi prova a seguirlo si fa male. Ci ha provato il forte danese Mattias Skjelmose all’ultima Liegi-Bastogne-Liegi spiegando poeticamente di «aver pagato a carissimo prezzo la fatica: se ti avvicini troppo al sole rischi di bruciarti». E ci ha provato all’ultimo Giro d’Italia, nella tappa di Oropa, l’australiano Ben O’Connor che commenta meno prosaicamente di «aver fatto di puro istinto

una cavolata pazzesca, ho rischiato di esplodere e chiudere la corsa lì. Quando lui parte bisogna contare fino a tre prima di fare qualunque cosa».

Dietro Pogacar c’è la formidabile ascesa della Slovenia e dei suoi 2,1 milioni di abitanti, un nazione ciclisticamente insignificante fino a 15 anni fa specie rispetto a chi come Francia, Italia, Belgio e Spagna pensava di detenere una sorta di potere ereditario nel mondo delle due ruote. Ora mentre noi italiani, pensionato Vincenzo Nibali, ci attacchiamo solo alle imprese del crono-fenomeno Pippo Ganna i nostri cugini hanno Pogacar, il suo amico avversario Primoz Roglic, che ha vinto tre volte la Vuelta, un Giro d’Italia e lo sfiderà al Tour, e il funambolo Mohoric che ha conquistato la Sanremo con un’impresa in discesa. Nazione dove lo sport è religione fin dalle quattro ore di obbligo scolastico dell’educazione fisica e dove i Pogacar nel ciclismo e i Doncic nel basket hanno rimpiazzato i modesti eroi del calcio che si stanno giocando gli Europei.Fuori dal ciclismo Pogacar fa una vita di banalità quasi sconcertante. Vive a Montecarlo per comodità fiscale (l’Emirates gli garantisce sei milioni l’anno di solo ingaggio) con Urška Žigart, anche lei ciclistica professionista, di due anni più giovane, che ha a lungo corteggiato durante i raduni di allenamento in altura della nazionale slovena dove la coppia si recava assieme ai compagni sullo scassato pulmino federale. «La meta del viaggio era Saint Moritz» ha spiegato Poga «ma dopo aver scoperto quanto costavano la benzina e la spesa al supermercato decidemmo di trasferirci a Livigno dove mi innamorai di Urška e della Valtellina».





 I due amano le gite fuori porta (quasi sempre in bicicletta) e le cene in casa con gli amici dove lui si improvvisa cuoco con risultati modesti, a detta della compagna.Pogacar non si pone limiti ma ha degli obiettivi precisi. Domani, 29 giugno, a Firenze comincia il suo quinto Tour de France: due li ha vinti, in due è arrivato secondo dietro al diafano danese Vingegaard che quest’anno partirà (se partirà) svantaggiato dopo il terribile incidente di gara a marzo, nei Paesi Baschi. Dovesse vincere anche il Tour, Poga sarebbe il primo a riuscire nella doppietta dopo Marco Pantani, appunto, in un ciclismo dove un’impresa del genere — per il livello della concorrenza — oggi è considerata quasi impossibile. Altri traguardi sono immaginabili: concreto già quest’anno quello del titolo mondiale, facilmente pronosticabile in futuro la Vuelta. Delle due classiche-monumento che ancora gli mancano Poga ha già sfiorato la Milano-Sanremo ma non ha mai affrontato quella più lontana dalle sue mille qualità, la Parigi-Roubaix. Se volesse, pensano in molti, non avrebbe nessuna difficoltà a scatenare l’inferno anche sul pavè, lui che alla Strade Bianche di Siena ha ballato da solo sullo sterrato per 80 chilometri.

 concludo   riportando sempre   dallo  scorso numero  del  settimanale  7 



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10.4.22

Mustapha Jawara, A 14 anni ha lasciato il Gambia con un desiderio. Ha attraversato il mare e la violenza dei trafficanti di uomini. Ma ce l’ha fatta a realizzare il suo sogno di diventare arbitro

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  • dal settimanale  Oggi 
  • In Africa, i miei amici sognavano di fare il bomber. Io no, volevo il fischietto». A 14 anni ha lasciato il Gambia con un desiderio. Ha attraversato il mare e la violenza dei trafficanti di uomini. Ma ce l’ha fatta.

                                                         Fiamma Tinelli

    La prima volta che ha indossato la divisa da arbitro, Mustapha si è fatto una foto e l’ha spedita via WhatsApp al suo amico Bunambass, in Gambia. Bunambass ha camminato per un’ora e mezza, ha raggiunto la madre di Mustapha, Jaka, che lavora nei campi e un cellulare non ce l’ha, e le ha detto: guarda tuo figlio. È vivo, è in Italia. E ce l’ha fatta.

    Mustapha Jawara, 22 anni, è il primo migrante divenuto arbitro effettivo dell’Aia, l’Associazione italiana arbitri. Il suo è il racconto di tanti uomini e donne che attraversano l’inferno in cerca di speranza, ma non solo. È la storia di un ragazzino con un grande sogno. E di una determinazione senza pari. Quando siamo sbarcati c’erano tante luci, ci hanno dato da mangiare e ho sentito rispetto. Non c’ero abituato Mustapha viene da Sanunding, un villaggio di quattro strade al confine orientale del Gambia, un Paese incuneato nel Senegal come un chiodo. Da queste parti le partite di calcio si guardano fuori dal bar, con la tv attaccata alla prolunga e le sedie di plastica per strada. «I miei amici tenevano gli occhi fissi sui bomber e sognavano di essere come Messi. Io no, io guardavo l’arbitro. Perché è lui che dirige il gioco, che dà sicurezza». A Sanunding, chi ha i soldi va alla scuola privata e impara l’inglese. Chi non li ha, come Mustapha, va alla madrasa a studiare il Corano. Che poi a Mustapha piace, il Corano, «è un libro di pace, di fratellanza», ma non è questo il punto. Il punto è che nel suo villaggio, a parte giocare a choko sul marciapiede o zappare la terra, c’è poco da fare. Un giorno, suo zio si è offerto di pagargli un corso da elettricista. A Mustapha è piaciuto, gli piacciono le cose tecniche, risolvere i problemi, «ma a che serve un elettricista in un posto dove la corrente salta ogni mezz’ora?». Così, a 14 anni se n’è andato. Senza dire niente a nessuno, perché non c’era niente da dire. All’età in cui i suoi coetanei italiani si fanno regalare il motorino per la promozione, Mustapha lavorava in un garage di Bamako, in Mali, e procacciava clienti agli autisti: se riusciva a riempire il pulmino, a fine giornata gli spettavano un piatto di riso e dieci centesimi. Altrimenti, nulla. I soldi per partire di nuovo li ha fatti così, «mettendo da parte le monetine». Aveva sentito dire che in Europa c’era lavoro, che non ammazzano la gente per strada. Il viaggio per la Libia non lo dimenticherà mai. «In macchina eravamo in venti, per pigiarci tutti dentro avevano tolto i sedili». Tre settimane di deserto, in auto, coi piedi in bocca. «Un giorno un ragazzo si è sentito male, gli mancava l’aria. L’autista ha preso a colpirlo col calcio del fucile, ma quello urlava ancora. Così gli ha sparato. L’ha lasciato nella sabbia, come un sacco».

    In Libia, Mustapha è salito sul barcone dopo sei mesi di galera, quella dove ti chiudono solo per massacrarti di botte se non paghi. A bordo c’erano uomini, donne, bambini spaventati. Un ragazzo senegalese è caduto in mare, forse s’era addormentato e ha perso l’equilibrio; il pilota s’è voltato a guardare, di malavoglia, e ha tirato dritto. Quando Mustapha è arrivato a Salerno, grazie al soccorso di una nave della Marina Militare, aveva appena compiuto 16 anni. «C’erano tante luci, ci hanno dato da mangiare e ho sentito rispetto. Non c’ero abituato». È stato al centro di accoglienza che il suo amico Massimo, un operatore, gli ha parlato del corso per diventare arbitri. Mustapha s’è messo a studiare anche di notte - rigore, punizione, calcio d’angolo - e ha passato gli esami al primo colpo. Oggi arbitra le gare degli esordienti a Polla, nel Vallo di Diano. «In campo non ho paura di sbagliare. Se rispetti le regole, ti senti sicuro sempre. Vale per il calcio, ma anche per la vita». In Gambia, gli amici sono orgogliosi di lui, ma anche preoccupati: e se ti insultano perché sei nero? Mustapha sorride e assicura che il colore della pelle non c’entra: «Se se la prendono con me è perché sono l’arbitro, punto. A Polla mi vogliono bene tutti». Dal lunedì al venerdì fa l’elettricista e lavora sodo, «perché quando un Paese ti ha salvato devi restituire, mica stare a guardare le nuvole». Lo stipendio lo mette da parte: verrà una moglie, verranno dei figli. L’obiettivo, ora, è diventare sempre più bravo. E magari, chissà, arbitrare la Coppa d’Africa. Qualche giorno fa suamadre Jaka, a Sanunding, si è fatta prestare un cellulare e l’ha chiamato. C’era poco segnale, la voce andava e veniva. Gli ha detto solo: torna a casa, appena puoi. E fa’ il bravo, ovunque tu sia.



    Una storia, la sua, che è subito rimbalzata su Facebook (  e poi su media )  , una volta tanto è veicolo di storie positive  come questa  « [....] Adoro lo sport in generale - si legge su https://www.avvenire.it/agora/pagine/mustapha che     riprende  quello sul sito web dell'Aia -, ma in particolar modo il calcio. Non ho mai avuto piedi buoni, non sono molto bravo a giocare a calcio, e così ho pensato che potevo essere un buon arbitro anche perché mi è sempre piaciuta la sua figura per la sicurezza c dà in campo. Ho imparato tutte le regole a memoria per far si che un giorno il mio sogno possa diventare realtà: sogno di arbitrare la finale di Coppa d'Africa, emulando il mio connazionale Papa Gassamma, e magari quella dei Mondiali. Sarebbe veramente un sogno perché così potrei riabbracciare la mia famiglia ed i miei amici che mi potrebbero rivedere nella mia nuova veste di arbitro ».

    11.1.22

    Beatrice Rigoni «Sono la rugbista migliore, ma non lo sa nessuno»

     

  • Oggi 
  • di Massimo Laganà

  • «CIMERITEREMMO PIÙ ATTENZIONE, PER TUTTI I SACRIFICI CHE FACCIAMO», SPIEGA L’AZZURRA BEATRICE RIGONI. «VOGLIO DIVIDERE IL PREMIO CON LE MIE COMPAGNE. SE HO VINTO, IL MERITO È ANCHE LORO»

    In principio, nello sport, l’importante era partecipare. Ben presto, tuttavia, prevalse l’idea che fosse molto meglio vincere. Ai giorni nostri si è imposta infine un’altra necessità. D’accordo battere gli avversari. Perfetto diventare il numero uno. Ma a cosa serve, se i media non ne parlano? Se l’è chiesto, teneramente, Anna Pedrina, madre della padovana Beatrice Rigoni, entrata nel Best XV di World Rugby 2021, la selezione delle 15 giocatrici più forti del pianeta, ruolo per ruolo. La signora, farmacista a tempo

    perso e tifosa della figlia perdutamente, ci ha scritto una dolcissima mail, per lamentare il relativo silenzio stampa sull’impresa della sua ragazza. E noi siamo qui, pronti a rimediare. Beatrice, ti chiediamo scusa a nome di un Paese calciofilo e ancora un pizzico sessista. Quest’anno sei stata il miglior centro del mondo. Nessuna rugbista italiana ha mai ottenuto un trionfo simile, come sottolinea ad abundantiam la tua mamma. Quanto ti rode, da uno a quindici, che i giornali non ne abbiano parlato abbastanza? «Diciamo dodici, dai! È il mio numero di maglia, legato alla posizione che ho, in mezzo al campo», scherza Rigoni, con apprezzabile ironia. «La passione e le vittorie sono il nostro carburante. Siamo a posto così. Però un po’ di attenzione in più ce la meriteremmo. Se non altro per tutti i sacrifici che facciamo».

    Sei una sorta di “dieci” calcistico, la cifra che appartiene ai grandi del pallone? «Niente confronti, grazie.

    Tra l’altro, non amo particolarmente il football. Preferisco il basket della Nba. Piuttosto ci tengo a sottolineare che il premio va condiviso con mie compagne. La nostra Nazionale ha raggiunto traguardi notevoli. Siamo arrivate seconde al Torneo delle Sei Nazioni. E ci siamo guadagnate la qualificazione per la fase finale della Coppa del Mondo. L’anno prossimo vivremo una grande avventura in Nuova Zelanda, la patria del rugby. Sono emozionatissima».




    Siete meglio degli uomini, verrebbe da dire... «E diciamolo pure», interrompe con un sorriso malizioso Beatrice. «È un dato di fatto. Intendiamoci, non c’è alcuna rivalità con i nostri colleghi azzurri. Anzi, siamo in ottimi rapporti. Nella mia concezione dello sport non esistono differenze di genere. Se vedo una partita, tifo Italia. Non guardo se in campo ci sono uomini o donne. Purtroppo c’è una mentalità da sconfiggere». In effetti, all’alba del 2022, c’è ancora qualcuno che distingue le discipline adatte ai maschietti da quelle consone alle femminucce. «Per fortuna mamma e papà non “ragionano” così. Sono i miei primi tifosi e assistono sempre alle partite, perfino se non gioco, magari per un infortunio. Ho iniziato a 6 anni. Seguivo le orme dei miei fratelli, che hanno smesso presto. Fino alla terza media sono

    stata in team misti, assieme ai ragazzi. Poi l’approdo in una squadra femminile, il Petrarca Padova. E infine il Valsugana, il mio attuale club, dove mi trovo benissimo. Ho vinto tre scudetti e ho il campo a un quarto d’ora da casa!». Per le ragazze del calcio è imminente lo sbarco nel professionismo. Voi come siete messe? «Questa meta per noi è lontana. Per fortuna la federazione ha concesso 15 borse di studio e io sono tra le beneficiarie. Nel mio futuro c’è la farmacia di mamma. Sono iscritta alla facoltà di Ferrara. Mi manca qualche esame». Esiste addirittura una vita sentimentale o manca il tempo? «No comment! Ho due allenamenti quotidiani, le giornate sono molto piene tra campo e studio....». A tal proposito. Capisco che sei giovane, ma fino a quando pensi di giocare? «Ho un obiettivo: arrivare a cento presenze in Nazionale. Ne ho 49. Sono a metà strada».

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