Mustapha Jawara, A 14 anni ha lasciato il Gambia con un desiderio. Ha attraversato il mare e la violenza dei trafficanti di uomini. Ma ce l’ha fatta a realizzare il suo sogno di diventare arbitro

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  • dal settimanale  Oggi 
  • In Africa, i miei amici sognavano di fare il bomber. Io no, volevo il fischietto». A 14 anni ha lasciato il Gambia con un desiderio. Ha attraversato il mare e la violenza dei trafficanti di uomini. Ma ce l’ha fatta.

                                                         Fiamma Tinelli

    La prima volta che ha indossato la divisa da arbitro, Mustapha si è fatto una foto e l’ha spedita via WhatsApp al suo amico Bunambass, in Gambia. Bunambass ha camminato per un’ora e mezza, ha raggiunto la madre di Mustapha, Jaka, che lavora nei campi e un cellulare non ce l’ha, e le ha detto: guarda tuo figlio. È vivo, è in Italia. E ce l’ha fatta.

    Mustapha Jawara, 22 anni, è il primo migrante divenuto arbitro effettivo dell’Aia, l’Associazione italiana arbitri. Il suo è il racconto di tanti uomini e donne che attraversano l’inferno in cerca di speranza, ma non solo. È la storia di un ragazzino con un grande sogno. E di una determinazione senza pari. Quando siamo sbarcati c’erano tante luci, ci hanno dato da mangiare e ho sentito rispetto. Non c’ero abituato Mustapha viene da Sanunding, un villaggio di quattro strade al confine orientale del Gambia, un Paese incuneato nel Senegal come un chiodo. Da queste parti le partite di calcio si guardano fuori dal bar, con la tv attaccata alla prolunga e le sedie di plastica per strada. «I miei amici tenevano gli occhi fissi sui bomber e sognavano di essere come Messi. Io no, io guardavo l’arbitro. Perché è lui che dirige il gioco, che dà sicurezza». A Sanunding, chi ha i soldi va alla scuola privata e impara l’inglese. Chi non li ha, come Mustapha, va alla madrasa a studiare il Corano. Che poi a Mustapha piace, il Corano, «è un libro di pace, di fratellanza», ma non è questo il punto. Il punto è che nel suo villaggio, a parte giocare a choko sul marciapiede o zappare la terra, c’è poco da fare. Un giorno, suo zio si è offerto di pagargli un corso da elettricista. A Mustapha è piaciuto, gli piacciono le cose tecniche, risolvere i problemi, «ma a che serve un elettricista in un posto dove la corrente salta ogni mezz’ora?». Così, a 14 anni se n’è andato. Senza dire niente a nessuno, perché non c’era niente da dire. All’età in cui i suoi coetanei italiani si fanno regalare il motorino per la promozione, Mustapha lavorava in un garage di Bamako, in Mali, e procacciava clienti agli autisti: se riusciva a riempire il pulmino, a fine giornata gli spettavano un piatto di riso e dieci centesimi. Altrimenti, nulla. I soldi per partire di nuovo li ha fatti così, «mettendo da parte le monetine». Aveva sentito dire che in Europa c’era lavoro, che non ammazzano la gente per strada. Il viaggio per la Libia non lo dimenticherà mai. «In macchina eravamo in venti, per pigiarci tutti dentro avevano tolto i sedili». Tre settimane di deserto, in auto, coi piedi in bocca. «Un giorno un ragazzo si è sentito male, gli mancava l’aria. L’autista ha preso a colpirlo col calcio del fucile, ma quello urlava ancora. Così gli ha sparato. L’ha lasciato nella sabbia, come un sacco».

    In Libia, Mustapha è salito sul barcone dopo sei mesi di galera, quella dove ti chiudono solo per massacrarti di botte se non paghi. A bordo c’erano uomini, donne, bambini spaventati. Un ragazzo senegalese è caduto in mare, forse s’era addormentato e ha perso l’equilibrio; il pilota s’è voltato a guardare, di malavoglia, e ha tirato dritto. Quando Mustapha è arrivato a Salerno, grazie al soccorso di una nave della Marina Militare, aveva appena compiuto 16 anni. «C’erano tante luci, ci hanno dato da mangiare e ho sentito rispetto. Non c’ero abituato». È stato al centro di accoglienza che il suo amico Massimo, un operatore, gli ha parlato del corso per diventare arbitri. Mustapha s’è messo a studiare anche di notte - rigore, punizione, calcio d’angolo - e ha passato gli esami al primo colpo. Oggi arbitra le gare degli esordienti a Polla, nel Vallo di Diano. «In campo non ho paura di sbagliare. Se rispetti le regole, ti senti sicuro sempre. Vale per il calcio, ma anche per la vita». In Gambia, gli amici sono orgogliosi di lui, ma anche preoccupati: e se ti insultano perché sei nero? Mustapha sorride e assicura che il colore della pelle non c’entra: «Se se la prendono con me è perché sono l’arbitro, punto. A Polla mi vogliono bene tutti». Dal lunedì al venerdì fa l’elettricista e lavora sodo, «perché quando un Paese ti ha salvato devi restituire, mica stare a guardare le nuvole». Lo stipendio lo mette da parte: verrà una moglie, verranno dei figli. L’obiettivo, ora, è diventare sempre più bravo. E magari, chissà, arbitrare la Coppa d’Africa. Qualche giorno fa suamadre Jaka, a Sanunding, si è fatta prestare un cellulare e l’ha chiamato. C’era poco segnale, la voce andava e veniva. Gli ha detto solo: torna a casa, appena puoi. E fa’ il bravo, ovunque tu sia.



    Una storia, la sua, che è subito rimbalzata su Facebook (  e poi su media )  , una volta tanto è veicolo di storie positive  come questa  « [....] Adoro lo sport in generale - si legge su https://www.avvenire.it/agora/pagine/mustapha che     riprende  quello sul sito web dell'Aia -, ma in particolar modo il calcio. Non ho mai avuto piedi buoni, non sono molto bravo a giocare a calcio, e così ho pensato che potevo essere un buon arbitro anche perché mi è sempre piaciuta la sua figura per la sicurezza c dà in campo. Ho imparato tutte le regole a memoria per far si che un giorno il mio sogno possa diventare realtà: sogno di arbitrare la finale di Coppa d'Africa, emulando il mio connazionale Papa Gassamma, e magari quella dei Mondiali. Sarebbe veramente un sogno perché così potrei riabbracciare la mia famiglia ed i miei amici che mi potrebbero rivedere nella mia nuova veste di arbitro ».

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