«OGGI» DI IERI
la fossa in cui Sapienza aveva sepolto Ippolito dopo averlo ucciso. A destra, Giglio al processo al Tribunale di Latina. |
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
A fianco, da sinistra: il giudice Giuseppe Sapienza, Patrizia Giglio e Roberto Ippolito |
Erano parole disperate quelle di Patrizia Giglio, allora 34 anni, che la nostra cronista Gabriella Montali raccolse poco dopo il delitto, avvenuto il 13 aprile 1992: il suo ex amante, il giudice della Corte costituzionale Giuseppe Sapienza, 39, aveva ammazzato suo marito, Roberto Ippolito, 37, perché lei aveva deciso di non separarsi e di rompere, invece, con il magistrato. C’era voluto quasi un mese per capire chi avesse sparato alla tempia di Ippolito. Nel frattempo, Sapienza si era pure calato nel ruolo del consolatore. «Vorrei essere sotto terra, morta e sepolta anch’io, come mio marito Roberto. Cosa racconterò a mia figlia Caterina, adesso che suo padre se n’è andato in quella maniera orribile? Che potevo fare? Quel giudice aveva perso la testa... Per sfuggire alle sue molestie non andavo nemmeno più in ufficio... Ma che arrivasse a uccidere, no, non l’avrei mai immaginato». Patrizia, segretaria e impiegata presso la Consulta, proprio come suo marito, non riusciva a capacitarsi. Né ci riusciva l’opinione pubblica: un magistrato? E, per di più, della Suprema Corte? Eppure alla fine i giudici non credettero all’unica tesi che gli avvocati difensori avevano potuto giocarsi: l’infermità di mente. A fine ottobre 1993, la Corte d’assise di Latina, dopo quattro ore di camera di consiglio, condannò Giuseppe
la fossa in cui Sapienza aveva sepolto Ippolito dopo averlo ucciso. A destra, Giglio al processo al Tribunale di Latina. |
Tolta la rilevanza del ruolo ricoperto da Sapienza e quindi l’interesse pubblico della vicenda, forse avrebbe comunque meritato l’oblio, se, ad aggravare il tutto, non avesse concorso uno strano e inquietante elemento: i Carabinieri erano stati avvertiti. E non avevano fatto nulla: non solo perché di avvertimenti del genere, pare, ne ricevessero a bizzeffe (e quante volte, ancora oggi, le denunce di violenze vengono sottovalutate?). Ma soprattutto perché sembrava loro impossibile che un magistrato si volesse macchiare di un delitto del genere. E invece Giuseppe Sapienza aveva confidato la sua ossessione e le sue intenzioni al suo amico Filippo Iannarone, allora 39 anni, imprenditore agricolo a Panicale ( Perugia), che, appunto, era andato a raccontarlo ai Carabinieri. Senza fare il nome del magistrato e senza firmare una denuncia. Poi, a 17 giorni dal delitto, l’assassino gli aveva confessato tutto. Ma quando, il 1° maggio, erano andati ad arrestarlo aveva fatto finta di cadere dalle nuvole. Salvo confessare dopo 12 ore di interrogatorio. Una sua ex aveva raccontato alla nostra cronista: «Ha amato una sola persona in vita sua: la madre, che ha idealizzato... Lui stesso diceva di essere incapace di innamorarsi». Di uccidere, invece, sì.
GIUSEPPE SAPIENZA: riconosciuto colpevole dell’assassinio di Roberto Ippolito e della premeditazione, fu condannato, nel 1993 a 23 anni. Nel 1995 la sentenza fu confermata in Appello. Sapienza ricorse il Cassazione e il caso arrivò addirittura alla Corte costituzionale che, il 17 ottobre 1996, dichiarò infondato il ricorso.
VITO IPPOLITO: il padre della vittima, che sperava nell’ergastolo, affermò, dopo il primo grado: «Noi siamo e resteremo una famiglia unita... Anche permia nipote». Caterina aveva allora 16 anni.
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