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27.8.22

finalmente un po' d'autocritica e di umiltà dai giudici le dichiarazioni di Tommaso Mainenti, già presidente della Sezione lavoro del tribunale di Torre Annunziata (Napoli) ora in servizio a Nocera (Salerno)






Giudice: "Bisogna scusarsi se si sbaglia e spiegare la giustizia via social"

da webinfo@adnkronos.com (Web Info) - Ieri 19:39


© Fornito da Adnkronos
IL sistema non è infallibile, ma scendere dalla torre d’avorio e spiegare, con semplicità - e magari anche via social -, problemi ed errori è un passo che la magistratura deve compiere per riconquistare la fiducia dei cittadini. Tommaso Mainenti, già presidente della Sezione lavoro del tribunale di Torre Annunziata (Napoli) ora in servizio a Nocera (Salerno), è un magistrato diventato emblema della possibilità di smaltire l’arretrato e di far correre, o almeno più che camminare, una macchina che a partire dal tribunale di Roma, ma non solo, sembra ingolfata. Un giudice "controcorrente" capace di criticare la sua stessa categoria, a partire dagli ultimi fatti di cronaca
"Non conosco nei dettagli la vicenda del femminicidio di Bologna, ma mi sento di dire che ogni volta che si verifica l'evento da impedire significa che 'il sistema' non ha funzionato; e chi di quel sistema è l'asse portante (il magistrato) ne deve avvertire la responsabilità morale e non trincerarsi dietro quel che all'esterno viene sentito come un inammissibile discarico di colpe", le parole affidate all'Adnkronos. "La magistratura deve uscire dalle proprie torri d'avorio e fare i conti con il comune sentire, deve saper 'dialogare' senza chiudersi in recinti autoreferenziali e deve ammettere quando ci sono le proprie mancanze, spiegando con termini accessibili a tutti cosa c'è che non funziona e perché. La fiducia dei cittadini, nel cui nome la giustizia viene pronunciata, si perde e si conquista sul campo anche parlando sui social di quel che si fa (solo del funzionamento del sistema non dei singoli casi) ed esponendosi, com'è giusto che sia, a critiche e recriminazioni da cui si può trarre spunto per migliorare".
I magistrati "sbagliano, come tutti gli uomini. Il fatto che non paghino per i propri errori non è corretto, diciamo che a volte si avverte all'esterno un sistema di autodifesa corporativo che può essere solo frutto della normativa", ma non sempre è così: "arrestare chi poi viene assolto non necessariamente è un errore poiché i presupposti di legge sono diversi anche se poi è difficile spiegarlo all'esterno" evidenzia Mainenti che in carriera ha chiesto scusa ed è pronto a rifarlo, se necessario. "Capita e capiterà che, con tutta l’attenzione possibile, qualcosa sfugga. Per questo ci sono più gradi di giudizio. E, confesso, per questo ho dedicato tutta la mia vita al primo grado: perché i miei errori non siano mai definitivi. Alla famiglia di chi ha subito i danni di un sistema che non funziona vanno formulate le proprie scuse: non bastano, ma sono almeno un segno di rispetto".
Non solo qualche errore, tra gli evergreen dei problemi della giustizia ci sono i fascicoli arretrati. "Con la legislazione attuale, senza quindi che occorrano modifiche di sorta, io posso scommettere che se mi si mandasse in una qualsiasi sezione lavoro d'Italia, fornendomi un paio di collaboratori di Cancelleria adeguati, sul ruolo di cause assegnatomi (qualunque ruolo, con qualsiasi quantitativo), in capo a un anno al massimo non vi sarebbero più arretrati", spiega chi da 35 anni ha esperienza in materia di lavoro.
Eppure sul fronte penale i faldoni che si accumulano hanno portato il presidente del tribunale di Roma a disporre che le udienze collegiali saranno sospese per sei mesi, a partire dal 15 ottobre, per mancanza di magistrati. "Non conosco la reale situazione del Tribunale di Roma, ma fermare la macchina della giustizia per eccesso di arretrati è come evitare di curare un malato curabile solo perché ha troppe malattie, ha senso?" è la domanda, alquanto retorica, che cerca risposta.
Risposte ai problemi delle toghe che il prossimo ministro della Giustizia deve cercare anche nella tecnologia. "Deve attivarsi per rendere obbligatori i protocolli d'intesa tra magistrati e avvocati per ogni tribunale, con la previsione delle modalità dei rinvii della trattazione delle cause civili. È materia sulla quale non c'è nessuna uniformità e nella quale si annidano, tante volte, le peggiori storture. E poi occorre modificare gli strumenti telematici: magistrati e avvocati sono tenuti all'utilizzo di software che è molto migliorabile: oggi, spesso, tra rimandi e percorsi obbligati più che un sistema che aiuti il lavoro sembra il gioco dell'oca” conclude Tommaso Mainenti, già presidente della Sezione lavoro del tribunale di Torre Annunziata e oggi in servizio al tribunale di Nocera

7.4.22

quando a commettere un femminicidio è un giudice . la storia di Giuseppe Sapienza magistrato della corte costituzionale

 

«OGGI» DI IERI


 A fianco, da sinistra: il giudice Giuseppe Sapienza, Patrizia Giglio e Roberto Ippolito

Erano parole disperate quelle di Patrizia Giglio, allora 34 anni, che la nostra cronista Gabriella Montali raccolse poco dopo il delitto, avvenuto il 13 aprile 1992: il suo ex amante, il giudice della Corte costituzionale Giuseppe Sapienza, 39, aveva ammazzato suo marito, Roberto Ippolito, 37, perché lei aveva deciso di non separarsi e di rompere, invece, con il magistrato. C’era voluto quasi un mese per capire chi avesse sparato alla tempia di Ippolito. Nel frattempo, Sapienza si era pure calato nel ruolo del consolatore. «Vorrei essere sotto terra, morta e sepolta anch’io, come mio marito Roberto. Cosa racconterò a mia figlia Caterina, adesso che suo padre se n’è andato in quella maniera orribile? Che potevo fare? Quel giudice aveva perso la testa... Per sfuggire alle sue molestie non andavo nemmeno più in ufficio... Ma che arrivasse a uccidere, no, non l’avrei mai immaginato». Patrizia, segretaria e impiegata presso la Consulta, proprio come suo marito, non riusciva a capacitarsi. Né ci riusciva l’opinione pubblica: un magistrato? E, per di più, della Suprema Corte? Eppure alla fine i giudici non credettero all’unica tesi che gli avvocati difensori avevano potuto giocarsi: l’infermità di mente. A fine ottobre 1993, la Corte d’assise di Latina, dopo quattro ore di camera di consiglio, condannò Giuseppe

 la fossa in cui Sapienza aveva sepolto Ippolito dopo averlo ucciso.
 A destra, Giglio al processo al Tribunale di Latina.
Sapienza a 23 anni di carcere. Patrizia, in quell’occasione, era scoppiata in un lungo pianto disperato. La madre della vittima, Caterina Ippolito, aveva invece commentato in modo secco: «Spero solo che sia stato giudicato come uomo, e non come magistrato». Poi, il silenzio. Eppure, 30 anni fa, avrebbe dovuto fare molto rumore quella vicenda, pur piombata in un inizio anno fitto di eventi (dal dissolvimento dell’Urss, siglato nel dicembre 1991, all’assedio di Sarajevo, dall’inizio della guerra civile in Afghanistan alla Strage di Capaci). Gli elementi c’erano tutti: un brillante, giovane e promettente magistrato che si innamora della sua avvenente e vivace segretaria. Una storia clandestina. E poi un sentimento che diventa ossessione. Persecuzione. Patrizia che cambia idea e rifiuta di firmare le carte della separazione che lui le spinge sotto il naso e inizia a fingersi malata pur di non andare in ufficio e

sottrarsi così alle sue molestie. Giuseppe, che con un ego smisurato, non riesce ad accettare l’idea che lei gli preferisca il marito, un “semplice impiegato” che lavorava part time per completare i suoi interrotti studi universitari. Un vicolo cieco. All’epoca, a nessuna donna sarebbe venuto in mente di denunciare molestie sul lavoro. Non sarebbe stata creduta: non era forse stata l’amante? E poi Ippolito non si era accorto di nulla: la nostra cronista lo ribadisce. Il suo stupore dev’essere stato immenso: invitato da Sapienza nella sua villa di Terracina c’era andato senza alcun sospetto. «Il colpo della pistola, comprata un mese prima, arrivò dritto alla testa», scrive Montali. «Ippolito veniva spogliato (gli sono stati tolti solo i pantaloni e gli slip, altra circostanza strana di questo omicidio) e seppellito in una fossa di tre metri scavata in giardino due settimane avanti».

Tolta la rilevanza del ruolo ricoperto da Sapienza e quindi l’interesse pubblico della vicenda, forse avrebbe comunque meritato l’oblio, se, ad aggravare il tutto, non avesse concorso uno strano e inquietante elemento: i Carabinieri erano stati avvertiti. E non avevano fatto nulla: non solo perché di avvertimenti del genere, pare, ne ricevessero a bizzeffe (e quante volte, ancora oggi, le denunce di violenze vengono sottovalutate?). Ma soprattutto perché sembrava loro impossibile che un magistrato si volesse macchiare di un delitto del genere. E invece Giuseppe Sapienza aveva confidato la sua ossessione e le sue intenzioni al suo amico Filippo Iannarone, allora 39 anni, imprenditore agricolo a Panicale ( Perugia), che, appunto, era andato a raccontarlo ai Carabinieri. Senza fare il nome del magistrato e senza firmare una denuncia. Poi, a 17 giorni dal delitto, l’assassino gli aveva confessato tutto. Ma quando, il 1° maggio, erano andati ad arrestarlo aveva fatto finta di cadere dalle nuvole. Salvo confessare dopo 12 ore di interrogatorio. Una sua ex aveva raccontato alla nostra cronista: «Ha amato una sola persona in vita sua: la madre, che ha idealizzato... Lui stesso diceva di essere incapace di innamorarsi». Di uccidere, invece, sì.

GIUSEPPE SAPIENZA: riconosciuto colpevole dell’assassinio di Roberto Ippolito e della premeditazione, fu condannato, nel 1993 a 23 anni. Nel 1995 la sentenza fu confermata in Appello. Sapienza ricorse il Cassazione e il caso arrivò addirittura alla Corte costituzionale che, il 17 ottobre 1996, dichiarò infondato il ricorso.

VITO IPPOLITO: il padre della vittima, che sperava nell’ergastolo, affermò, dopo il primo grado: «Noi siamo e resteremo una famiglia unita... Anche permia nipote». Caterina aveva allora 16 anni.


Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa Agitu Ideo Gudeta, la regina delle capre felici.

Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa la regina delle capre felici.È stata ferocemente uccisa Agitu, la regina delle capre felici, con un colpo...