Una vicenda che ha dell'incredibile quella accaduta a un postino di 55 anni in forza a una filiale delle Poste della provincia di Rimini: l'uomo, che si era messo a lavorare nei weekend per smaltire lettere e pacchi accumulatisi durante la settimana, è stato infatti denunciato per il reato di occultamento ai fini di distruzione di corrispondenza e sospeso temporaneamente dal suo impiego. La querela, peraltro, è stata presentata alle forze dell'ordine proprio dal suo capo. Ma cosa è successo esattamente?Il protagonista della vicenda, che da anni svolge la mansione di postino, ha pagato per essere stato troppo zelante. Stando a quanto ricostruito dalle autorità, tra la fine del 2022 e gli inizi del 2023 il 55enne avrebbe iniziato a svolgere il proprio compito anche durante il fine settimana. Di sabato e di domenica, dunque, l'uomo consegnava lettere e pacchi di piccole dimensioni che si erano accumulati nel cesto della posta non corrisposta, ovvero di quella che era tornata indietro all'ufficio postale dopo un primo tentativo di consegna andato a vuoto. Dopo aver frugato nel contenitore ed effettuato una selezione tra la corrispondenza in giacenza, il postino si occupava di consegnarla al legittimi proprietari, operando al di fuori del proprio orario di lavoro. Una decisione nata in modo autonomo e totalmente spontaneo, e di cui il 55enne non aveva informato nessuno, né il capo né tantomeno i suoi colleghi. Notando una sospetta diminuzione del numero di lettere e pacchi nel cesto della posta non corrisposta, i dipendenti della filiale hanno riferito il tutto al direttore. Preoccupato che la posta scomparsa potesse essere stata rubata o distrutta, quest'ultimo ha deciso di sporgere denuncia formale presso i carabinieri della compagnia di Riccione. Gli uomini dell'Arma, dopo aver avviato le indagini sul caso sotto il coordinamento della procura della Repubblica di Rimini, sono quindi riusciti a risalire all'autore delle "consegne clandestine".
Purtroppo, nonostante che si a stata dimostrata la sua buona fede, l'eccessivo zelo del postino stacanovista è al momento costato caro. L'uomo è stato denunciato con l'accusa di occultamento ai fini di distruzione di corrispondenza, subendo anche una sospensione dal lavoro che si è conclusa lo scorso mese di novembre. Concluso il provvedimento disciplinare, col postino che ha ripreso regolarmente il suo lavoro, resta ancora in piedi l'inchiesta sul reato a lui ascritto: in attesa che si concludano le indagini, quindi, non si sa ancora se arriverà il rinvio a giudizio o l'archiviazione.
Per realizzare il suo sogno, quello di diventare meccanico in una autofficina, Iris Ilacqua ha dovuto lottare contro tutti. La perplessità dei genitori, il bullismo, le molestie sessuali subite durante un’esperienza di lavoro, le decine di colloqui conclusi con offerte di mansioni impiegatizie perché "più adatte a una donna". Barriere per una ragazza che desidera fare "un lavoro da uomo", nonostante i proclami della politica e le tante iniziative per avvicinare le donne alle materie tecniche. Superando un ostacolo dopo l’altro, a 22 anni sta vincendo la sua sfida, pioniera in un settore tipicamente maschile. Da quattro mesi lavora alla Lombarda Motori, storico concessionario monzese di un grande gruppo tedesco. Unica donna in un team di 12 meccanici composto solo da uomini, "felice di andare al lavoro" e di trascorrere le giornate con le mani nei motori.
Iris, come è nata la sua passione per i motori?
"Sono cresciuta a Cinisello Balsamo in una famiglia numerosa: ho quattro sorelle tra cui una gemella, genitori che lavoravano nella ristorazione. Da piccola mi mettevo sul balcone, osservavo le macchine sulla strada e pensavo che mi sarebbe piaciuto vedere come erano fatte dentro. Poi guardavo le gare di Formula 1 con papà, e pensavo che mi sarebbe piaciuto creare un mio marchio. È una passione che ho sempre avuto dentro".
I suoi genitori l’hanno assecondata?
"La consideravano un capriccio, tanto che al momento di scegliere le superiori mia madre mi ha spinta a iscrivermi al liceo delle Scienze umane. Il suo desiderio era quello di avere una figlia psicologa. Ho capito subito che quella non era la mia strada. Presto ho smesso di frequentare la scuola, facevo dei lavoretti ma il mio sogno rimaneva sempre lo stesso: lavorare con i motori. Un giorno ho deciso di seguirlo, e a 18 anni mi sono iscritta alla scuola di meccanica-meccatronica di Afol Metropolitana (l’agenzia che gestisce centri per l’impiego e percorsi di formazione nella Città metropolitana, ndr ), specializzandomi poi nell’elettrico-ibrido. I miei compagni erano tutti maschi". Come l’hanno accolta?
"Erano ragazzi più piccoli di me, con atteggiamenti spesso infantili. Come unica donna venivo presa di mira, anche con episodi di bullismo. Ricordo che una volta hanno iniziato a tirarmi addosso dei bulloni. Per fortuna ho un carattere forte, ho trovato insegnanti validi e la possibilità di frequentare tirocini anche all’estero, in Slovenia. Il nostro è un lavoro che si impara solo facendo tanta pratica".
Come è stata trattata, nei luoghi di lavoro ?
"Ci sono stati episodi spiacevoli. Ad esempio in passato durante un colloquio il titolare mi ha proposto di andare a letto con lui in cambio di un contratto. Io sono scappata via. Poi molte officine cercano
meccanici ma, ai colloqui, mi offrivano solo lavori da impiegata. Rimanevano increduli quando spiegavo loro che, invece, voglio lavorare con i motori. Prima di arrivare alla Lombarda Motori ho fatto una ventina di colloqui. Infine loro mi hanno dato fiducia, nella storia dell’azienda sono il primo tecnico donna. Sono da sempre appassionata del marchio per il quale lavoro, vado al lavoro con il sorriso e sono felice".
Dopo questo primo risultato, ha altri sogni nel cassetto?
"Mi piacerebbe fare l’università, iscrivermi a Ingegneria meccanica, trovare delle socie e aprire un’officina di sole donne".
Che cosa consiglia a una donna che vorrebbe seguire il suo percorso?
"Di non mollare mai, di lottare per i propri sogni. Per fare il meccanico non è necessario avere la forza di un uomo, perché ci sono gli strumenti. Quello che conta è l’intelligenza". I suoi genitori, adesso, hanno compreso la sua passione?
"Hanno capito che questa è la mia strada, sono contenti. Poi un meccanico in famiglia fa sempre comodo".
Ogni mio ulteriore commento alla storia di Enzo (uso ancora il nome maschile in quanto anagraficamente e chirurgicamente non è donna ) che leggerete sotto è inutile ed non aggiunge niente di più a quanto detto sotto da lui stesso . Ser non queste poche righe prese dall'articolo riportato sotto
La sua è una storia particolare in quanto Innocenzo Giagoni ha 55 anni ed è nato a Roma dove ha vissuto fino al 1992 per trasferirsi, poi, in Sardegna. Nel 1986 è entrato in polizia. Dopo aver chiesto e ottenuto il trasferimento nell'isola, ha lavorato nei diversi reparti della polizia della provincia di Sassari. Nel 2010 è arrivato in città ed è entrato in servizio alla polizia stradale di Olbia, successivamente, nel 2013, l'anno in cui il ciclone Cleopatra devastò la Gallura provocando la morte di 13 persone, tra cui la compagna di 42 anni e la figlia di quasi due anni, lavorava alla polizia di frontiera all'aeroporto "Olbia Costa Smeralda"
Detto questo lascio la parola alla sua storia presa Da la nuova Sardegna del 12\1\2021
Enzo è diventato Carla: la nuova vita dell'ex poliziotto
Carla durante l'intervista (foto vanna sanna)
Giagoni, 55 anni, era sopravvissuto all'alluvione che gli aveva strappato moglie e figlioletta. Ora sta diventando donna
Tiziana Simula
11 Gennaio 2021
OLBIA.
Carla Baffi non è una persona qualunque. E non solo perché Carla prima
era Enzo, ma soprattutto perché Carla, quando era ancora Enzo, è
sopravvissuta all’alluvione del 18 novembre 2013 a Olbia. Ha visto
morire davanti ai suoi occhi la compagna Patrizia e la loro figlia
Morgana di 23 mesi, trascinate via dalla piena. Una ferita che nel suo
cuore non guarirà mai.Enzo Giagoni, 55 anni, romano, ex
poliziotto, con trent’anni di servizio alle spalle, ha deciso di
cambiare sesso e lo ha fatto dopo un lungo travaglio interiore. Un
percorso che deve ancora concludere. «Sono Carla. E ora sono quella che
sono sempre stata. Non potevo più continuare a farmi del male
costringendomi a vivere una vita che non sentivo mia».
«Sono Carla. E ora sono quella che sono sempre stata. Non potevo più continuare a farmi del male costringendomi a vivere una vita che non sentivo mia». La gonna ha preso il posto dei pantaloni, i tacchi hanno soppiantato le scarpe basse, la parrucca nasconde i riccioli neri ribelli. Ma il suo animo è sempre stato quello di una donna anche quando indossava giacca e cravatta o la divisa da poliziotto. Così è stato fin da quando era bambino e di nascosto infilava i collant e indossava i vestiti delle clienti dell'affittacamere di sua madre. «Ho dovuto far morire Carla mille volte rinnegando me stessa, il mio vero essere, per non far soffrire gli altri. Ora è tempo di essere liberamente, fisicamente e totalmente Carla», dice. Nella sua nuova vita non c'è più spazio per Enzo Giagoni. L'uomo che è stato per quasi cinquant'anni vive solo nei documenti. Per la legge lei è ancora uomo, ma Carla Baffi - così ha scelto di chiamarsi - da un anno ha cominciato il suo complesso percorso di transizione che la porterà ad essere riconosciuta anche legalmente donna, col cambio di generalità e i conseguenti interventi chirurgici. Accavalla le gambe avvolte dagli stivali neri. Gli occhi brillano sotto i capelli a caschetto. È pronta per raccontare. Dice che spiegare, per lei, è liberatorio. Sì, perché Carla, o meglio Enzo, 55 anni, romano, ex poliziotto, con trent'anni di servizio alle spalle, non è suo malgrado una persona qualunque. È sopravvissuto all'alluvione del 18 novembre 2013. Ha visto morire davanti ai suoi occhi la compagna Patrizia e la loro figlia Morgana di 23 mesi, trascinate via dalla piena. Una ferita che nel suo cuore non guarirà mai. «Cinque anni dopo la loro morte ho deciso di dire basta: non potevo più continuare a nascondermi. Ho deciso di uscire allo scoperto. E di combattere per essere me stessa. Quasi tutti ormai sanno di Carla e io mi sento felice e libera di esserlo. Non indosso più abiti maschili, me ne sono disfatta. Racconto di me perché voglio che sia chiaro a tutti una cosa: quella che sono ora, non è un riflesso o una conseguenza del trauma subito nella tragedia di sette anni fa. Voglio demolire preconcetti o idee sbagliate: Carla è sempre esistita, è sempre stata dentro di me, ma non potevo farla vedere agli altri», spiega. E va avanti, con l'impeto di chi vuole far emergere la verità. «Ho avuto quattro donne nella mia vita, tutte importantissime. E tutte sapevano. Alcune hanno accettato la mia parte femminile, altre no. E io per non perdere il loro amore, nascondevo Carla, la reprimevo. Spesso le persone con cui parlo mi chiedono se sono sicura di ciò che sto facendo, se sia la cosa che desidero. La mia risposta è sì, è ciò che ho sempre desiderato. Non rinnego nulla della vita di Enzo perché mi ha dato due splendide figlie, la più grande che ha 30 anni, nata dal mio matrimonio, e la piccola Morgana, avuta con Patrizia, ma col senno di poi, vedendo la serenità con cui vivo ora e la conflittualità che Enzo aveva dentro se stesso e nelle relazioni con le donne, mi dico che avrei dovuto cominciare il percorso molti anni fa. Avrei dovuto far nascere Carla prima anziché farla morire continuamente per non far soffrire gli altri».I ricordi affiorano veloci nel suo racconto. Immagini ed emozioni del passato, forti e nitide come allora. «Sono stata consapevole del mio essere femminile fin da quando avevo sette anni. Amavo i collant, rimanevo incantata a guardare gli abiti sui letti e negli armadi delle clienti della piccola pensione che mia madre adottiva, mamma Michelina, aveva a Roma. Ho vissuto con lei fino al 1992. Andavo con mamma a pulire e sistemare le camere e qualche volta, di nascosto, indossavo i loro vestiti. Quando lei mi beccava, piangeva. Non capiva. Io ricordo benissimo la sensazione che provavo quando mettevo quegli abiti: mi sentivo bene, tranquilla, protetta. Ma quando vedevo mamma piangere, facevo sparire tutto. Non volevo che soffrisse». Parlare e spiegare della sua nuova vita alle persone che hanno conosciuto Enzo e che ora si ritrovano davanti Carla, non è certamente facile. «"Guarda che non sono più quello di prima: quando ci vediamo capirai"», avvisa prima di incontrare - puntualmente vestita con gonna e tacchi - chi ancora non lo sa. «So che ci vuole tempo per metabolizzare, è normale, lo capisco. Ma per me affermare la mia vera identità è fondamentale. Spero di realizzarmi presto anche sotto l'aspetto professionale, trovare un lavoro ora è molto difficile, molti non capiscono la natura di una transgender». Carla un anno fa, ha cominciato il percorso di transizione. È seguita dal Saifip (Servizio di adeguamento tra identità fisica e identità psichica) del San Camillo Forlanini di Roma che ha accertato la disforia di genere (disturbo dell'identità sessuale), ed è sotto terapia ormonale al Policlinico Umberto 1 di Roma. Con le relazioni finali delle due strutture sanitarie, quando arriverà il momento, potrà chiedere al tribunale il cambio delle generalità e iniziare il percorso chirurgico, come prevede la legge. «A mia mamma biologica, mamma Teresa, che oggi ha 90 anni, ho cercato prima di farglielo capire e poi gliel'ho detto chiaramente. "Ti ho partorito come Enzo, per me è difficile accettarlo", mi ha detto. Ma, poi, un giorno l'ho vista che mi lavava un vestito, un altro giorno mi ha consigliato di usare la piastra per i capelli come fanno le mie sorelle perché mi lamentavo dei miei ricci... Mi ama e piano piano si abituerà. Ci vuole tempo per tutti. Ma io in questo tempo che serve agli altri, continuerò a percorrere la mia strada. Chi mi vuole bene, capirà»
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Ma soprattutto ha avuto sempre dalla nuova sardegna
IL ricordo doloroso di quel giorno: «Volevo morire con loro. Ora chiedo giustizia» «L'acqua me le ha strappate via»
OLBIA Il 22 dicembre scorso Morgana avrebbe compiuto 9 anni. E anche quest'anno, come ad ogni compleanno, Carla le ha portato il regalo. L'ha poggiato sulla sua tomba, nel cimitero di Calangianus, dove la piccola è sepolta insieme alla mamma. «Le ho regalato la trousse di Barbie. La sua prima trousse. Sono certa che a 9 anni, vispa com'era e desiderosa di essere una signorina più grande, avrebbe chiesto a me e alla mamma i trucchi». Morgana aveva 23 mesi quando la piena ha travolto l'auto sulla quale viaggiava insieme ad Enzo, che era alla guida, e a Patrizia che la teneva in braccio nel sedile a fianco. La macchina finì nel canale di via Belgio, diventato un tutt'uno con la strada. L'inferno vissuto quel giorno è un ricordo vivo nella mente di Enzo, oggi Carla. Un mese fa, l'ha ripercorso davanti alla Corte d'Appello di Sassari dov'è è in corso il processo di secondo grado (l'alluvione provocò sei vittime in città) per i quattro imputati, ex amministratori e dirigenti del comune di Olbia, tutti assolti in primo grado. «Ho cercato di aprire lo sportello di Patrizia ma non ce l'ho fatta. Ho dato una spallata al mio e si è aperto. Ho afferrato la manina di Morgana che era in braccio alla mamma convinto di poter trascinare tutte e due fuori dalla macchina, ma in quel momento è arrivata l'ondata e me le ha strappate via... La macchina è sparita», ricorda. Quando capì che erano morte, tentò il suicidio tuffandosi nello stesso canale. «Volevo morire anch'io». Era stato salvato da un abitante della zona che lo aveva afferrato per le maniche del maglione e legato alla ringhiera del suo giardino. È stato in malattia per un anno e mezzo e poi riformato dalla polizia al compimento del trentesimo anno di servizio. Un anno dopo Cleopatra, insieme ad altri olbiesi, si era infilato gli stivali di gomma ed era andato a spalare fango in un paesino ligure devastato da un'altra alluvione. Per questo gesto aveva ricevuto il "Premio bontà", un riconoscimento che ogni anno premia degli olbiesi impegnati nel sociale.Non si è costituito parte civile nel processo. Ma porta avanti la sua battaglia in sede civile (assistito dall'avvocato Angelo Merlini). Nell'ultimo anno la vita di Enzo si è trasformata. Ha deciso di "liberare" quella donna che sentiva di essere da sempre e che viveva imprigionata nel corpo di un uomo. Ma la sua fiducia nella giustizia non è mutata, né tanto meno la determinazione nel volerla raggiungere. «Se nel canale ci fosse stata la barriera che c'è ora, la macchina non ci sarebbe finita dentro - ribadisce - Non mi fermerò finché non avrò giustizia. Arriverò fino alla Corte europea dei diritti dell'uomo se sarà necessario».
Infatti i curatore della pagina FB GOLFO ARANCI NASCOSTA Massimo Velati ha pubblicato questo post
Massimo Velati si trova qui: Faro della Vittoria. 10 marzo alle ore 23:59 · Trieste Faro Monumentale della “Vittoria” a Trieste. "Lanterna grande, recuperata dal dismesso faro di Tavolara in Sardegna (perchè sostituito dal faro permanente ad acetilene disciolto di Punta Timone), messa in perfetto ordine".
Elogiato per le sue ricerche di cui il post sopra e la citazione fra la sitografia del mio post è solo la punta dell'iceberg dedicate al faro di tavolara , ma non solo , anche da questo articolo della nuova sardegna del 13\3\2020
Su una pagina Facebook [ vedere sitografia in cima ] ricostruito il viaggio della luce dell’antico faro dell’isola portata nella città ridiventata italiana
L’avevano smontata, impacchettata e spedita lassù, seicento chilometri a nordest. La lanterna del faro che segnalava ai naviganti l’ingombrante presenza di Tavolara da quasi cento anni illumina e domina dall’alto il golfo e la città di Trieste. La curiosità era rimasta sepolta sotto il peso della storia. A rispolverarla è stato però un appassionato di storia locale. Massimo Velati, di Golfo Aranci, tra fotografie d’epoca e vecchie carte ingiallite ha infatti scoperto che il famoso faro della Vittoria di Trieste, un monumento nazionale che tra l’altro commemora i caduti della prima guerra mondiale, ha uno stretto legame con la Gallura e con l’isola di Tavolara in particolare. LA SCOPERTA. Massimo Velati, che su Facebook cura la pagina “Golfo Aranci nascosta”, appena ha un momento libero si mette sulle tracce di storie vecchie e dimenticate. Stavolta è venuto a sapere, dopo una lunga e appassionante ricerca, che la lanterna del faro della Vittoria è la stessa del vecchio faro di Tavolara, dismesso un secolo fa. «Mi chiedevo dove fosse finita – spiega –. Poi ho scoperto che si trova a Trieste, dove nel 1923 hanno iniziato a costruire il nuovo faro. Sicuramente è stata restaurata e modificata, ma i documenti parlano chiaro: è la lanterna di Tavolara». IL FARO DI TAVOLARA. La struttura è vecchia quasi quanto lo stato italiano. Il faro di primo ordine di Tavolara fu infatti costruito tra il 1864 e il 1866 e attivato nel 1868 nella zona più esterna dell’isola, poco lontano dal cosiddetto arco di Ulisse, nel punto più estremo del golfo di Olbia. La struttura, che si trova in cima a una imponente parete calcarea a strapiombo sul mare, è massiccia ed elegante allo stesso tempo. Un faro dall’architettura ottocentesca, con la facciata colorata da strisce gialle e rosse, rimasto poi attivo fino alla fine della prima guerra mondiale. Nel 1922 fu infatti inaugurato il nuovo faro di Punta Timone e la più anziana struttura venne mandata in pensione, resistendo comunque allo scorrere dei decenni. Oggi è ancora in piedi, ma è impossibile da visitare visto che si trova in zona militare. Solo pochi olbiesi hanno avuto il privilegio di metterci piede, come quelli che, in particolare negli anni Cinquanta, raggiungevano Tavolara in barca perché stanchi dei soliti tuffi nel mare davanti alla città. «Andavamo sull’arco di Ulisse, era imponente e meraviglioso. E salivamo anche sul castello, che in realtà era il vecchio faro» aveva raccontato qualche anno fa alla Nuova zia Anna “Boccia” Spano, la tabaccaia di piazza Regina Margherita. UN PEZZO A TRIESTE. Una volta dismesso il faro di Tavolara, la lanterna venne smontata e spedita in una Trieste appena diventata italiana. Per celebrare l’annessione e commemorare i caduti della grande guerra, lo Stato decise infatti di costruire un imponente faro di 68 metri di altezza e 8mila tonnellate di stazza. La lanterna non venne costruita dal nulla, ma fu utilizzata quella della vecchia struttura di Tavolara. Lo ha scoperto Massimo Velati tra le pagine de “L’Elettrotecnica”, il giornale dell’allora Associazione elettrotecnica italiana, dove si legge: «La lanterna grande è recuperata dal dismesso faro di Tavolara in Sardegna (perché sostituito dal faro permanente ad acetilene disciolto di Punta Timone), messa in perfetto ordine». Sulla lanterna venne poi innalzata la statua della Vittoria Alata, che da nord guarda tutto il mar Adriatico. Inaugurato nel 1927 alla presenza di re Vittorio Emanuele III, e progettato dall’architetto Arduino Berlam, il faro di Trieste è uno dei monumenti simbolo della città. Ancora oggi in funzione, viene aperto al pubblico durante alcuni periodi dell’anno per dare la possibilità a tutti di ammirare Trieste e il suo golfo da una posizione decisamente privilegiata.