Certe volte , a volte capita , che letteratura ( il racconto dell'amico scrittore \ giornalista Giampaolo Caassitta ) o l'arte : una foto i questa caso , di Silvia Tondini una compaesana su facebook la canzone CANTO DI NATALE - MODENA CITY RAMBLERS (MCR) messa a palla per contrastare la musica ( ? ) tecno proviente da locale affianco descrivano un Natale lontano da quello consumistico e sfavillante , sarà una coincidenza o una casualità che più elementi dicano la stessa cosa ?
Questa è’ la vigilia di Natale…… fila lunghissima per avere un pasto caldo alla Caritas …..tristezza infinita……impossibile non piangere
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Giampaolo Cassitta Nonna ha 75 anni e pochi sorrisi. Una pensione da 400 euro al mese che non regala troppe possibilità. A Natale, in quel turbinoso mondo di colori e lustrini, nonna deve riuscire a conciliare i soldi e le opportunità. Non è semplice. Lei ci ha provato, a dire il vero, ma non c’è riuscita. Come tanti. Sono rimaste fuori le caramelle. Da regalare ai nipotini.
Sono momenti difficili, tristi, sono il corollario della sua insussistenza: i soldi, quelli veri, non ci sono. I nipotini, invece, attendono. Così quella donna, con i suoi 400 euro al mese e un sorriso gonfio di mestizia ci pensa e ci ripensa. Riempie la sua borsa di dolcetti e decide di compiere, per la prima
volta, il furto più triste e più improbabile. Quel furto, il giorno prima di Natale, viene scoperto dai responsabili del supermercato.
Nonna non ha lacrime da dividere con nessuno. E neppure i soldi.
Quando arrivano, i carabinieri, si trovano davanti una signora con una dignità immensa e con troppa tristezza da regalare. Ed ecco che, come d’incanto, il Natale, quella patina di bellezza che avvolge per un attimo la vita di molti, decide di intervenire. I carabinieri ascoltano la nonna che candidamente afferma: “Non sono una ladra, volevo solo fare un regalo ai miei nipotini, ma ho finito i soldi”. Verificano che, effettivamente, l’anziana signora vive con una pensione di 400 euro, si guardano senza costruire parole e decidono di pagare il conto per la nonna e i suoi nipotini. Nessuna denuncia, nessun passaggio in Tribunale. Loro, i carabinieri, con 27 euro hanno pagato le caramelle e hanno regalato il sorriso alla nonna. E’ accaduto in provincia di Brescia. Questo per far comprendere che la morsa della povertà non attanaglia solo il Sud e per dimostrare che a volte, quando occorre, la giustizia sa regalare storie così belle da non sembrare vere
rivedendomi in una serata noiosa e fredda di quest'estate ormai prossima al finire , in dvd il film il vento fa il suo giroUn film di Giorgio Diritti 2005
mi ha riportato alla mente sia lo sfogo che riporto qui ( chi ha facebook clicchi qui per l'intera e interessante , 120 commenti , discussione ) per chi non avesse fb o non avesse me o il mio compagno di strada facebookiano e non solo lo scrittore e dirigente al Ministero della Giustizia Giampaolo Cassitta.
Sono sardo. Lo sono perché ci sono nato e perché i miei genitori e i miei nonni e bisnonni e trisavoli lo erano. Avevano calpestato prima di me questa terra.
La Sardegna è la mia terra. La sento intensamente mia, fiabescamente mia,terribilmente mia. Ho giocato negli stazzi galluresi fin da piccolo perché mia nonna ci abitava. Nella “cussogghja” di Austinacciu. Ho respirato quell’aria. La casa era costruita in maniera semplice: la camera centrale e due camere da letto. Lu “pinnenti” adiacente, lu forru per la cottura del pane e dei dolci e la “casedda” vicina all’abitazione principale; una sorta di cambusa dove era possibile trovare tutto. A quei tempi, nei primi anni settanta non c’era la corrente elettrica.
Giocavamo - io e mio fratello - in una campagna che era, per noi ragazzi di città, una distesa immensa di giallo, di cicale, di cani da caccia, di sapori irripetibili e mai più trovati.
Quelle estati hanno forgiato il mio amore per questa terra. Ho assaporato quei silenzi, quegli echi lontani, quel non poter uscire nel primo pomeriggio per colpa della “mamma di lu soli” quelle “parauli forti” ascoltate da mia nonna le notti prima di natale. Un mondo magico. Sardo. Forte. Mio.
Leggere oggi che signori del Qatar, con molti soldi, vogliono rivoluzionare gli stazzi e farne una sorta di “costa stazzialda” mi lascia senza parole. Ho ripercorso con gli occhi, con i pensieri, con i ricordi le mie vecchie passeggiate, il mio attendere li cuccioleddi di meli, il pane di tricu ruju, il mio correre negli orti per aiutare mio nonno ad “abbare”. Ho riascoltato le parole di mia nonna, che parlava solo in gallurese, ho ridipinto quelle lunghe estati e non riesco a comprendere il perché tutto debba diventare mercato, turismo, business, perché dobbiamo vendere la nostra terra allo straniero. Non lo so. Ma non mi sembra una gran bella cosa. Dovremmo forse cominciare a partire da questi piccoli concetti: dallo stazzo, dalle passeggiate quotidiane tra uno stazzo all’altro. E quando si arrivava si trovava sempre il padrone di casa che aspettava e toccava la mano. Lo faceva sempre. Anche se ci si incontrava tutti i giorni. Questo mi manca. Quel parlare di poche e bellissime cose, di un mondo lento. Dolcissimo e immensamente mio. Sono sardo. Lo sono perché ci sono nato, vissuto e respirato. Lo sono per amore. E lo sarò sempre. Ma non tutti i sardi sono sardi come il mio “essere sardo”. Di questo si dovrebbe parlare. Visto che dobbiamo votare, a breve, il nuovo consiglio regionale. Partire dagli stazzi, dai loro silenzi e dai loro caldi abbracci. Da qui dovremmo ripartire.
Giocavamo - io e mio fratello - in una campagna che era, per noi ragazzi di città, una distesa immensa di giallo, di cicale, di cani da caccia, di sapori irripetibili e mai più trovati.
Quelle estati hanno forgiato il mio amore per questa terra. Ho assaporato quei silenzi, quegli echi lontani, quel non poter uscire nel primo pomeriggio per colpa della “mamma di lu soli” quelle “parauli forti” ascoltate da mia nonna le notti prima di natale. Un mondo magico. Sardo. Forte. Mio.
Leggere oggi che signori del Qatar, con molti soldi, vogliono rivoluzionare gli stazzi e farne una sorta di “costa stazzialda” mi lascia senza parole. Ho ripercorso con gli occhi, con i pensieri, con i ricordi le mie vecchie passeggiate, il mio attendere li cuccioleddi di meli, il pane di tricu ruju, il mio correre negli orti per aiutare mio nonno ad “abbare”. Ho riascoltato le parole di mia nonna, che parlava solo in gallurese, ho ridipinto quelle lunghe estati e non riesco a comprendere il perché tutto debba diventare mercato, turismo, business, perché dobbiamo vendere la nostra terra allo straniero. Non lo so. Ma non mi sembra una gran bella cosa. Dovremmo forse cominciare a partire da questi piccoli concetti: dallo stazzo, dalle passeggiate quotidiane tra uno stazzo all’altro. E quando si arrivava si trovava sempre il padrone di casa che aspettava e toccava la mano. Lo faceva sempre. Anche se ci si incontrava tutti i giorni. Questo mi manca. Quel parlare di poche e bellissime cose, di un mondo lento. Dolcissimo e immensamente mio. Sono sardo. Lo sono perché ci sono nato, vissuto e respirato. Lo sono per amore. E lo sarò sempre. Ma non tutti i sardi sono sardi come il mio “essere sardo”. Di questo si dovrebbe parlare. Visto che dobbiamo votare, a breve, il nuovo consiglio regionale. Partire dagli stazzi, dai loro silenzi e dai loro caldi abbracci. Da qui dovremmo ripartire.
sia l'attualità di quanto scrissi tempo fa su queste pagine più precisamente qui
sia i ricordi di quando ero bambino ( prima della morte dei miei nonni materni e la successiva traformazione da campagna ad vivaio florovivaistico ) : l'allevamento di bestiame ( maiali e galline ) , l'orto e le api i loro prodotti , ed i loro riti \ feste ( uccisione e lavorazione dei maiali , vendemmia , conserve di pomodori , e degli altri prodotti dell'orto raccolta delle uova e del miele . Ma per chi ne volesse sapere di più oltre i link riportati sopra ecco la parte riguardante gli stazzi ed il modulo abitativo della Gallura , della mia tesi di laurea
(....)
L'altra
caratteristica della Gallura è quella del popolamento dell'interno e l'abbandono delle coste.
Infatti : « [...] Le condizioni storiche che causarono lo
spopolamento sono da ricercare nello stato di abbandono generale nel quale si
trovava tutta la Sardegna, dopo alcuni secoli di dominazione spagnola
[o anche prima secondo altri studi] a
questa si aggiungevano le frequenti incursioni saracene lungo le coste e si
capisce il motivo per cui nella Gallura marittima esisteva il solo villaggio di
Olbia. Gli altri erano raggruppati alle falde del Limbara (Aggius, Bortigiadas,
Tempio, Luras, Calangianus e Nuchis)».[1]
La colonizzazione delle zone
abbandonate fu la conseguenza di una notevole immigrazione dalla vicina
Corsica; in seguito ulteriormente rafforzata, nei primi anni del Settecento,
anche dal movimento della gente dell’interno, per lo più pastori, che dai
villaggi, nelle loro transumanze, si spingevano fino alle zone disabitate. Si
trattava in genere di migrazioni temporanee. Erano soliti abbandonare il
villaggio nel tardo autunno per poi rientrare al villaggio d’origine,
all’inizio dell’estate, quando era terminata l’annata agricola. Durante questo
periodo, all’inizio, soggiornavano in strutture di fortuna utilizzando come
abitazione qualche nuraghe o, più spesso le spelonche scavate nella roccia
dagli agenti atmosferici. In seguito furono costruiti i “cuponi”, capanne
circolari di pietre a secco con il tetto ricoperto di frascame, in pratica gli
antenati della casa dello stazzo.
La prima fase della colonizzazione,
caratterizzata dalla presenza di insediamenti temporanei presenta quindi in
prevalenza un’economia di tipo pastorale allo stato brado. In seguito con il
formarsi dei primi insediamenti fissi si intraprendono anche attività agricole
e di allevamento più intensivo Tale
insediamento rurale fu tipico del nord
Sardegna e della Corsica principalmente della Gallura.
IL termine "stazzo"(in gallurese lu
stazzu) deriva dal latino "statio", stazione, luogo di sosta Esso
Indica contemporaneamente l'azienda contadina e la costruzione in cui abita il
proprietario ed è costituito da un'abitazione di forma grossomodo rettangolare
costituita da blocchi di granito e all'interno suddivisa in massimo due
ambienti ,ma più spesso da un monolocale. All'esterno era spesso annesso il
forno (lu furru) ed un piccolo magazzino (lu pinnenti). Raramente un edificio
nato come stazzo si eleva oltre il piano terreno, ed in questo caso viene definito
palazzo (lu palazzu) ,. Si può quindi parlare organismi \ strutture a funzione complementare
agricola e pastorale, organizzati in modo da essere autosufficienti, disponendo
di coltivi, pascoli, seminativi, nonché di una o più dimore.
Un insieme di stazzi formavano la cussorgia (la cussogghja), un'entità geografica e
sociale unita da vincoli, particolari ed insoliti, di forti di amicizia e
collaborazione soprattutto di ordine prevalentemente morale, specie durante il ciclo agricolo o in occasioni
particolari come la trebbiatura, la vendemmia o la costruzione di un recinto,
tutti i vicini di un proprietario formano una squadra di lavoro che presta
gratuitamente la propria opera.
Un altro esempio di vincolo esistente tra i "cussoghjali"
è quello della punitura. Questa norma dicomportamento prevede che
chiunque abbia perduto il gregge, per sorte avversa o per furto o per
ritorsione, riceva in dono dai vicini un capo bovino o ovino.
Le case erano, prima
d'essere abbandonate o “modernizzate”, piccoli capolavori di quella che può
essere definita un'architettura molto semplice e spontanea. Difficilmente si
notano le poche che non hanno subito radicali trasformazioni, spesso pacchiane:
il loro impatto ambientale è pari a quello, di quelle poche che vengono curate,
dei muretti a secco, ulteriore e fondamentale elemento della geografia
gallurese, segni dell'uomo integrati nel tessuto agrario. Infatti essi hannorappresentato in Gallura il
fulcro della vita rurale di migliaia di pastori-agricoltori per centinaia di
anni cioè fino alla fine XIX e inizi del XX secolo, quando la sua
caratteristica viene messa discussione negli anni ‘50 con il
fenomeno di migrazione dalle campagne verso i nuovi centri abitati (il
cosiddetto boom economico e l’avvento del turismo) con l’affermarsi di nuovi
sistemi economici e nuovi
la nuova sardegna del 24\8\2013
modelli di vita, e poi dagli anni '60\80 quando si
sono diffusi i fenomeni dell'inurbamento delle coste e poi la
sub-urbanizzazione delle campagne portano in pratica alla fine della civiltà
dello stazzo. Ma ancora
persiste soprattutto nelle località marittime snaturato nella sua funzione
originaria dal fenomeno delle seconde e terze case e secondo alcuni dalla
trasformazione \ riadattamento in agriturismi e B;B dotati dei migliori
comfort , talvolta inutili e fuorvianti come la piscina
I motivi della scomparsa del
modo di vita, della civiltà dello stazzo, sono da ricondurre all'evoluzione del
sistema economico.
L'economia basata sull'autoconsumo,
sull'impiego intensivo della forza lavoro non può reggere di fronte alla
concorrenza delle grandi aziende basate su una spinta meccanizzazione, elevata
standardizzazione del prodotto. Il supermercato decreta la fine della
produzione artigianale,parcellizzata. La politica agraria e sociale della
regione sarda non ha saputo cogliere l'importanza dello Stazzo, insieme ad esso
sono scomparse, l'insediamento sparso, la cura del territorio e dell'ambiente
rurale, la civiltà ad esso legate, una parte
pezzo importante irriproducibile della nostra Isola.
[1]
P.SUELZU Lo stazzo Gallurese,in Atti
del Convegno. "Coment'era” ,Viddalba 9 giugno 2007.pp.69-76 ,Alghero 2008
stavo leggendo questa bellissimo intervento dell'amico compagnodistrada \ compagnodiviaggio e scrittore Giampaolo Cassitta
piccole cose
pubblicata da il giorno domenica 17 giugno 2012 alle ore 17.12
Partiamo dalle piccole cose. Quelle di tutti i giorni, quelle che non ci porteranno a navigare in un futuro illuminato e facile, ma che sicuramente riusciremo a riconoscere. Questa terra che è paesaggio, che è cultura millenaria, musica, rumori lontani. Questa terra che ha sofferto, che ha combattuto, che è stata colonizzata, sfruttata, usata e gettata, questa terra che ha sapori di corbezzolo e di miele, di mirto e di silenzio. Questa terra che ha prodotto minatori e poeti ed emigranti. Questa terra che ha pianto lacrime dure e che ha covato odio e incomprensione. Questa terra che ha generato sequestri e sequestratori, questa terra dura da lavorare. Questa terra che sa però riaprirsi e dialogare, mettersi in gioco, scommettere sulle piccole cose. Dico questo perché sento montare la panna della demagogia. E mi spavento. Mi spaventano i piccoli uomini dalle grandi promesse. Mi spaventano quando confondono la storia, quando usano un popolo senza amarne le risorse e i saperi. Senza ascoltare quel silenzio che abbiamo dentro. E che racconta piccole storie. Si parla di sviluppo sostenibile, coerente con le vocazioni del territorio, si parla di competitività, si parla di vantaggi economici del turismo che non è, beninteso costruire villaggi patinati per veline e calciatori che sorridono ai cognomi sardi che finiscono tutti con la “u”; un turismo che deve tener conto di tutto il territorio e che possa presentarsi a tutti in maniera accogliente, silenziosa, educata, in maniera etica. Un turismo che presenti la nostra terra in tutte le sue piccole meraviglie. Un turismo fatto di piccole cose. Non quindi solo manifestazioni mirabolanti e di grandi concerti rock, ma anche un condensato avvolgente di musiche striate e diffuse, che diano l’idea del nostro sentire. Perché dentro questa terra ci viviamo noi e solo noi possiamo mostrare l’anima più vera a chi la visita.
Piccole cose. Che sono la solidarietà. L’attenzione per gli altri. Che sono i nostri figli, ma non solo. Ci sono troppe file alla Caritas di troppe città. E troppi occhi che scodellano tristezza. C’è la fierezza di famiglie che non si presentano al cospetto delle mense cittadine, ma non hanno molto da osservare sul loro tavolo. Dobbiamo partire da queste piccole storie. Ascoltarle e non prestare semplice assistenza. Noi dobbiamo lavorare per creare piccole soluzioni che portino a risolvere il male quotidiano. Noi dobbiamo scommettere sul futuro di chi ha le ali spezzate, di chi vorrebbe continuare a sperare. Noi dobbiamo, attraverso progetti mirati, coinvolgere chi è in difficoltà, dobbiamo guardare a loro senza costruire egoismi o inventare paradisi che non esistono. Partiamo dunque dalle piccole cose. Dobbiamo continuare ad adottare interventi sulla famiglia, sul lavoro, dobbiamo saper costruire opportunità per tutti, dobbiamo riuscire ad essere credibili come politici e come cittadini.
Partiamo dalle piccole cose. Chi ama gli occhi di un bambino può raggiungere l’immensità. Le piccole cose a volte non si vedono, ma sono le più genuine. Come le nostre storie, le nostre pietre, i nostri nonni, gli emigranti, come le nostre miniere e il nostro sangue riversato. Come la nostra piccola e forte identità che ci accompagna e ci mantiene fieri di appartenere ad un popolo che ha dentro il sapore e l’odore di una terra antica, bellissima e dura. Di una terra fatta di piccole e intense storie e di grandi e immensi occhi. Che sanno scrutare.
ho pensato mi èritornata alla mente questa canzone della mia infanzia avevo 16 anni
non riesco a spiegarmi il perchè forse il mio carattere di cercare me stesso nel mondo e nelle arti contaminandomi e sincretizzandomi