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26.12.22

PICCOLA STORIA DI UN ALTRO NATALE - Giampaolo cassitta e di SIlvia Tondini

    Certe  volte ,    a  volte  capita      , che letteratura    (  il racconto  dell'amico  scrittore \  giornalista   Giampaolo Caassitta ) o  l'arte  :  una    foto  i questa  caso  ,   di Silvia  Tondini  una  compaesana  su facebook  la  canzone  CANTO DI NATALE - MODENA CITY RAMBLERS (MCR)  messa  a palla per   contrastare la   musica  ( ?  )   tecno  proviente da  locale affianco   descrivano  un Natale  lontano    da  quello     consumistico  e  sfavillante    , sarà una  coincidenza  o una casualità   che  più elementi    dicano  la  stessa  cosa    ?



Questa è’ la vigilia di Natale…… fila lunghissima per avere un pasto caldo alla Caritas …..tristezza infinita……😔😔😔impossibile non piangere

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Giampaolo Cassitta
Nonna ha 75 anni e pochi sorrisi. Una pensione da 400 euro al mese che non regala troppe possibilità. A Natale, in quel turbinoso mondo di colori e lustrini, nonna deve riuscire a conciliare i soldi e le opportunità. Non è semplice. Lei ci ha provato, a dire il vero, ma non c’è riuscita. Come tanti. Sono rimaste fuori le caramelle. Da regalare ai nipotini.

Sono momenti difficili, tristi, sono il corollario della sua insussistenza: i soldi, quelli veri, non ci sono. I nipotini, invece, attendono. Così quella donna, con i suoi 400 euro al mese e un sorriso gonfio di mestizia ci pensa e ci ripensa. Riempie la sua borsa di dolcetti e decide di compiere, per la prima
volta, il furto più triste e più improbabile. Quel furto, il giorno prima di Natale, viene scoperto dai responsabili del supermercato.
Nonna non ha lacrime da dividere con nessuno. E neppure i soldi.
Quando arrivano, i carabinieri, si trovano davanti una signora con una dignità immensa e con troppa tristezza da regalare. Ed ecco che, come d’incanto, il Natale, quella patina di bellezza che avvolge per un attimo la vita di molti, decide di intervenire. I carabinieri ascoltano la nonna che candidamente afferma: “Non sono una ladra, volevo solo fare un regalo ai miei nipotini, ma ho finito i soldi”. Verificano che, effettivamente, l’anziana signora vive con una pensione di 400 euro, si guardano senza costruire parole e decidono di pagare il conto per la nonna e i suoi nipotini. Nessuna denuncia, nessun passaggio in Tribunale. Loro, i carabinieri, con 27 euro hanno pagato le caramelle e hanno regalato il sorriso alla nonna. E’ accaduto in provincia di Brescia. Questo per far comprendere che la morsa della povertà non attanaglia solo il Sud e per dimostrare che a volte, quando occorre, la giustizia sa regalare storie così belle da non sembrare vere

25.8.13

perchè mi sento prima sardo che italiano

 rivedendomi in una serata  noiosa   e fredda  di quest'estate  ormai prossima al finire , in dvd il film     il vento fa il suo giro  Un film di Giorgio Diritti  2005



mi  ha  riportato alla mente   sia   lo sfogo che    riporto   qui   ( chi    ha  facebook clicchi  qui  per  l'intera e  interessante ,  120 commenti  ,  discussione  )   per  chi  non avesse  fb  o  non avesse me o il mio  compagno  di strada facebookiano e  non solo     lo scrittore e  dirigente al   Ministero della Giustizia Giampaolo Cassitta.

Sono sardo. 
Lo sono perché ci sono nato e perché i miei genitori e i miei nonni e bisnonni e trisavoli lo erano. Avevano calpestato prima di me questa terra. 

La Sardegna è la mia terra.     La sento intensamente mia, fiabescamente mia,terribilmente mia. Ho giocato negli stazzi galluresi fin da piccolo perché mia nonna ci abitava. Nella “cussogghja” di Austinacciu. Ho respirato quell’aria. La casa era costruita in maniera semplice: la camera centrale e due camere da letto. Lu “pinnenti” adiacente, lu forru per la cottura del pane e dei dolci e la “casedda” vicina all’abitazione principale; una sorta di cambusa dove era possibile trovare tutto. A quei tempi, nei primi anni settanta non c’era la corrente elettrica. 

Giocavamo - io e mio fratello - in una campagna che era, per noi ragazzi di città, una distesa immensa di giallo, di cicale, di cani da caccia, di sapori irripetibili e mai più trovati. 

Quelle estati hanno forgiato il mio amore per questa terra. Ho assaporato quei silenzi, quegli echi lontani, quel non poter uscire nel primo pomeriggio per colpa della “mamma di lu soli” quelle “parauli forti” ascoltate da mia nonna le notti prima di natale. Un mondo magico. Sardo. Forte. Mio. 
Leggere oggi che signori del Qatar, con molti soldi, vogliono rivoluzionare gli stazzi e farne una sorta di “costa stazzialda” mi lascia senza parole. Ho ripercorso con gli occhi, con i pensieri, con i ricordi le mie vecchie passeggiate, il mio attendere li cuccioleddi di meli, il pane di tricu ruju, il mio correre negli orti per aiutare mio nonno ad “abbare”. Ho riascoltato le parole di mia nonna, che parlava solo in gallurese, ho ridipinto quelle lunghe estati e non riesco a comprendere il perché tutto debba diventare mercato, turismo, business, perché dobbiamo vendere la nostra terra allo straniero. Non lo so. Ma non mi sembra una gran bella cosa. Dovremmo forse cominciare a partire da questi piccoli concetti: dallo stazzo, dalle passeggiate quotidiane tra uno stazzo all’altro. E quando si arrivava si trovava sempre il padrone di casa che aspettava e toccava la mano. Lo faceva sempre. Anche se ci si incontrava tutti i giorni. Questo mi manca. Quel parlare di poche e bellissime cose, di un mondo lento. Dolcissimo e immensamente mio. Sono sardo. Lo sono perché ci sono nato, vissuto e respirato. Lo sono per amore. E lo sarò sempre. Ma non tutti i sardi sono sardi come il mio “essere sardo”. Di questo si dovrebbe parlare. Visto che dobbiamo votare, a breve, il nuovo consiglio regionale. Partire dagli stazzi, dai loro silenzi e dai loro caldi abbracci. Da qui dovremmo ripartire.
Giocavamo - io e mio fratello - in una campagna che era, per noi ragazzi di città, una distesa immensa di giallo, di cicale, di cani da caccia, di sapori irripetibili e mai più trovati. 
Quelle estati hanno forgiato il mio amore per questa terra. Ho assaporato quei silenzi, quegli echi lontani, quel non poter uscire nel primo pomeriggio per colpa della “mamma di lu soli” quelle “parauli forti” ascoltate da mia nonna le notti prima di natale. Un mondo magico. Sardo. Forte. Mio. 
Leggere oggi che signori del Qatar, con molti soldi, vogliono rivoluzionare gli stazzi e farne una sorta di “costa stazzialda” mi lascia senza parole. Ho ripercorso con gli occhi, con i pensieri, con i ricordi le mie vecchie passeggiate, il mio attendere li cuccioleddi di meli, il pane di tricu ruju, il mio correre negli orti per aiutare mio nonno ad “abbare”. Ho riascoltato le parole di mia nonna, che parlava solo in gallurese, ho ridipinto quelle lunghe estati e non riesco a comprendere il perché tutto debba diventare mercato, turismo, business, perché dobbiamo vendere la nostra terra allo straniero. Non lo so. Ma non mi sembra una gran bella cosa. Dovremmo forse cominciare a partire da questi piccoli concetti: dallo stazzo, dalle passeggiate quotidiane tra uno stazzo all’altro. E quando si arrivava si trovava sempre il padrone di casa che aspettava e toccava la mano. Lo faceva sempre. Anche se ci si incontrava tutti i giorni. Questo mi manca. Quel parlare di poche e bellissime cose, di un mondo lento. Dolcissimo e immensamente mio. Sono sardo. Lo sono perché ci sono nato, vissuto e respirato. Lo sono per amore. E lo sarò sempre. Ma non tutti i sardi sono sardi come il mio “essere sardo”. Di questo si dovrebbe parlare. Visto che dobbiamo votare, a breve, il nuovo consiglio regionale. Partire dagli stazzi, dai loro silenzi e dai loro caldi abbracci. Da qui dovremmo ripartire.

sia   l'attualità di quanto scrissi tempo fa su queste pagine più precisamente qui

 sia  i ricordi  di quando  ero bambino (  prima   della  morte  dei miei nonni materni e  la  successiva  traformazione  da campagna ad  vivaio  florovivaistico )     : l'allevamento  di bestiame  ( maiali e  galline ) ,  l'orto    e le  api   i loro prodotti , ed  i  loro riti  \  feste  ( uccisione  e lavorazione dei maiali ,  vendemmia  ,  conserve  di pomodori , e degli altri prodotti dell'orto   raccolta  delle uova  e  del miele  .   Ma    per  chi ne  volesse  sapere  di più  oltre  i link   riportati sopra  ecco  la parte  riguardante  gli stazzi  ed   il modulo abitativo   della  Gallura  ,  della mia tesi di laurea

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 L'altra caratteristica  della  Gallura  è quella del popolamento dell'interno e l'abbandono delle coste. Infatti : « [...] Le condizioni storiche che causarono lo spopolamento sono da ricercare nello stato di abbandono generale nel quale si trovava tutta la Sardegna, dopo alcuni secoli di dominazione spagnola [o anche prima secondo altri studi] a questa si aggiungevano le frequenti incursioni saracene lungo le coste e si capisce il motivo per cui nella Gallura marittima esisteva il solo villaggio di Olbia. Gli altri erano raggruppati alle falde del Limbara (Aggius, Bortigiadas, Tempio, Luras, Calangianus e Nuchis)».[1]
La colonizzazione delle zone abbandonate fu la conseguenza di una notevole immigrazione dalla vicina Corsica; in seguito ulteriormente rafforzata, nei primi anni del Settecento, anche dal movimento della gente dell’interno, per lo più pastori, che dai villaggi, nelle loro transumanze, si spingevano fino alle zone disabitate. Si trattava in genere di migrazioni temporanee. Erano soliti abbandonare il villaggio nel tardo autunno per poi rientrare al villaggio d’origine, all’inizio dell’estate, quando era terminata l’annata agricola. Durante questo periodo, all’inizio, soggiornavano in strutture di fortuna utilizzando come abitazione qualche nuraghe o, più spesso le spelonche scavate nella roccia dagli agenti atmosferici. In seguito furono costruiti i “cuponi”, capanne circolari di pietre a secco con il tetto ricoperto di frascame, in pratica gli antenati della casa dello stazzo.
La prima fase della colonizzazione, caratterizzata dalla presenza di insediamenti temporanei presenta quindi in prevalenza un’economia di tipo pastorale allo stato brado. In seguito con il formarsi dei primi insediamenti fissi si intraprendono anche attività agricole e di allevamento più intensivo Tale insediamento rurale fu tipico  del nord Sardegna e della Corsica principalmente della Gallura.
IL  termine "stazzo"(in gallurese lu stazzu) deriva dal latino "statio", stazione, luogo di sosta Esso Indica contemporaneamente l'azienda contadina e la costruzione in cui abita il proprietario ed è costituito da un'abitazione di forma grossomodo rettangolare costituita da blocchi di granito e all'interno suddivisa in massimo due ambienti ,ma più spesso da un monolocale. All'esterno era spesso annesso il forno (lu furru) ed un piccolo magazzino (lu pinnenti). Raramente un edificio nato come stazzo si eleva oltre il piano terreno, ed in questo caso viene definito palazzo (lu palazzu) ,. Si può quindi parlare organismi \ strutture a funzione complementare agricola e pastorale, organizzati in modo da essere autosufficienti, disponendo di coltivi, pascoli, seminativi, nonché di una o più dimore.
Un insieme di stazzi formavano la cussorgia (la cussogghja), un'entità geografica e sociale unita da vincoli, particolari ed insoliti, di forti di amicizia e collaborazione soprattutto di ordine prevalentemente morale, specie durante il ciclo agricolo o in occasioni particolari come la trebbiatura, la vendemmia o la costruzione di un recinto, tutti i vicini di un proprietario formano una squadra di lavoro che presta gratuitamente la propria opera.
Un altro esempio di vincolo esistente tra i "cussoghjali" è quello della punitura. Questa norma di comportamento prevede che chiunque abbia perduto il gregge, per sorte avversa o per furto o per ritorsione, riceva in dono dai vicini un capo bovino o ovino.
Le case erano, prima d'essere abbandonate o “modernizzate”, piccoli capolavori di quella che può essere definita un'architettura molto semplice e spontanea. Difficilmente si notano le poche che non hanno subito radicali trasformazioni, spesso pacchiane: il loro impatto ambientale è pari a quello, di quelle poche che vengono curate, dei muretti a secco, ulteriore e fondamentale elemento della geografia gallurese, segni dell'uomo integrati nel tessuto agrario. Infatti essi hanno rappresentato in Gallura il fulcro della vita rurale di migliaia di pastori-agricoltori per centinaia di anni cioè fino alla fine XIX e inizi del XX secolo, quando la sua caratteristica viene messa discussione negli anni ‘50 con il fenomeno di migrazione dalle campagne verso i nuovi centri abitati (il cosiddetto boom economico e l’avvento del turismo) con l’affermarsi di nuovi sistemi economici e nuovi
la  nuova sardegna del  24\8\2013
modelli di vita, e poi dagli anni '60\80 quando si sono diffusi i fenomeni dell'inurbamento delle coste e poi la sub-urbanizzazione delle campagne portano in pratica alla fine della civiltà dello stazzo. Ma ancora persiste soprattutto nelle località marittime snaturato nella sua funzione originaria dal fenomeno delle seconde e terze case e secondo alcuni dalla trasformazione \ riadattamento in agriturismi e B;B dotati dei migliori comfort , talvolta inutili e  fuorvianti   come la piscina  
I motivi della scomparsa del modo di vita, della civiltà dello stazzo, sono da ricondurre all'evoluzione del sistema economico.
 L'economia basata sull'autoconsumo, sull'impiego intensivo della forza lavoro non può reggere di fronte alla concorrenza delle grandi aziende basate su una spinta meccanizzazione, elevata standardizzazione del prodotto. Il supermercato decreta la fine della produzione artigianale,parcellizzata. La politica agraria e sociale della regione sarda non ha saputo cogliere l'importanza dello Stazzo, insieme ad esso sono scomparse, l'insediamento sparso, la cura del territorio e dell'ambiente rurale, la civiltà ad esso legate, una parte  pezzo importante irriproducibile della nostra Isola.



[1] P.SUELZU Lo stazzo Gallurese,in  Atti del Convegno. "Coment'era” ,Viddalba 9 giugno 2007.pp.69-76 ,Alghero 2008 

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17.6.12

coincidenze culturali e fra le arti ( musica e letteratura )

stavo leggendo  questa bellissimo intervento dell'amico   compagnodistrada    \  compagnodiviaggio e  scrittore  Giampaolo Cassitta 








                                                        piccole cose

pubblicata da il giorno domenica 17 giugno 2012 alle ore 17.12




Partiamo dalle piccole cose. Quelle   di tutti i giorni, quelle che non ci porteranno a navigare in un futuro illuminato e facile, ma che sicuramente riusciremo a riconoscere. Questa terra che è paesaggio, che è cultura millenaria, musica, rumori lontani. Questa terra che ha sofferto, che ha combattuto, che è stata colonizzata, sfruttata, usata e gettata, questa terra che ha sapori di corbezzolo e di miele, di mirto e di silenzio. Questa terra che ha prodotto minatori e poeti ed emigranti. Questa terra che ha pianto lacrime dure e che ha covato odio e incomprensione. Questa terra che ha generato sequestri e sequestratori, questa terra dura da lavorare. Questa terra che sa però riaprirsi e dialogare, mettersi in gioco, scommettere sulle piccole cose. Dico questo perché sento montare la panna della demagogia. E mi spavento. Mi spaventano i piccoli uomini dalle grandi promesse. Mi spaventano quando confondono la storia, quando usano un popolo senza amarne le risorse e i saperi. Senza ascoltare quel silenzio che abbiamo dentro. E che racconta piccole storie. Si parla di sviluppo sostenibile, coerente con le vocazioni del territorio, si parla di competitività,  si parla di vantaggi economici del turismo che non è, beninteso costruire villaggi patinati per veline e calciatori che sorridono ai cognomi sardi che finiscono tutti con la “u”; un turismo che deve tener conto di tutto il territorio e che possa presentarsi a tutti in maniera accogliente, silenziosa, educata,  in maniera etica. Un turismo che presenti la nostra terra in tutte le sue piccole meraviglie. Un turismo fatto di piccole cose. Non quindi solo  manifestazioni mirabolanti e di grandi concerti rock, ma anche  un condensato avvolgente di musiche striate e diffuse, che diano l’idea del nostro sentire. Perché dentro questa terra ci viviamo noi e solo  noi possiamo mostrare l’anima più vera a chi la visita.


Piccole cose. Che sono la solidarietà. L’attenzione per gli altri. Che sono i nostri figli, ma non solo. Ci sono troppe file alla Caritas di  troppe città. E troppi occhi che scodellano tristezza. C’è la fierezza di famiglie che non si presentano al cospetto delle mense cittadine, ma non hanno molto da osservare  sul loro tavolo. Dobbiamo partire da queste piccole storie. Ascoltarle e non prestare semplice assistenza. Noi dobbiamo lavorare per creare piccole soluzioni che portino a risolvere il male quotidiano. Noi dobbiamo scommettere sul futuro di chi ha le ali spezzate, di chi vorrebbe continuare a sperare. Noi dobbiamo, attraverso progetti mirati, coinvolgere chi è in difficoltà, dobbiamo guardare a loro senza costruire egoismi o inventare paradisi che non esistono. Partiamo dunque dalle piccole cose. Dobbiamo continuare ad adottare interventi sulla famiglia, sul lavoro,  dobbiamo saper costruire opportunità per tutti, dobbiamo riuscire ad essere credibili come politici e come cittadini.
Partiamo dalle piccole cose. Chi ama gli occhi di un bambino può raggiungere l’immensità. Le piccole cose a volte non si vedono, ma sono le più genuine. Come le nostre storie, le nostre pietre, i nostri nonni, gli emigranti, come le nostre miniere e il nostro sangue riversato. Come la nostra piccola e forte identità  che ci accompagna e ci mantiene fieri di appartenere ad un popolo che ha dentro il sapore e l’odore di una terra antica, bellissima e dura. Di una terra fatta di piccole e intense storie  e di grandi e immensi occhi. Che sanno scrutare.


ho  pensato  mi  èritornata  alla  mente  questa  canzone della mia infanzia  avevo  16 anni  



non riesco a  spiegarmi  il perchè  forse il mio  carattere  di cercare me stesso  nel mondo  e  nelle  arti  contaminandomi e    sincretizzandomi  


emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...