Paola
Cacciapaglia, 47 anni, di Jesolo. Pianista, clavicembalista e bassista. Il
Covid l’ha colpita a gennaio e, da oltre due mesi, sta affrontando una
perigliosa convalescenza. Ci siamo incontrate virtualmente su un social network e abbiamo scambiato
quattro chiacchiere sul dramma che l’ha coinvolta, le sue passioni e il futuro
d’un paese martoriato.
- Come pensi d’aver
contratto il virus? Sei riuscita a ottenere informazioni precise a riguardo?
- Francamente no. Tutto è
cominciato con una semplice bronchite, aggravatasi col passare dei giorni.
Poiché ne soffro cronicamente, all’'inizio non me ne ero preoccupata. In
seguito, la situazione è andata peggiorando e il mio medico è venuto a
visitarmi a casa, munito di tutti i DPI [dispositivi
di protezione individuale, n.d.A.] previsti nei primissimi giorni dell’epidemia.
Ha poi chiamato personalmente il 118. I risultati delle analisi si sono
rivelati negativi; tuttavia, poiché il cortisone che assumo da tempo mi aveva
procurato una leggera immunodepressione, sono stata rimandata a casa, luogo per
me più sicuro. È probabile che il contagio sia avvenuto durante quel ricovero,
o in occasione d’un consulto pneumologico la settimana successiva, sempre in
ospedale.
- Tu però eserciti una professione, quella dell’insegnante, considerata
“a rischio”. Frequentare l’ambiente scolastico può averti esposta all’infezione,
o no?
- Lo escludo. Io lavoro in scuole
di musica, ma le mie lezioni si svolgono perlopiù individualmente, non in
classe. Inoltre, quando è iniziata la bronchite, mi trovavo già a casa in
malattia. Ripeto, ero indebolita da patologie e ricoveri precedenti e
necessitavo di assoluto riposo. Poi la situazione è precipitata, ne è seguito un
nuovo ricovero e, probabilmente, il contagio.
- Il Veneto, assieme al Piemonte e alla colpitissima Lombardia, è stata
una delle regioni più flagellate.
- È vero, qui si sono verificati
molti casi, con focolai piuttosto estesi. Non nella zona dove risiedo e lavoro,
comunque. Purtroppo, io appartengo alla minoranza che ne è rimasta
interessata...
- Riesci a raccontare quei momenti? Come si comporta, realmente, questo
virus?
- Per me è stata una malattia
molto debilitante. Già ero indebolita a causa del cortisone (che tuttavia mi ha
forse salvato la vita, stando alle ultime informazioni provenienti dal mondo
scientifico). La mia salute ha subìto un peggioramento progressivo per un mese
e mezzo; poi, all’improvviso, un primo, breve arresto respiratorio mentre mi
trovavo a casa, in solitudine, dal quale mi sono miracolosamente ripresa.
Quindi, nuovo ricovero in un ospedale Covid per ossigenoterapia. Le cure,
durate quasi due mesi, sono state severe, a base di corticosteroidi ad alte
dosi, antibiotici, antistaminici, broncodilatatori e tutto ciò che poteva
essere utile in un momento in cui questo morbo appariva ancor più misterioso di
quanto lo sia adesso. Al termine ho avvertito i primi miglioramenti. Adesso sto
cercando di riprendermi a casa tramite la riabilitazione polmonare (perché sì,
ci si disabitua pure a respirare), motoria e cardiovascolare, seguita sempre
dal dottore.
- Un grazie grosso al personale sanitario?
- Assolutamente sì. Il mio medico
di base mi ha curata benissimo, in lui ripongo assoluta fiducia. Ha attuato
tutti i protocolli previsti per proteggere me e lui, venendo da me solo in
possesso di tutti i DPI, limitandosi al tempo necessario alla visita, e
parlandomi successivamente al telefono. È stato lui a mandarmi in ospedale
quando serviva, lui ha somministrato farmaci e dosaggi secondo le necessità, sempre
aggiornandomi telefonicamente. Ha organizzato anche i consulti specialistici.
Sono stata assistita pure dalla psichiatra, perché io, malata e isolata, avevo
bisogno di sostegno psicologico. Anche l’esperienza nell’ospedale Covid è stata
rassicurante: era tutto preciso, ben organizzato, e mi ha colpito la gentilezza
di tutti, dai medici agli infermieri, a tutto il personale.
L’unica pecca è che il tampone, malgrado
le pressanti richieste del mio medico, è giunto molto tardi, quando la carica
virale non era più rilevabile.
- Hai affidato al web il decorso della tua malattia, tenendo una sorta
di diario giornaliero in cui comunicavi con i tuoi amici, virtuali e no...
- Sì, i social network mi hanno aiutata tanto. Ho deciso di superare l’orgoglio
e ho raccontato pubblicamente su Facebook i fatti miei. Sono rientrata così in
contatto con amici lontani, che mi hanno incoraggiata e alleviato il peso della
solitudine. Grazie a un appello su fb sono riuscita a ottenere le mascherine in
un momento in cui reperirle era un vero problema. E, tramite gli annunci, ho
trovato aziende che praticavano consegna a domicilio e altre iniziative per le
persone in difficoltà. Questo mi ha liberata dal peso dell’isolamento, mi sono
sentita amata e rassicurata.
- A parte il dolore, cosa conserverai di quest’esperienza?
- Affrontare tutte queste sofferenze mi è servito per cambiare
rotta, per vedere la vita in maniera diversa, per rinascere, come l’araba fenice. E nonostante da gennaio ad
oggi non abbia ancora avuto tregua, guardo al futuro con fiducia. Nulla accade
per caso, ogni cosa ha il suo lato positivo. La vita è essere sempre sul bordo
di un precipizio, in una vallata montana, da cui si può apprezzare una eco
fantastica: il segnale che inviamo è quello che ci torna indietro. E sta a noi
mantenere l'equilibrio o scivolare.
- Ci troviamo in piena fase 2, anzi ormai si può dire cominci la terza,
con la riapertura delle regioni. Come giudichi i comportamenti di certuni, che
gridano a ipotetici complotti, e addirittura manifestano in piazza senza
mascherine? O di altri che, pur senza tutto questo chiasso, esprimono
insofferenza per prescrizioni ritenute ormai non più necessarie?
- La gente ha fretta di uscire,
molti non vogliono più sentirsi isolati, dimostrandosi quindi incapaci d’apprezzare
le piccole cose che può offrire giornalmente la vita; altri, invece, vedono la
fine della quarantena come una benedizione. Penso alle donne costrette a vivere
con il proprio aguzzino, o ai bimbi abusati.
È vero che bisogna lavorare, altrimenti
rischiamo il tracollo. Ma io credo si debbano limitare ancora per un po’ le
uscite non necessarie. Temo gli irresponsabili, come hai rilevato tu: anche
dalle mie parti, tanti circolano senza mascherina, costringendo fra l’altro
quelli come me a un surplus di
prudenza. Anche riaprire le chiese prima del tempo non mi è parsa una splendida
idea: far rispettare le distanze di sicurezza è davvero difficile, non
sorprende siano ancora poco frequentate. È lo stesso motivo per cui non è
ancora opportuno riprendere concerti o altri eventi pubblici. Le manifestazioni
del 2 giugno si sono svolte senza spettatori.
- Come tanti docenti, hai attuato la didattica online. Quali le tue impressioni?
- Adattarmi al nuovo contesto per
me è stato più semplice rispetto ad altri insegnanti perché, come ho detto, le
lezioni sono individuali. Mi metto in comunicazione con gli allievi tramite whatsapp e, davanti al mio pianoforte,
riesco a leggere i loro spartiti, così posso correggerli e illustrar loro il
modo corretto di eseguire i brani. E poi la musica, si sa, arriva ovunque...
- ...e sicuramente ti ha infuso coraggio nel difficile momento che hai
dovuto affrontare.
- Senza musica avrei perso
qualsiasi motivazione alla vita, non ne avrei assaporata la vera linfa. La amo
in tutte le forme: ascoltarla, suonarla, insegnarla...
- Hai un’impostazione classica. Chi sono i tuoi autori preferiti?
- Sicuramente Bach: ha il potere
di rimettere in ordine la mia mente e le mie emozioni, come un programma di
deframmentazione di un PC. Al secondo posto, sul podio, porrei Shostakovich,
per la dirompente carica emotiva. Poi Gershwin, il rapimento e l’estasi: un ponte
fra musica classica e jazz, swing e blues. Ciò che manca ai musicisti attuali è
il carisma, elemento per me fondamentale. Ci sono tanti buoni esecutori e pochi
artisti. E chi non mi coinvolge, chi non suscita in me quel sussulto inatteso,
non desta nemmeno il mio interesse.