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7.8.21

storie olimpiche parte 7 La classe operaia va alle Olimpiadi, L'arbitra italiana della lotta che gli iraniani non volevano: "Mi dicevano: sei una donna" , e altre storie





Favola Yassine, il metalmeccanico cerca gloria nella maratonadal nostro inviato Ettore Livini


Originario del Marocco, 39 anni, lavora ancora in fabbrica - la Fornovo Gas di Traversetolo - e a forza di allenamenti in pausa pranzo "in tuta da lavoro perché i miei colleghi non se ne accorgessero" è arrivato di corsa in Giappone
              
                     06 AGOSTO 2021 



La classe operaia va alle Olimpiadi. E cala il jolly del maratoneta per caso - il metalmeccanico (in aspettativa) Yassine el Fathaoui - per lanciare la sfida a Eliud Kipchoge & C. sui 42 chilometri della gara simbolo dei Giochi. Il 39enne originario del Marocco diventato italiano nel 2013 ("dopo 15 anni di contributi versati e dieci di residenza", ripete sempre orgoglioso lui) è il marziano - e la variabile impazzita - della spedizione azzurra a Sapporo. A 24 anni lavorava in una fabbrica di macchine per imbottigliamento, giochicchiava a calcio nella squadra del paese e non aveva mai corso nemmeno una non-competitiva di quartiere. Oggi lavora ancora in fabbrica - la Fornovo Gas di Traversetolo - e a forza di allenamenti in pausa pranzo "in tuta da lavoro perché i miei colleghi non se ne accorgessero" è arrivato di corsa in Giappone. Con un primato personale - 2h10'10 a Siviglia nel 2020 - che per il suo allenatore Giorgio Reggiani "è il vero record mondiale di maratona" e con intenzioni tutt'altro che decoubertiniane: "Arrivare nei primi dieci ed essere il primo degli italiani", predica da mesi con forte accento di Parma.
Il sogno olimpico di el Fathaoui inizia da zero nel 2006: "Eravamo colleghi - racconta Luca Bragazzi, corridore amatoriale del Traversetolo running club e suo "scopritore" - . Lui giocava a calcio a Bazzano. Non un granché con i piedi, mi raccontava il suo allenatore, ma un fiato pazzesco". El Fathaoui aveva 24 anni. Troppo vecchio - dicono i manuali - per sfondare nel pallone e in qualsiasi sport. "Una domenica però - racconta Bragazzi - a furia di insistere sono riuscito a convincerlo a fare con me e mia moglie il "giro della chiesa"". Dieci chilometri, un classico dei podisti da week-end della zona. Risultato: "Alla fine noi eravamo morti e lui giocava con i sassi senza un filo di fiatone".
Sapporo e i Giochi sono ancora lontani. Yassine si fa convincere da Luca a partecipare a qualche campestre "attirato più che altro dalle forme di parmigiano che davano come premio", ride Bragazzi. L'esordio alla prima non-competitiva non è un granché, - "sono arrivato nei primi cento", è il ricordo di Yassine - ma una gara alla volta la passione per la corsa gli entra nel sangue. Nel 2011, convinto dai suoi compagni di allenamento del Cus Parma, si iscrive alla Collermar-athon di Fano, 42 chilometri di saliscendi dai colli al mare. Per lui è divertimento puro Si accoda in partenza al gruppetto di Giorgio Calacaterra, il re delle ultramaratone italiane, tanto per vedere che effetto che fa. A sorpresa tiene il ritmo. Anzi, al trentesimo km. scatta, saluta la compagnia e va a chiudere a 2h29'.
El Fathaoui ha 29 anni. Troppi, dicono tutte le persone di buon senso, per pensare a un futuro nella maratona. Nel caso ci fossero dei dubbi, due infortuni lo inchiodano ai box per due anni. "Ma io sono un metalmeccanico che si impegna e dà credito alle sue possibilità" è il suo mantra. Si cura, si allena con la solita routine: otto ore in fabbrica alla Fornovo gas - "dove è uno dei migliori operai che abbiamo", come ha riconosciuto Ferdinando Bauzone, titolare dell'impresa - qualche allenamento in pausa pranzo ("una volta con gli scarponi da lavoro perché mi ero dimenticato le scarpette da corsa!") e altre due ore di pratica la sera dopo aver timbrato il cartellino.
Gli anni avanzano ma i tempi continuano a migliorare. Fino alla svolta, il 21 settembre 2019, alla Maratona di Berlino. "Mi sono iscritto perché ci andavano i miei amici", minimizza lui, reduce da due settimane di ferie rubate alla famiglia (moglie e figlia) per un ritiro in altura a Predazzo. Sarà. Parte, si sente bene. A un certo punto guarda il cronometro della macchina apripista che mostra la proiezione del tempi finale: 2 ore e 9 minuti. "Un po' mi vergognavo di stare lì", ha raccontato. Ma c'è. Tempo finale 2.11'08. Minimo olimpico.
Che fare? L'operaio El Fathaoui è preoccupato. I Giochi sono un sogno. Ma per Tokyo bisogna allenarsi. "Lui è un gran faticatore e non si tira mai indietro", dice Bragazzi. Ma per allenarsi serve tempo. E lui non può permettersi di perdere lo stipendio. Per fortuna la Fornovo gas è una famiglia: "L'ho visto allenarsi in ogni stagione e con qualsiasi tempo e non ha mai lasciato niente indietro sul lavoro", dice Bauzone. Detto, fatto. Arriva l'aspettativa. Sei mesi che ormai, complici pandemia e rinvio delle Olimpiadi, sono diventati due anni. "Ma non c'è problema. Quando avrà finito tornerà a lavorare - gli ha garantito Bauzone -. E' un onore aiutarlo. Lui rappresenta i nostri sogni che si realizzano". E' vero. E dopodomani, comunque vada El Fathaoui a Sapporo, sarà un successo. Poi il maratoneta per caso tornerà a lavorare in fabbrica.

Olimpiadi, pentathlon femminile, l’allenatrice tedesca picchia il cavallo che non salta: espulsa dai Giochi

di Flavio Vanetti

Anche in Germania, dove è molto alta la sensibilità nei confronti degli animali, è scoppiato un pandemonio

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Tu non salti? E io ti picchio. E’ scoppiato un caso nel pentathlon moderno e a farci le spese è stata l’allenatrice tedesca Kim Raisner, ex campionessa del mondo e d’Europa: ha percosso un cavallo, nella prova olimpica del 6 agosto, e ha invitato la sua cavallerizza impegnata in gara a fare altrettanto. Così è stata espulsa con effetto immediato dai Giochi e non ha potuto svolgere le sue funzioni nella competizione maschile: appena arrivata al Tokyo Olympics, lo stadio olimpico di Komazawa che fu il fulcro dei Giochi del 1964, alla Raisner è stato notificato che «era fuori», come avrebbe detto Donald Trump nel reality show «The Apprentice».
La fregatura della 48enne ex campionessa è stata anche che, in uno stadio senza spettatori, si sente tutto: quindi le sue urla e i suoi isterici incitamenti sono stati ben uditi in Tv; e in Germania, dove è molto alta la sensibilità nei confronti degli animali, è scoppiato un pandemonio. Sono fioccate le telefonate di protesta e l’’Uipm, la federazione internazionale di questa disciplina, ha dovuto prendere provvedimenti. La vicenda si lega anche al regolamento olimpico del pentathlon moderno: i concorrenti nella fase di salto non usano il proprio cavallo, quello con cui si allenano, ma ne devono montare uno estratto a sorte. Ciascun cavallerizzo ha a disposizione 20 minuti per prendere confidenza con l’animale e fare riscaldamento. Annika Schleu, l’allieva della Raisner, aveva avuto in sorte Saint Boy. Ma fin dall’inizio si è capito che il cavallo non era docile e che si comportava male, soprattutto quando si trattava di saltare. La Schleu stava andando bene ed era nelle prime posizioni. Ma domare Saint Boy stava diventando sempre più improbo: a ogni salto mancato aumentavano il suo nervosismo e la sua frustrazione. Non ce l’ha fatta più: lacrime di disperazione sul suo volto e un urlo disperato riecheggiato nello stadio vuoto. E’ a quel punto che l’allenatrice è intervenuta picchiando l’animale su una gamba posteriore e invitando la Schleu a farlo a sua volta senza esitazione. «Colpiscilo, colpiscilo: ma fallo per davvero» le ha gridato. Il suggerimento non è servito a nulla sul piano concreto: la Schleu ha visto solo aumentare il suo disagio, Saint Boy si è innervosito ancora di più e l’allenatrice ha rimediato il cartellino nero.Per la cronaca, una situazione analoga l’hanno vissuta altre due concorrenti, l’ungherese Michelle Gulyas e l’irlandese Natalya Coyle. Ma entrambe si sono ben guardate di imitare i tedeschi. Il capo squadra della Germania ai Giochi, Alfons Hoermann, ha ufficializzato che la Kaisner era stata cacciata e che non aveva diritto ad alcuna giustificazione: «Siamo stati tutti d’accordo sulla sua esclusione, certe cose non devono verificarsi». Non tutto il male viene però per nuocere. Questa vicenda, infatti, servirà a cambiare qualcosa. Proprio Hoermann ha infatti invitato l’Uipm a rivedere l’incidente e a trarre conclusioni «nell’ottica di migliorare le competizioni di pentathlon: bisogna tutelare di sicuro il benessere dei cavalli, ma anche fare in modo che gli atleti possano competere in modo equo».



unione  sarda 

Le calciatrici Usa terze a Tokyo. Trump: “Perché sono maniache di sinistra”

L'ex presidente attacca la nazionale, “colpevole” di tante battaglie sociali

                                                                  Megan Rapinoe 

Le calciatrici Usa terze a Tokyo. Trump: ““Maniache della sinistra radicale" L'ex presidente attacca la nazionale, “colpevole” di tante battaglie sociali Donald Trump attacca la nazionale di calcio femminile degli Stati Uniti arrivata “solo” terza alle Olimpiadi di Tokyo.L'ex presidente americano ha una sua teoria personale sul perché del gradino più basso del podio di una squadra che a lungo ha dominato la scena mondiale del calcio femminile. Le ragazze della nazionale, secondo lui, se non fossero così impegnate socialmente avrebbero ottenuto risultati migliori.Megan Rapinoe e compagne si sono sempre battute contro le ingiustizie sociali e le discriminazioni salariali tra uomini e donne, anche nello sport. "Questo porta ad essere destinate a perdere, ad essere perdenti" , incalza Trump.Nel 2019 la squadra campione del mondo si rifiutò di accettare il suo invito alla Casa Bianca.

L'arbitra italiana della lotta che gli iraniani non volevano: "Mi dicevano: sei una donna"dal nostro inviato Mattia Chiusano
Edit Dozsa (foto Emanuele Di Feliciantonio)

 
Nel torneo olimpico una direttice di gara internazionale, Edit Dozsa, di origine ungherese, genovese di adozione ed ex suocera di Chamizo: "Ho avuto problemi in passato, ma ora anche gli atleti di paesi islamici mi rispettano, hanno capito che sono qui per aiutarli. Nonostante le direttive del Cio questo resta uno sport maschilista, siamo solo 4 arbitri donna su 43”


06 AGOSTO 2021 



TOKYO - Nei tornei di lotta che si stanno disputando in questi giorni alla Makuhari Messe, anche in quelli in cui l'Italia non si è qualificata, l'Italia c'è. Nel centro dell'azione, a un passo dal tappeto dove si scaricano trazioni spaventose sui corpi di lottatori e lottatrici. Arbitrati con piglio deciso da una signora che si chiama Edit Dozsa, nata ungherese ma padrona ormai di una cadenza ligure da far invidia a un genovese. Ma niente a che vedere con le donne arbitro del calcio: in passato c'è chi Edit non la voleva. Non perché fosse incapace, anzi: ma perché è una donna.

Uno degli incontri arbitrati da Edit Dozsa a Tokyo: la tunisina Zaineb Sghaier contro la turca Yasemin Adar (reuters)



Cosa la ha portata da Budapest all'Italia, e da Genova a Tokyo?
"E ancora prima, ad arbitrare alle Olimpiadi di Pechino 2008 e a essere istruttrice arbitrale a Rio 2016? È stato mio marito Lucio Caneva, che portò i ragazzi che allenava in Ungheria dove io ero un'atleta. Un amore nato grazie alla lotta. Abbiamo due figli, entrambi lottatori: Aron e Dalma, che è stata a un passo dalla qualificazione a Tokyo. Io ormai mi sento ligure, e per il mondo della lotta sono italiana".
Un mondo difficile per una donna?
"E' uno sport ancora maschilista, purtroppo, nonostante le direttive del Cio. Alle Olimpiadi siamo in quattro su un totale di 43 arbitri, invece ci vorrebbe almeno il 30 % di presenza femminile. Qui il gender balance sono solo parole, sono arrabbiata".
In passato ha vissuto anche di peggio, sembra.
"Sono stata anche rifiutata. Ricordo un torneo internazionale a Sassari: dovevo arbitrare un iraniano, l'ho invitato sul tappeto ma lui non si muoveva, non capivo. Ha cominciato a puntare il dito contro di me, voleva il cambio di arbitro perché con una donna lui non avrebbe lottato. Coi colleghi siamo arrivati alla stessa conclusione, e l'abbiamo squalificato".
Si sono ripetuti episodi del genere?
"Sempre Sassari, un paio d'anni fa, sempre un iraniano. In un torneo della federazione mondiale invitiamo gli atleti a presentarsi bene sul podio, con la divisa ufficiale della federazione. Lo faccio presente a un atleta, che ribatte dicendo "siete donne, cosa volete da me?". A quel punto chiamiamo gli allenatori, comincia una discussione che va avanti per 35-40 minuti e anche questa termina con la squalifica. Quel ragazzo non si è più rivisto".
Com'è la situazione oggi con atleti di paesi in cui le donne non godono degli stessi diritti degli uomini?
"Cambiano le generazioni, cambia la mentalità. Lottatori di paesi islamici, Iran compreso, ci accettano di più. Dipende anche dagli atteggiamenti delle federazioni, degli allenatori, quel che succede poi sul tappeto. Diciamo che gli atleti ora ci rispettano".
Come ha fatto?
"Dopo tanti anni mi riconoscono, e capiscono che io sono lì per loro, a disposizione per aiutarli. Sono stata un'atleta, so cosa significa il momento che stanno vivendo. Qualcuno finisce pure per ringraziarmi".

Edit Dozsa con la figlia Dalma Caneva argento europeo (foto Emanuele Di Feliciantonio)

Voi Caneva siete la famiglia della lotta italiana: al punto che sua figlia Dalma sposò Frank Chamizo, che visse a lungo a casa vostra a Genova.
"Anche ora che si sono separati, Frank fa parte della nostra famiglia. Come non volergli bene? Erano così giovani lui e Dalma quando si sono incontrati, ognuno è cresciuto grazie a quell'incontro. Per me lui è come se fosse un figlio"









La lezione di April, talento e voglia di soffrire: ecco l'oro a 39 annidi Valentina DesalvoApril Ross (ansa)

Già bronzo e poi argento, la campionessa americana sale sul gradino più alto del podio del beach volley insieme alla compagna Alix Klineman: "Se penso a quello che abbiamo fatto mi sembra una follia e invece è successo"


Aveva trovato un lavoro: poteva fare la hostess e lasciare la pallavolo. "Mi faceva male la spalla, le ginocchia non reggevano, stavo programmando una vita altrove". Poi le compagne dell'University of Southern California la convinsero a provare con il beach. April Ross non amava il beach e soprattutto si sentiva molto scarsa, ma si fece convincere, decise di iniziare e nel 2006, a 24 anni, debuttò nei circuiti ufficiali, ad Acapulco.
Oggi, a 39 anni, ha vinto l'oro a Tokyo insieme a Alix Klineman, una coppia chiamata "team degli abbracci" per la frequenza con cui si scambia gesti d'affetto. Hanno battuto 2-0 le australiane in finale e per April, la più vecchia giocatrice a vincere ai Giochi nel beach, è la terza medaglia olimpica, la più bella. Nel 2021 a Londra aveva vinto l'argento con Jen Kessy, nel 2016 a Rio il bronzo con Kerri Walsh Jennings e adesso l'oro.
Grazie al beach ha guadagnato 3 milioni di dollari tra sponsor e premi, si diverte su instagram (ha 180 mila followers), ama lo yoga e con Alix è diventata una bambola fatta dall'American Girl Brand. "Se penso a quello che abbiamo fatto mi sembra una follia e invece è successo", ha detto alla fine abbracciata ad Alix e alla bandiera Usa. In attesa della finale femminile di volley e del basket, il dream team sono loro.

18.4.17

Boston Kathrine la rivoluzionaria di nuovo in corsa ritorno alla maratona dopo 50 anni




Il numero sul pettorale sarà lo stesso: 261. Eppure di anni ne sono passati 50 da quando Kathrine Swizter lo indossò per diventare la prima donna a partecipare alla Maratona di Boston, nel 1967. La maratona era aperta solo agli atleti di sesso maschile fino al 1972. Nel 1967 l'atleta di sesso femminile Kathrine Switzer ha corso la maratona di Boston grazie a uno stratagemma e gli organizzatori cercarono di strattonarla fuori dalla pista.





Infatti Le gare di fondo erano vietate alle atlete - considerate troppo fragili - e Kathrine usò un nome falso per registrarsi alla gara. Un giudice che l'aveva notata tra la folla cercò di strattonarla e impedirle di proseguire    foto sotto  )   ma il fidanzato la difese, lasciando che completasse la corsa in
4 ore e 20 minuti.  e impedirle di proseguire ma il fidanzato la difese, lasciando che completasse la corsa in 4 ore e 20 minuti. La scena, immortalata dai fotografi, fece il giro del mondo e cambiò la storia dello sport: le donne furono ammesse all'evento nel 1972. Kathrine Swizter, oggi 70enne, ha corso di nuovo quella che è considerata la Maratona più antica e patriottica - si tiene nel Patriot's Day - del mondo.non pago dell'articolo di repubblica riportato sopra scarno e ridotto solo ad una galleria fotografica sono andato a fare delle ricerche online ed ecco l'articolo più completo di https://www.tpi.it    di martedì 18 aprile 2017














LA DONNA SIMBOLO DELLA MARATONA DI BOSTON HA CORSO DI NUOVO DOPO 50 ANNI

Nel 1967 Kathrine Switzer partecipò alla maratona della città statunitense quando era ancora illegale per le donne. Quest'anno è tornata a farlo all'età di 70 anni
Kathrine Switzer durante la maratona di Boston del 1967.


Il 19 aprile 1967, cinquant’anni fa, si svolse una delle maratone più significative della storia: in quell’occasione, quando ancora alle donne non era permesso partecipare alla manifestazione, la ventenne Kathrine Switzer partecipò all’annuale maratona di Boston e arrivò fino alla fine dei 42 chilometri.
Non era la prima donna in assoluto a partecipare a una maratona, ma la sua impresa fece epoca perché fu la prima a farlo con un numero ufficiale di gara, e soprattutto perché la sua corsa fu immortalata da una foto che è diventata un simbolo della lotta delle donne nel corso del Novecento.
La maratona femminile all’epoca non era uno sport olimpico – lo sarebbe diventato solo nel 1984. Erano rarissime le donne che fino a quel momento avevano partecipato a maratone generiche, sempre facendolo non ufficialmente, e quindi senza la pettorina con il numero ufficiale di gara.
Switzer si era intestardita all’idea di partecipare alla maratona, che avrebbe corso insieme al suo ragazzo Thomas Miller, e grazie a una svista riuscì a registrarsi ufficialmente, quando invece di comunicare il nome esteso “Kathrine” si registrò come “K.V.”, lo pseudonimo che usava per firmare i suoi articoli sul giornale universitario.
Così il 19 aprile 1967 Switzer si confuse tra la folla e corse tra le centinaia di uomini presenti quel giorno, con il numero 261 ufficialmente intestato a suo nome.
Quando i fotografi la notarono, e si sparse la voce che una donna stava correndo con un numero ufficiale, il codirettore della maratona Jock Semple la raggiunse all'improvviso e cercò di bloccarla con violenza per impedirle di proseguire la gara.
Il tentativo di Semple, che con forza cerca di ostacolare la donna e staccarle il numero dal petto, fu immortalato dai fotografi presenti, e quell’immagine è rimasta nel tempo come un’allegoria degli sforzi fatti dalle donne per conquistare con fatica la parità di diritti.


Come dimostrano altre foto, il tentativo del direttore di gara fu immediatamente interrotto dal ragazzo di Switzer, un giocatore di football e lanciatore di martello professionista, che spintonò l’ufficiale, permettendo alla donna di terminare la gara senza problemi.


Questo non bastò a evitare che Kathrine venisse successivamente squalificata, ma la foto divenne un caso nazionale. Nel 1972, cinque anni dopo, alle donne fu finalmente concesso di partecipare ufficialmente alla maratona di Boston.Lunedì 17 aprile, cinquant’anni dopo la sua impresa, la settantenne Switzer è tornata alla maratona di Boston, correndo per la nona volta i 42 chilometri che la resero celebre. Ecco una foto scattata appena prima della partenza:



In quest’occasione, gli organizzatori della maratona hanno deciso di omaggiarla, e in qualche modo di fare ammenda, scegliendo di ritirare definitivamente la pettorina numero 261, in onore del numero che Switzer indossava nel 1967. “Sono stata molto orgogliosa di essere una donna”, ha ricordato Switzer. “Avevo i capelli lunghi, portavo il rossetto e l’eyeliner sulla linea di partenza. Tutti gli uomini intorno a me sapevano che ero una donna”.“Mi voltai e vidi la faccia più feroce che abbia mai visto”, ha raccontato la donna. “Un omone enorme mi afferrò per la spalla prima che potessi reagire e mi trattenne, urlando: ‘Sparisci dalla mia corsa e dammi quel numero!’. Sapevo che se mi fossi ritirata nessuno avrebbe creduto che le donne potessero correre distanze del genere e meritassero di far parte della maratona di Boston. Avrebbero pensato che ero un pagliaccio, e che le donne stessero cercando di irrompere in eventi in cui non avevano alcuna possibilità di arrivare in fondo”.Ora, in un post su Facebook dopo la corsa, Switzer ha scritto: “Ho finito, come 50 anni fa. Siamo qui per cambiare la vita delle donne. Provate a immaginare cosa succederà tra 50 anni!”.


Hey Friends, Thanks for all the support along the way! I finished, like I did 50 years ago. We are here to change... http://fb.me/x0PWVQdn


Questo un video di Sports Illustrated con foto e video delle due maratone della donna nel 1967 e 2017:



emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...