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7.8.21

storie olimpiche parte 7 La classe operaia va alle Olimpiadi, L'arbitra italiana della lotta che gli iraniani non volevano: "Mi dicevano: sei una donna" , e altre storie





Favola Yassine, il metalmeccanico cerca gloria nella maratonadal nostro inviato Ettore Livini


Originario del Marocco, 39 anni, lavora ancora in fabbrica - la Fornovo Gas di Traversetolo - e a forza di allenamenti in pausa pranzo "in tuta da lavoro perché i miei colleghi non se ne accorgessero" è arrivato di corsa in Giappone
              
                     06 AGOSTO 2021 



La classe operaia va alle Olimpiadi. E cala il jolly del maratoneta per caso - il metalmeccanico (in aspettativa) Yassine el Fathaoui - per lanciare la sfida a Eliud Kipchoge & C. sui 42 chilometri della gara simbolo dei Giochi. Il 39enne originario del Marocco diventato italiano nel 2013 ("dopo 15 anni di contributi versati e dieci di residenza", ripete sempre orgoglioso lui) è il marziano - e la variabile impazzita - della spedizione azzurra a Sapporo. A 24 anni lavorava in una fabbrica di macchine per imbottigliamento, giochicchiava a calcio nella squadra del paese e non aveva mai corso nemmeno una non-competitiva di quartiere. Oggi lavora ancora in fabbrica - la Fornovo Gas di Traversetolo - e a forza di allenamenti in pausa pranzo "in tuta da lavoro perché i miei colleghi non se ne accorgessero" è arrivato di corsa in Giappone. Con un primato personale - 2h10'10 a Siviglia nel 2020 - che per il suo allenatore Giorgio Reggiani "è il vero record mondiale di maratona" e con intenzioni tutt'altro che decoubertiniane: "Arrivare nei primi dieci ed essere il primo degli italiani", predica da mesi con forte accento di Parma.
Il sogno olimpico di el Fathaoui inizia da zero nel 2006: "Eravamo colleghi - racconta Luca Bragazzi, corridore amatoriale del Traversetolo running club e suo "scopritore" - . Lui giocava a calcio a Bazzano. Non un granché con i piedi, mi raccontava il suo allenatore, ma un fiato pazzesco". El Fathaoui aveva 24 anni. Troppo vecchio - dicono i manuali - per sfondare nel pallone e in qualsiasi sport. "Una domenica però - racconta Bragazzi - a furia di insistere sono riuscito a convincerlo a fare con me e mia moglie il "giro della chiesa"". Dieci chilometri, un classico dei podisti da week-end della zona. Risultato: "Alla fine noi eravamo morti e lui giocava con i sassi senza un filo di fiatone".
Sapporo e i Giochi sono ancora lontani. Yassine si fa convincere da Luca a partecipare a qualche campestre "attirato più che altro dalle forme di parmigiano che davano come premio", ride Bragazzi. L'esordio alla prima non-competitiva non è un granché, - "sono arrivato nei primi cento", è il ricordo di Yassine - ma una gara alla volta la passione per la corsa gli entra nel sangue. Nel 2011, convinto dai suoi compagni di allenamento del Cus Parma, si iscrive alla Collermar-athon di Fano, 42 chilometri di saliscendi dai colli al mare. Per lui è divertimento puro Si accoda in partenza al gruppetto di Giorgio Calacaterra, il re delle ultramaratone italiane, tanto per vedere che effetto che fa. A sorpresa tiene il ritmo. Anzi, al trentesimo km. scatta, saluta la compagnia e va a chiudere a 2h29'.
El Fathaoui ha 29 anni. Troppi, dicono tutte le persone di buon senso, per pensare a un futuro nella maratona. Nel caso ci fossero dei dubbi, due infortuni lo inchiodano ai box per due anni. "Ma io sono un metalmeccanico che si impegna e dà credito alle sue possibilità" è il suo mantra. Si cura, si allena con la solita routine: otto ore in fabbrica alla Fornovo gas - "dove è uno dei migliori operai che abbiamo", come ha riconosciuto Ferdinando Bauzone, titolare dell'impresa - qualche allenamento in pausa pranzo ("una volta con gli scarponi da lavoro perché mi ero dimenticato le scarpette da corsa!") e altre due ore di pratica la sera dopo aver timbrato il cartellino.
Gli anni avanzano ma i tempi continuano a migliorare. Fino alla svolta, il 21 settembre 2019, alla Maratona di Berlino. "Mi sono iscritto perché ci andavano i miei amici", minimizza lui, reduce da due settimane di ferie rubate alla famiglia (moglie e figlia) per un ritiro in altura a Predazzo. Sarà. Parte, si sente bene. A un certo punto guarda il cronometro della macchina apripista che mostra la proiezione del tempi finale: 2 ore e 9 minuti. "Un po' mi vergognavo di stare lì", ha raccontato. Ma c'è. Tempo finale 2.11'08. Minimo olimpico.
Che fare? L'operaio El Fathaoui è preoccupato. I Giochi sono un sogno. Ma per Tokyo bisogna allenarsi. "Lui è un gran faticatore e non si tira mai indietro", dice Bragazzi. Ma per allenarsi serve tempo. E lui non può permettersi di perdere lo stipendio. Per fortuna la Fornovo gas è una famiglia: "L'ho visto allenarsi in ogni stagione e con qualsiasi tempo e non ha mai lasciato niente indietro sul lavoro", dice Bauzone. Detto, fatto. Arriva l'aspettativa. Sei mesi che ormai, complici pandemia e rinvio delle Olimpiadi, sono diventati due anni. "Ma non c'è problema. Quando avrà finito tornerà a lavorare - gli ha garantito Bauzone -. E' un onore aiutarlo. Lui rappresenta i nostri sogni che si realizzano". E' vero. E dopodomani, comunque vada El Fathaoui a Sapporo, sarà un successo. Poi il maratoneta per caso tornerà a lavorare in fabbrica.

Olimpiadi, pentathlon femminile, l’allenatrice tedesca picchia il cavallo che non salta: espulsa dai Giochi

di Flavio Vanetti

Anche in Germania, dove è molto alta la sensibilità nei confronti degli animali, è scoppiato un pandemonio

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Tu non salti? E io ti picchio. E’ scoppiato un caso nel pentathlon moderno e a farci le spese è stata l’allenatrice tedesca Kim Raisner, ex campionessa del mondo e d’Europa: ha percosso un cavallo, nella prova olimpica del 6 agosto, e ha invitato la sua cavallerizza impegnata in gara a fare altrettanto. Così è stata espulsa con effetto immediato dai Giochi e non ha potuto svolgere le sue funzioni nella competizione maschile: appena arrivata al Tokyo Olympics, lo stadio olimpico di Komazawa che fu il fulcro dei Giochi del 1964, alla Raisner è stato notificato che «era fuori», come avrebbe detto Donald Trump nel reality show «The Apprentice».
La fregatura della 48enne ex campionessa è stata anche che, in uno stadio senza spettatori, si sente tutto: quindi le sue urla e i suoi isterici incitamenti sono stati ben uditi in Tv; e in Germania, dove è molto alta la sensibilità nei confronti degli animali, è scoppiato un pandemonio. Sono fioccate le telefonate di protesta e l’’Uipm, la federazione internazionale di questa disciplina, ha dovuto prendere provvedimenti. La vicenda si lega anche al regolamento olimpico del pentathlon moderno: i concorrenti nella fase di salto non usano il proprio cavallo, quello con cui si allenano, ma ne devono montare uno estratto a sorte. Ciascun cavallerizzo ha a disposizione 20 minuti per prendere confidenza con l’animale e fare riscaldamento. Annika Schleu, l’allieva della Raisner, aveva avuto in sorte Saint Boy. Ma fin dall’inizio si è capito che il cavallo non era docile e che si comportava male, soprattutto quando si trattava di saltare. La Schleu stava andando bene ed era nelle prime posizioni. Ma domare Saint Boy stava diventando sempre più improbo: a ogni salto mancato aumentavano il suo nervosismo e la sua frustrazione. Non ce l’ha fatta più: lacrime di disperazione sul suo volto e un urlo disperato riecheggiato nello stadio vuoto. E’ a quel punto che l’allenatrice è intervenuta picchiando l’animale su una gamba posteriore e invitando la Schleu a farlo a sua volta senza esitazione. «Colpiscilo, colpiscilo: ma fallo per davvero» le ha gridato. Il suggerimento non è servito a nulla sul piano concreto: la Schleu ha visto solo aumentare il suo disagio, Saint Boy si è innervosito ancora di più e l’allenatrice ha rimediato il cartellino nero.Per la cronaca, una situazione analoga l’hanno vissuta altre due concorrenti, l’ungherese Michelle Gulyas e l’irlandese Natalya Coyle. Ma entrambe si sono ben guardate di imitare i tedeschi. Il capo squadra della Germania ai Giochi, Alfons Hoermann, ha ufficializzato che la Kaisner era stata cacciata e che non aveva diritto ad alcuna giustificazione: «Siamo stati tutti d’accordo sulla sua esclusione, certe cose non devono verificarsi». Non tutto il male viene però per nuocere. Questa vicenda, infatti, servirà a cambiare qualcosa. Proprio Hoermann ha infatti invitato l’Uipm a rivedere l’incidente e a trarre conclusioni «nell’ottica di migliorare le competizioni di pentathlon: bisogna tutelare di sicuro il benessere dei cavalli, ma anche fare in modo che gli atleti possano competere in modo equo».



unione  sarda 

Le calciatrici Usa terze a Tokyo. Trump: “Perché sono maniache di sinistra”

L'ex presidente attacca la nazionale, “colpevole” di tante battaglie sociali

                                                                  Megan Rapinoe 

Le calciatrici Usa terze a Tokyo. Trump: ““Maniache della sinistra radicale" L'ex presidente attacca la nazionale, “colpevole” di tante battaglie sociali Donald Trump attacca la nazionale di calcio femminile degli Stati Uniti arrivata “solo” terza alle Olimpiadi di Tokyo.L'ex presidente americano ha una sua teoria personale sul perché del gradino più basso del podio di una squadra che a lungo ha dominato la scena mondiale del calcio femminile. Le ragazze della nazionale, secondo lui, se non fossero così impegnate socialmente avrebbero ottenuto risultati migliori.Megan Rapinoe e compagne si sono sempre battute contro le ingiustizie sociali e le discriminazioni salariali tra uomini e donne, anche nello sport. "Questo porta ad essere destinate a perdere, ad essere perdenti" , incalza Trump.Nel 2019 la squadra campione del mondo si rifiutò di accettare il suo invito alla Casa Bianca.

L'arbitra italiana della lotta che gli iraniani non volevano: "Mi dicevano: sei una donna"dal nostro inviato Mattia Chiusano
Edit Dozsa (foto Emanuele Di Feliciantonio)

 
Nel torneo olimpico una direttice di gara internazionale, Edit Dozsa, di origine ungherese, genovese di adozione ed ex suocera di Chamizo: "Ho avuto problemi in passato, ma ora anche gli atleti di paesi islamici mi rispettano, hanno capito che sono qui per aiutarli. Nonostante le direttive del Cio questo resta uno sport maschilista, siamo solo 4 arbitri donna su 43”


06 AGOSTO 2021 



TOKYO - Nei tornei di lotta che si stanno disputando in questi giorni alla Makuhari Messe, anche in quelli in cui l'Italia non si è qualificata, l'Italia c'è. Nel centro dell'azione, a un passo dal tappeto dove si scaricano trazioni spaventose sui corpi di lottatori e lottatrici. Arbitrati con piglio deciso da una signora che si chiama Edit Dozsa, nata ungherese ma padrona ormai di una cadenza ligure da far invidia a un genovese. Ma niente a che vedere con le donne arbitro del calcio: in passato c'è chi Edit non la voleva. Non perché fosse incapace, anzi: ma perché è una donna.

Uno degli incontri arbitrati da Edit Dozsa a Tokyo: la tunisina Zaineb Sghaier contro la turca Yasemin Adar (reuters)



Cosa la ha portata da Budapest all'Italia, e da Genova a Tokyo?
"E ancora prima, ad arbitrare alle Olimpiadi di Pechino 2008 e a essere istruttrice arbitrale a Rio 2016? È stato mio marito Lucio Caneva, che portò i ragazzi che allenava in Ungheria dove io ero un'atleta. Un amore nato grazie alla lotta. Abbiamo due figli, entrambi lottatori: Aron e Dalma, che è stata a un passo dalla qualificazione a Tokyo. Io ormai mi sento ligure, e per il mondo della lotta sono italiana".
Un mondo difficile per una donna?
"E' uno sport ancora maschilista, purtroppo, nonostante le direttive del Cio. Alle Olimpiadi siamo in quattro su un totale di 43 arbitri, invece ci vorrebbe almeno il 30 % di presenza femminile. Qui il gender balance sono solo parole, sono arrabbiata".
In passato ha vissuto anche di peggio, sembra.
"Sono stata anche rifiutata. Ricordo un torneo internazionale a Sassari: dovevo arbitrare un iraniano, l'ho invitato sul tappeto ma lui non si muoveva, non capivo. Ha cominciato a puntare il dito contro di me, voleva il cambio di arbitro perché con una donna lui non avrebbe lottato. Coi colleghi siamo arrivati alla stessa conclusione, e l'abbiamo squalificato".
Si sono ripetuti episodi del genere?
"Sempre Sassari, un paio d'anni fa, sempre un iraniano. In un torneo della federazione mondiale invitiamo gli atleti a presentarsi bene sul podio, con la divisa ufficiale della federazione. Lo faccio presente a un atleta, che ribatte dicendo "siete donne, cosa volete da me?". A quel punto chiamiamo gli allenatori, comincia una discussione che va avanti per 35-40 minuti e anche questa termina con la squalifica. Quel ragazzo non si è più rivisto".
Com'è la situazione oggi con atleti di paesi in cui le donne non godono degli stessi diritti degli uomini?
"Cambiano le generazioni, cambia la mentalità. Lottatori di paesi islamici, Iran compreso, ci accettano di più. Dipende anche dagli atteggiamenti delle federazioni, degli allenatori, quel che succede poi sul tappeto. Diciamo che gli atleti ora ci rispettano".
Come ha fatto?
"Dopo tanti anni mi riconoscono, e capiscono che io sono lì per loro, a disposizione per aiutarli. Sono stata un'atleta, so cosa significa il momento che stanno vivendo. Qualcuno finisce pure per ringraziarmi".

Edit Dozsa con la figlia Dalma Caneva argento europeo (foto Emanuele Di Feliciantonio)

Voi Caneva siete la famiglia della lotta italiana: al punto che sua figlia Dalma sposò Frank Chamizo, che visse a lungo a casa vostra a Genova.
"Anche ora che si sono separati, Frank fa parte della nostra famiglia. Come non volergli bene? Erano così giovani lui e Dalma quando si sono incontrati, ognuno è cresciuto grazie a quell'incontro. Per me lui è come se fosse un figlio"









La lezione di April, talento e voglia di soffrire: ecco l'oro a 39 annidi Valentina DesalvoApril Ross (ansa)

Già bronzo e poi argento, la campionessa americana sale sul gradino più alto del podio del beach volley insieme alla compagna Alix Klineman: "Se penso a quello che abbiamo fatto mi sembra una follia e invece è successo"


Aveva trovato un lavoro: poteva fare la hostess e lasciare la pallavolo. "Mi faceva male la spalla, le ginocchia non reggevano, stavo programmando una vita altrove". Poi le compagne dell'University of Southern California la convinsero a provare con il beach. April Ross non amava il beach e soprattutto si sentiva molto scarsa, ma si fece convincere, decise di iniziare e nel 2006, a 24 anni, debuttò nei circuiti ufficiali, ad Acapulco.
Oggi, a 39 anni, ha vinto l'oro a Tokyo insieme a Alix Klineman, una coppia chiamata "team degli abbracci" per la frequenza con cui si scambia gesti d'affetto. Hanno battuto 2-0 le australiane in finale e per April, la più vecchia giocatrice a vincere ai Giochi nel beach, è la terza medaglia olimpica, la più bella. Nel 2021 a Londra aveva vinto l'argento con Jen Kessy, nel 2016 a Rio il bronzo con Kerri Walsh Jennings e adesso l'oro.
Grazie al beach ha guadagnato 3 milioni di dollari tra sponsor e premi, si diverte su instagram (ha 180 mila followers), ama lo yoga e con Alix è diventata una bambola fatta dall'American Girl Brand. "Se penso a quello che abbiamo fatto mi sembra una follia e invece è successo", ha detto alla fine abbracciata ad Alix e alla bandiera Usa. In attesa della finale femminile di volley e del basket, il dream team sono loro.

3.8.21

storie olimpiche IV parte Niente minuto di silenzio per Hiroshima,Il "piccolo" San Marino e la "enorme" India appaiati nel medagliere , Simone Biles sul podio, è bronzo alla trave: "Non siamo solo show, la salute mentale non va nascosta

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lo spettacolo non ha tempo per tali cose

Niente minuto di silenzio per Hiroshima, l'imbarazzo ai Giochi
dal nostro inviato Giampaolo Visetti
(reuters)




Il 6 agosto di 76 anni fa il bombardamento atomico, la richiesta dei sopravvissuti di fermare i Giochi per un minuto di commemorazione riapre le ferite sia all'interno che a livello internazionale
TOKYO - "Se non ricordiamo Hiroshima durante le Olimpiadi in Giappone, non abbiamo il diritto di presentare i Giochi come la festa della pace". L'appello di Akiba Tadatoshi, ex sindaco della città distrutta dalla bomba atomica nel 1945, imbarazza sia la nazione che il Comitato olimpico internazionale. Gli ultimi sopravvissuti, poco più di 50 mila hibakusha con un'età media superiore agli ottant'anni, chiedono agli 11 mila atleti di 205 Paesi di osservare un minuto di silenzio per ricordare l'attimo che pose fine alla Seconda guerra mondiale e alla vita di 140 mila persone. Alle 8.15 del 6 agosto 1945 il B-29 statunitense Enola Gay sganciò su Hiroshima il primo ordigno nucleare usato in un conflitto. Dopo 76 anni, l'anniversario della più catastrofica strage contro la popolazione civile nella storia delle guerre, cade quest'anno nel pieno delle Olimpiadi volute dal Giappone per favorire la ricostruzione dopo un altro disastro nucleare, causato dal terremoto di dieci anni fa a Fukushima.
Tornare a scavare nella ferita di Hiroshima e di Nagasaki, anniversario questo che incombe il 9 agosto, giorno successivo alla chiusura dei Giochi, è però oggi meno facile della retorica, sia pacifista che favorevole al riarmo nazionale, che ormai avvolge le città-reliquia sacrificate all'imperialismo nipponico alleato della Germania nazista di Hitler. Nel 1964 le post-belliche Olimpiadi di Tokyo, aperte dall'imperatore-sconfitto Hirohito, per evitare crisi diplomatiche nei giorni della "pioggia nera" furono posticipate ad ottobre. Quest'anno, causa pandemia, i Giochi anche ai primi d'agosto (già rinviati di un anno) non hanno lasciato alternative. Il dossier della memoria, ad alto tasso di sensibilità politica, minaccia così di scoppiare tra le mani del governo di Yoshihide Suga.
Durante la cerimonia inaugurale, il 23 luglio, per la prima volta alle Olimpiadi si sono commemorati gli 11 atleti israeliani assassinati da un commando palestinese durante i Giochi del 1972 a Monaco di Baviera. Ignorare le 140 mila vittime giapponesi causate dai 15 kilotoni al plutonio della bomba americana Little Boy aumenta così il prezzo di una scelta politica. Per Tokyo, in particolare oggi, ricordare non è per nulla semplice, né gradito. Lo stesso disagio coinvolge gli atleti di Giappone e Usa che il 6 agosto si troveranno su fronti opposti a contendersi medaglie a elevato valore di soft-power. L'appello al ricordo di Hiroshima rivolto al mondo dello sport, non è stato infine raccolto dal Cio. Il no al minuto di silenzio, invocato anche dal sindaco della città Kazumi Mitsui, ora è ufficiale. "La cerimonia conclusiva - spiega una nota degli organizzatori, sotto pressione dal parte della autorità giapponesi - ricorderà le vittime di tutte le tragedie storiche". Il presidente dei comitati delle vittime Toshiyuki Mimaki ha risposto di essere "deluso perché non pensavo che un minuto di raccoglimento per Hiroshima avrebbe potuto disturbare i Giochi".
Il silenzio negato promette così di trasformare le annunciate commemorazioni al Memoriale della Pace in trasversali manifestazioni nazionaliste: unendo chi si oppone al governo Suga, i pacifisti, i contrari alle Olimpiadi in pieno Covid, i favorevoli alla de-nuclearizzazione nazionale, gli hibakusha del 1945 e perfino i patrioti revisionisti che invocano "una data di scadenza per le sconfitte e il diritto di riacquisire le armi per potersi difendere". Giappone, Usa e Cio si erano impegnati al massimo per raffreddare in anticipo una simile patata bollente. Il 16 luglio, aprendo la tradizionale "tregua olimpica" proclamata dall'Onu, Thomas Bach tra le contestazioni di alcuni superstiti ha deposto una corona di fiori sul monumento che onora i morti bruciati tra le fiamme di Hiroshima, a pochi passi dallo scheletro della cupola della Camera di commercio crollata. La First Lady della Casa Bianca, Jill Biden, è stata inviata dal marito alla cerimonia inaugurale di Tokyo 2020, unica rappresentante di primo livello di una super-potenza straniera, alla sua prima missione fuori dagli Usa. I media nazionali in queste ore non mancano di ricordare la storica visita di Barack Obama a Hiroshima, cinque anni fa. Il premier giapponese, atteso dalle elezioni di fine settembre, si è spinto in extremis ad accettare la sentenza dell'Alta Corte che dopo decenni amplia di sei volte l'area sconvolta dalle radiazioni.
Altri 13 mila superstiti "vecchi e malati", si è giustificato Suga, saranno così presto risarciti da uno Stato che si è sempre rifiutato di ammettere implicitamente colpe per il patto con Hitler e per il massacro Usa. La strada dell'offensiva interna e internazionale per evitare che su questi Giochi scoppi anche un caso-Hiroshima, dopo il no obbligato del Cio a chiedere agli atleti un minuto di silenzio, adesso però è più in salita. Il conservatore Yoshihide Suga, come il predecessore Shinzo Abe, resta deciso a seppellire la costituzione pacifista dettata e imposta da Truman a Hirohito nel 1945. L'ascesa della Cina, la minaccia atomica della Corea del Nord e il gelo con la Russia offrono oggi a nazionalisti e revisionisti l'opportunità di rivendicare le "nuove armi di autodifesa" come un'opzione obbligata per mantenere "la pace nel Pacifico". L'argomento ha perfino permesso a Tokyo di salvare la contestata base militare Usa a Okinawa, vertice di una linea missilistica che arriva fino alle Filippine, anche a tutela dell'indipendenza di Taiwan da Pechino. Lo stesso riavvio di tutte le 43 centrali atomiche giapponesi, fermate nel 2011 dopo la crisi di Fukushima, dipende dall'esito dell'irrisolto scontro sulla storia nazionale dell'ultimo secolo. Gli atleti delle Olimpiadi, tra pochi giorni, si sveglieranno così tra i due fuochi accesi all'epoca dei loro nonni, che ardono però anche sul loro futuro. I cartelli alzati in queste ore dagli hibakusha sono eloquenti: "Risarcite e onorate le vittime di Hiroshima, annullate le Olimpiadi". Venerdì 6 agosto sarebbe bastato un minuto di silenzio ai Giochi per raffreddare il clima politico-sociale e per riscaldare il cuore di chi vide i famigliari bruciare a 4 mila gradi? "Avrebbe potuto fare molto - ha risposto Sueko Hada alla tivù nazionale - perché oggi nel mondo le parole sulla guerra dicono mai più, ma le azioni dicono un'altra volta". Sueko ha 84 anni e il giorno in cui il colonnello Tibbets sganciò l'A-bomb sopra casa sua, era una bambina di 8. Perse i genitori e le tre sorelle.
Ha dovuto andarsene e tacere il suo segreto perché nel Paese nessuno voleva sposare le "donne radioattive". L'hanno tradita le ustioni sulla faccia: è rimasta sola. "Il tempo cancella anche la memoria - ha detto - e quando la memoria sarà finita anche l'irripetibile potrà ritornare a succedere". Tokyo e i suoi campioni dopo 76 anni sono costretti a misurarsi con questa dolorosa sfida del ricordo. In una lettera, gli abitanti di Hiroshima chiedono agli atleti di fermarsi comunque per un minuto dentro il Villaggio olimpico, anche a titolo personale. Quel minuto di silenzio nel mondo si farebbe sentire: il silenzio e basta minaccia di risultare davvero fragoroso.

                                                   Hoy, l’età del bronzo è 62 anni
 
A Los Angeles, una vita fa, girava curioso per il villaggio olimpico, «felice dei miei 25 anni e orgoglioso di essere il più giovane della squadra». 37 anni dopo, a Tokyo, nel Villaggio «chi mi incontra mi chiede cosa sto facendo lì, se sono un funzionario. E io rispondo "no, sono un atleta, proprio come te"». Ci ride su Andrew Hoy. E come fai a non ridere quando vinci due medaglie olimpiche a 62 anni? L’argento nel concorso a squadre e il bronzo nell’all-around hanno riportato il cavaliere australiano sul podio a cinque cerchi, da dove mancava dall’edizione di casa, Sydney 2000, quando fu oro nel completo a squadre e argento nell’individuale. Prima, Hoy era stato oro a Barcellona 1992 e ad Atlanta 1996, sempre a squadre. Otto Olimpiadi per Hoy boy , il soprannome giusto e per nulla ironico per un uomo che ha sconfitto l’anagrafe, appassionato di moto, viaggi e cucina. L’argento e il bronzo sono gioia pura, «pensavo solo a quello, alle medaglie. Niente quarti, quinti o sesti posti, non contano, lo sanno tutti». E fa niente per quei due record mancati.
Non è lui l’atleta medagliato più anziano ai Giochi: a Città del Messico, nel 1968, un altro argento premiò il velista svizzero Louis Noverras, che di anni ne aveva 65. L’altro record che non c’è è "colpa" dei cavalieri britannici, che in Giappone hanno occupato il gradino più alto del podio. Fosse toccato agli australiani, Hoy avrebbe vinto un oro 37 anni dopo la sua prima apparizione olimpica. Il primato rimane allo schermidore Aladár Gerevich, che nella sciabola esordì a Los Angeles 1932 e salutò a Roma 1960, con lo stesso risultato: l’oro a squadre. Un ragazzino, l’ungherese, che disse addio a pedana, maschere e stoccate a soli cinquant’anni.
Il destino di Hoy si è incrociato nell’all-around con quello di Julia Krajewski, 32 anni, tedesca. Mentre lui si prendeva il bronzo, lei conquistava l’oro: la prima donna sul gradino più alto del podio nella storia del Completo olimpico, prima a superare anche i colleghi maschi. Loro due, vicini, a cavalcare la storia.
Due medaglie in poche ore Andrew Hoy, 62 anni, argento a squadre e il bronzo individuale





Il "piccolo" San Marino e la "enorme" India appaiati: un argento e un bronzo nel medagliere

34mila abitanti da una parte, quasi 1 miliardo e 400 milioni dall'altra. Una gigantesca differenza demografica quella tra la Repubblica di San Marino e l'India, il secondo stato più popoloso al mondo. Uno scarto che però non ha effetti sul medagliere di Tokyo 2020: i due Stati, infatti, sono appaiati al 63esimo posto nel medagliere con un argento e un bronzo ciascuno. San Marino ha costruito le sue fortune olimpiche sul tiro a volo e sulla mira di Alessandra Perilli, vincitrice del bronzo individuale e dell'argento a squadre in coppia con Gian Marco Berti. Per l'India invece un argento nel sollevamento pesi e un bronzo nel badminton femminile.

A cura di Francesco Cofano






Simone Biles sul podio, è bronzo alla trave: "Non siamo solo show, la salute mentale non va nascosta"dalla nostra inviata Alessandra Retico

Simone Biles (reuters)
La campionessa americana, che si era ritirata dalla gara a squadre e dalle altre gare individuali, chiude alle spalle delle cinesi Chenchen Guan e Xijing Tang


Ritrova l'equilibrio, il bronzo e soprattutto se stessa. Era la cosa più importante, per Simone Biles: cacciare via i demoni e i tormenti che per una settimana, quella più importante, l'avevano tenuta lontana dalla ginnastica che l'hanno resa la più grande di sempre. Dopo il no a sorpresa martedì scorso alla finale a squadre "per salvaguardare la mia salute mentale", la 24enne americana, aveva rinunciato anche a tutte le seguenti gare individuali dove era candidata all'oro: niente all-around, né volteggio, parallele asimmetriche e corpo libero.
Il no alle altre gare
Ma oggi, sulla trave che era l'ultima delle prove che assegnavano medaglie ai Giochi di Tokyo, Simone ci voleva essere contro i suoi twisties, i black out mentali che fanno perdere in volo i riferimenti spaziali e che aveva scoperto sulla pedana giapponese proprio poco prima di andare in finale. Non voleva compromettere l'esito della gara delle sue compagne (poi d'argento) e nemmeno la sua salute mentale. Si è presa del tempo per se.
"Non siamo solo show"
Ed è tornata e c'è stata, col suo costume rosso bianco e blu e più di 5mila cristalli luminosi. Sale sulla trave, non perde l'equilibrio (tranne una breve incertezza a metà esercizio), semplifica un po' le figure, conclude atterrando con un lieve saltino. Gli è sufficiente per essere terza. Soprattutto, per ritrovare fiducia. Solo applausi per lei e clic dei fotografi. A guardarla, anche il presidente del Cio, Thomas Bach. Lei si mette la mano sul cuore. Batte. "Non siamo solo spettacolo, parliamo di più del problema della salute mentale degli atleti. E siccome non siamo più bambini, ora che siamo cresciuti possiamo farlo da soli", ha detto. "Non pensavo di prendere una medaglia: ho gareggiato solo per me stessa, e questa gara vale tutto il mondo".
Oro cinese
La campionessa americana ha chiuso il suo esercizio con 14.000 punti e si è presa il bronzo come a Rio 2016: è la sua settima medaglia olimpica. Davanti a lei le due cinesi teenager, Chenchen Guan, 16 anni, oro con 14.633 punti e la 18enne Xijing Tang, argento con 14.233.
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"Sappiamo dove abiti", minacce di morte agli atleti di Tokyo 2020

dal nostro inviato Giampaolo Visetti
(reuters)

I campioni giapponesi denunciano gli attacchi violenti sui social. Mizutani, stella del ping-pong: "Ho paura a prendere in mano il telefono". La ginnasta Murakami: "Neanche andare ai Giochi ti dà un attimo di felicità". Il legale: "Gli insulti legati alla pandemia"




TOKYO – “Devi morire”, oppure “Vattene per sempre”, o ancora “Sappiamo dove abita la tua famiglia”. Jun Mizutani, 32 anni campione giapponese del ping-pong, non aveva immaginato che vincere una medaglia d’argento alle Olimpiadi lo avrebbe trasformato in vittima di minacce di morte.
Invece per la prima volta ai Giochi debutta anche l’odio via social e decine di atleti denunciano in queste ore di essere presi di mira da una globale violenza virtuale. Insulti e minacce non travolgono solo gli account di chi non si conferma all’altezza delle attese agonistiche dei tifosi. Colpiscono anche gli atleti di punta che conquistano una finale, ma che non arrivano alla medaglia d’oro.
Il campione di ping-pong: "Vogliono uccidermi"
Jun Mizutani nella finale del doppio ha perso contro una coppia cinese. “Da quel momento – ha detto – non ho più il coraggio di prendere in mano il cellulare. Su Instagram migliaia di sconosciuti promettono di venirmi a cercare per uccidermi e coprono di ingiurie anche la mia anziana madre. Con un argento al collo sono costretto a vivere nella paura”. L’escalation degli haters è tale che il Comitato olimpico internazionale è stato costretto a fornire un servizio di consulenza per bloccare i “messaggi inappropriati” contro gli atleti. La polizia giapponese ha annunciato che i post di minaccia, o diffamatori, saranno sequestrati per arrivare a identificare gli autori.
La ginnasta Murakami: "Non posso tornare a casa"
Le Olimpiadi, ispirate agli ideali di pace di Pierre de Coubertin, non erano mai state il proscenio di una gogna digitale tanto allarmante. La ginnasta May Murakami, 24 anni, colpevole di non aver arricchito il bottino di medaglie del Giappone, non ha potuto rientrare a casa per il timore di essere picchiata, come promesso su Twitter. “Sono molto triste – ha detto – ho dedicato la vita allo sport e scopro che nemmeno arrivare ai Giochi ti dona un attimo di felicità”. Per gli atleti del Villaggio la gestione dei social, quando sfugge il gradino più alto del podio, sta diventando il problema più difficile e la peggiore fonte di stress. La maggioranza possiede siti personali e account con milioni di followers. Fino a ieri i social erano il luogo in cui immagini personali, video e descrizioni di momenti privati riscuotevano i like entusiasti dei sostenitori. Ora si rivelano la piazza per processi collettivi che spingono molti nella depressione.
Gli insulti a Simone Biles
Il peso dei social non schiaccia solo i campioni giapponesi. La fuoriclasse della ginnastica Usa Simone Biles, dopo aver rinunciato al concorso collettivo rivelando il proprio disagio psicologico, sulla Rete è stata attaccata con insulti razzisti e sessisti. Dopo la finale degli Europei di calcio i tre giocatori britannici che hanno sbagliato i rigori contro l’Italia sono finiti nel mirino del razzismo inglese per il colore della loro pelle. Minacce di morte contro la famiglia sono state recapitate via social anche al calciatore spagnolo Alvaro Morata, pure per l’errore fatale di un calcio dal dischetto. L’odio a distanza anche nello sport non è una novità. Le Olimpiadi invece non si erano mai confrontate con un fenomeno tanto diffuso, preoccupante e decisivo. “Ormai sai che se non vinci la medaglia d’oro – ha detto il nuotatore Daiya Seto, 27 anni, finito quarto nei 200 misti – vieni travolto dall’odio e sei costretto a sparire. Questo non permette più di competere sereni, le prestazioni ne risentono e molti di noi sono tentati di smettere”.
Con la pandemia cresce l'intolleranza
Una tempesta di ingiurie ha travolto perfino la stella nascente giapponese Daiki Hashimoto, 19 anni, medaglia d’oro nella ginnastica, e il campione di surf Kanoa Igarashi, 23 anni, finito secondo. L’esercito degli odiatori, in gran parte stranieri, contro di loro si è scatenato per denunciare il presunto pagamento di mazzette per corrompere i giudici e per stabilire senza appello che i due “non sono all’altezza di una medaglia e disonorano le Olimpiadi”. L’avvocato Kazuya Tanaka, membro dell’associazione giapponese “Bar” per la tutela giuridica dei diritti umani, sostiene che questo boom dell’odio nello sport e contro gli atleti dei Giochi è connesso con la pandemia. “La gente, in Giappone e in buona parte del mondo, vive da mesi reclusa in casa con l’incubo del Covid. Molti hanno perso il lavoro e non sanno come mantenere la famiglia. La salute mentale e nervosa dell’umanità sta rapidamente peggiorando. In Giappone poi si somma l’ostilità della maggioranza contro queste Olimpiadi, svolte nonostante la moltiplicazione dei contagi: gli atleti sono considerati colpevoli di non essersi rifiutati di competere per non mettere a rischio la vita dei propri connazionali”. I comitati olimpici di diversi Paesi si stanno così muovendo per offrire agli atleti del Villaggio una “difesa social” e il rimborso delle spese legali a chi decide di fare causa contro gli odiatori che vengono identificati. I giganti del web promettono di bandire chi “impugna i social come l’arma di un killer contro la bellezza dello sport olimpico”, di cui anche la sconfitta è ingrediente essenziale. Tra le misure allo studio, l’esclusione dall’e-commerce di chi diffonde ingiurie e minacce. Vittima della campagna che ha preso di mira Tokyo 2020 è anche la famiglia imperiale. L’imperatore Naruhito è stato attaccato a livello personale sui social per aver cambiato la formula pronunciata all’inaugurazione, evitando il sostantivo “festa” in piena emergenza Covid. Sono volati insulti pesanti. Risultato: alla cerimonia conclusiva, l’8 agosto, l’imperatore non parteciperà, come aveva fatto invece suo nonno Hirohito nel 1964. A chiudere i Giochi sarà il principe Akisinho, erede al trono. Certi dettagli silenziosi in Giappone sono più eloquenti delle parole.








Kiraly, il signore del volley che ha ridisegnato lo sport 
di Valentina Desalvo
(ansa)


Origini ungheresi, cresciuto a Santa Monica, da giocatore ha vinto due ori olimpici negli anni Ottanta, per poi conquistare il terzo oro nella prima edizione del bach volley ad Atlanta '96. Guida la squadra delle ragazze statunitensi che ai quarti sfida la Repubblica Dominicana. E ora punta al quarto oro

Tutto ciò che oltrepassa la rete si può prendere...”. Così Karch Kiraly è diventato la pallavolo. In uno sport dove spesso ci si innamora degli schiacciatori, il suo bagher e le sue difese erano più sexy di una diagonale nei tre metri. Oggi a 60 anni Karch Kiraly fa l’allenatore della nazionale femminile degli Stati Uniti, e continua a essere, anche in panchina, la pallavolo. Figlio di un immigrato ungherese (il cognome vuol dire “re”, forse una profezia, mentre il nome sta per Carlo), cresciuto a Santa Barbara, in California, diplomato a Ucla in biochimica, da sempre insieme a Janna con due figli Kristian e Kory, Kiraly ha reso semplice quello che per tutti era impossibile.
Più che il Micheal Jordan del volley, ha detto qualcuno, è stato come Steve Jobs: con la nazionale americana, all’inizio degli anni Ottanta, ha cambiato il gioco per sempre, partendo dal design della ricezione, diventata a due mentre tutti gli altri seguivano le rotazioni facendola a quattro. Due medaglie d’oro alle olimpiadi (1984 e 1988), un mondiale (1986), la forza di rovesciare il regno dei paesi dell’Est arrivando dal nulla e dalle spiagge americane.
Kiraly ha vinto tutto con la nazionale e con il club (quando Ravenna lo portò in Italia nel 1990 insieme a Steve Timmons conquistando scudetto, coppa campioni e campionato del mondo per club) ma sarebbe meglio dire il contrario: la nazionale e il club hanno vinto tutto con lui. Perché ha creato uno stile, la capacità di essere sempre dove serviva, senza sforzo, e di reggere da solo (in realtà c’era sempre un altro compagno) le battute degli avversari. Biondo, non altissimo (190 centimetri), ci ha fatto innamorare per la sua intelligenza sportiva, per la sua calma, per il suo rapporto privilegiato con la palla, ubbidiente e fedele, quando la chiamava lui.
Anche in attacco, dove poteva colpire con forza, ma anche indirizzare con dolcezza spiazzando gli avversari. Dopo le medaglie indoor, Kiraly ha deciso di vincere anche nel beach, diventando l’unico, con l’oro di Atalanta 1996 (prima edizione per questa disciplina), ad aver trionfato in palestra e in spiaggia. Tre ori olimpici in dodici anni. Per questo, insieme a Lorenzo Bernardi, è stato scelto come migliore del ventesimo secolo. Ha giocato a beach fino a 45 anni, battendo i ragazzi nei ricchi tornei del circuito, poi nel 2009 ha iniziato a fare l’allenatore. Nel 2014 con la nazionale femminile degli Usa ha vinto il mondiale e adesso, a Tokyo, prova a vincere l’olimpiade.
Prima nel girone dell’Italia, la nazionale di Kiraly giocherà i quarti con la Repubblica Domenicana, con la strada abbastanza spianata per la semifinale e per provare a vincere i giochi. La storia nella storia, perché per lui sarebbe la quarta volta. Come ha detto Bill Neville nello staff tecnico di Doug Beal nel 1984, «Karch è speciale, unico. A cominciare dal nome. Quanti Karch conoscete a parte lui?».


emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...