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8.8.21

storie olimpiche 8 ( fine ) olimpiadi vince l'oro a 14 anni per pagare le cure alla madre malata , "Finestre sigillate, poco cibo, solitudine": ecco il Covid Hotel degli atleti, dove muoiono i sogni olimpici e altre storie


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Una delle storie più belle di queste Olimpiadi, forse la più bella e commovente, arriva dai tuffi e da questa ragazza qui.Quan Hongchan è un’atleta cinese, una tuffatrice di 14 anni e 130 giorni. Poco più che una bambina.Due settimane fa è partita per Tokyo per coronare il sogno di partecipare alle Olimpiadi e un obiettivo molto piu intimo e personale: racimolare abbastanza soldi da poter pagare le cure della madre, malata. Quan Hongchan non si è limitata a partecipare. Non si è limitata neppure a vincere. Oggi è entrata nella Storia dello sport dalla porta principale portando a casa un clamoroso oro olimpico dalla piattaforma dei 10 metri con un puntegggio da record (466.20 punti totali) e addirittura tre tuffi semplicemente sublimi che hanno ottenuto 10 da tutti i giudici. La perfezione tecnica ed estetica. Mica male per una ragazza adolescente che si affacciava per la prima volta a una grande competizione internazionale e che era arrivata a Tokyo per un atto d’amore. Favole che solo le Olimpiadi sanno regalare.
Infatti secondo https://www.nextquotidiano.it/ eccetto il video

a favola di Quan Hongchan: va alle Olimpiadi per pagare le cure alla mamma e vince l’oro a 14 anni 

La giovanissima tuffatrice cinese ha vinto la finale di tuffi dalla piattaforma (10 metri). Uno dei suoi tuffi ha raccolto il punteggio massimo

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Quan Hongchan
Ogni atleta ha il suo sogno olimpico. In tanti, quasi tutti, gareggiano per tentare di vincere una medaglia per scrivere il proprio nome nella storia. Altri, invece, lo fanno perché il palcoscenico a Cinque Cerchi è quello che si sogna fin da bambini. A prescindere dal risultato finale. Poi c’è Quan Hongchan, partita dalla Cina in direzione Tokyo solamente per un motivo: cercare di pagare le cure alla mamma malata. Lei è giovanissima (14 anni e 130 giorni) e oggi è entrata nella storia dello sport. La gara era quella di tuffi femminili dalla piattaforma 10 metri. Partita in sordina, fuori dai radar delle favorite, la giovanissima atleta cinese ha sorpreso tutti. Con n punteggio da record (466.20 punti totali) – con uno dei tuffi che ha fatto l’en plein di 10 da parte dei giudici – la 14enne ha sbaragliato la concorrenza di tutte le sue “rivali” sportive partite con i favori dei pronostici. Una prestazione sublime che porta con sé un grande messaggio.Non solo per l’età. Quan Hongchan, infatti, si era aggregata alla compagine cinese. Ma era lontana dai riflettori, nonostante la grande tradizione della Cina nei tuffi (sia al maschile che al femminile, sia dal trampolino che dalla piattaforma). Lei era lì con un obiettivo che poco aveva a che vedere con le medaglie e il podio olimpico: tentare di ottenere il miglior risultato possibile per racimolare un po’ di soldi e pagare le cure alla mamma malata. Una spinta emotiva che l’ha guidata, leggiadra come una campionessa, fino all’oro olimpico.

 

Non male per una giovanissima atleta alla prima apparizione internazionale. Non male per un’adolescente salita su quella piattaforma senza pensare a una medaglia. Perché le storie olimpiche sono anche queste e possono trasformarsi in favole.

"Finestre sigillate, poco cibo, solitudine": ecco il Covid Hotel degli atleti, dove muoiono i sogni olimpici dal nostro inviato Fabio Tonacci





Cinque anni di allenamenti, la gara negata dalla positività, come è successo al canottiere Bruno Rosetti, si finisce a Koto city. E gli atleti protestano per le pessime condizioni in cui sono costretti durante l'isolamento


TOKYO - Una macchia arancione appare dietro l'unica finestra semi-aperta. A occhio, è uno del team olandese. Il ragazzo si sporge per respirare la brezza di Tokyo, e non si può dire che sia una boccata di aria fresca: già a metà mattina in città si superano i 33 gradi. La finestra è al terzo di dodici piani di cemento, vetro e piastrelle. Un parallelepipedo rovente e sigillato che affaccia sul canale del Sumida, uno dei tre fiumi che sfociano nella baia. Sulla facciata, in alto, l'insegna recita: "Day Nice Hotel". Siamo a Koto City, a venti minuti di macchina dal Villaggio Olimpico. Qui vengono rinchiusi gli atleti trovati positivi al tampone, come il canottiere italiano Bruno Rosetti. Soggiorno gratis e forzato al Covid hotel. Su ordine delle autorità sanitarie giapponesi, devono rimanere in quarantena una decina di giorni, anche di più se non si negativizzano. Sono arrivati fino a Tokyo dopo cinque anni di allenamenti, ma le Olimpiadi le guardano sul tablet.
La macchia arancione sta parlando al telefono. Ci vede e ne approfittiamo. "Come stiamo?", risponde con quel poco di inglese che mastica. "Male. Stanze piccole, le finestre sono bloccate, il cibo fa schifo e ci sentiamo abbandonati". Un mezzo sorriso di sarcasmo. Poi con le braccia mima il gesto delle manette. "Tra poco esco, sono stanco di sentire l'altoparlante che alle sette di mattina ci sveglia per ricordarci di sputare nella provetta". Il Nice Day hotel è un albergo a tre stelle chiuso da settimane. Il Cio e il Comitato Tokyo 2020 non forniscono dettagli sulla sua ubicazione, e adesso si capisce perché. All'ingresso un poliziotto controlla che nessuno esca e nessuno entri. La porta girevole non gira. All'esterno ci sono tavolini messi uno sopra l'altro. In fondo al marciapiede che conduce sul retro, una tenda bianca per la raccolta dei campioni salivari e due giapponesi che siedono in silenzio.






Cronache dalla quarantena. Il ciclista tedesco Simon Geschke su Instagram ha documentato la sua settimana e mezzo dentro. Giorno 3: "Ci è proibito far arrivare cibo da fuori chiamando i rider. Per colazione mi hanno dato pane secco, devo ringraziare un egiziano che mi ha portato della marmellata". Giorno 4: "Non esiste servizio lavanderia, lavo la biancheria nel lavandino. La finestra non si apre, asciugherò magliette e mutande col phon". Giorno 5: "Buongiorno dall'atrio, l'unico posto che posso vedere oltre la mia stanza. Preleviamo qui il cibo in tre momenti della giornata. Dietro una vetrata c'è un'infermiera con cui possiamo parlare". Giorno 7: "E' la prima volta che perdo peso dopo il Tour the France". Mostra il vassoio del pasto: due cartoni di riso appiccicaticcio e delle verdure lesse. Giorno 8: "La colazione sta migliorando, c'è più frutta oggi. Ma non abbiamo coltelli. Taglierò il pompelmo con la limetta per le unghie". Unico sollievo all'inerzia: nella camera, dove sono sistemati il letto e la scrivania, ha potuto mettere la bicicletta e può allenarsi pedalando a vuoto.
Athleten Deutschland, la federazione tedesca, attacca duramente il Cio. "I nostri atleti denunciano la mancanza di un ricircolo sufficiente d'aria, descrivono condizioni da prigione e si lamentano che il cibo non offre gli apporti nutrizionali necessari per chi gareggia". I medici interni, stando ai loro racconti, non parlano l'inglese. Lo skateboarder olandese Randy Jacobs è arrivato ad usare il termine "inumane" per descrivere le condizioni vissute al Covid hotel.
Il Nice Day è stato scelto per l'isolamento di atleti e allenatori ed è gestito dal Comitato Tokyo 2020. Sono una trentina quelli fermati prima di competere, su un totale di 358 positività riscontrate all'interno del perimetro olimpico: oltre a Jacobs e Geschke, la pallavolista ceca Marketa Nausch-Slukova, due tennisti olandesi, la karateka russa Anna Chernysheva, la cilena del Taekwondo Fernanda Aguirre, mezza squadra greca del nuoto sincronizzato e altri. Il Cio, per i contagio del team greco, è stato costretto ad uscire allo scoperto e a chiamare le cose per quello che sono. "E' il primo cluster dei Giochi". Non si sa dietro quale finestra chiusa sia la stanza di Rosetti, che ha saputo di essere positivo la mattina del 28 luglio nell'imminenza della finale del quattro senza. Il Coni e la Federazione di canottaggio si limitano a riferire che il 33 enne sta bene e non ha sintomi. Dovrebbe uscire tra qualche giorno.
Questo non è l'unico Covid hotel olimpico. Ce n'è un altro a Chuo City, molto più lontano e piccolo. E' riservato al personale delle federazioni internazionali. E' gestito direttamente dal governo giapponese. Le condizioni, dicono, sono anche peggiori



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Lotta, la rabbia di Chamizo: "Il destino ce l'ha con me"

dal nostro inviato Cosimo Cito07 Agosto 2021






Lotta, Conyedo medaglia di bronzo. L'Italia tocca quota 39
dal nostro inviato Cosimo CitoAbraham Conyedo esulta per il bronzo (afp)

L'azzurro sale sul podio nella libera, categoria fino a 97 kg. Battuto in finale il turco Karadeniz per 6-2. "Questa medaglia è la vita per me, ha vinto chi lo desiderava di più"
TOKYO. Arriva dalla lotta libera la 39ª medaglia azzurra ai Giochi di Tokyo. Abraham Conyedo ha avuto la meglio sul turco Karadeniz nella finale per il bronzo nei 97 kg. L'italo-cubano, 27 anni, si è imposto con il punteggio di 6-2: dopo essere stato a lungo in svantaggio, Conyedo ha trovato nei 30" finali la forza per capovolgere il risultato. Decisiva anche la chiamata di un challenge dalla squadra turca, rifiutato però dal collegio arbitrale, con conseguente punto della sicurezza per l'azzurro. La lotta è il 16° sport a salire sul podio ai Tokyo per la spedizione italiana. E per la libera si tratta del terza medaglia di sempre dopo l'oro di Claudio Pollio a Mosca 1980 e il bronzo di Frank Chamizo a Rio 2016. Conyedo proveniva dal tabellone dei ripescati e oggi aveva battuto, prima del turco, anche il canadese Steen. "Questa medaglia significa tutto per me, è la mia vita, ciò per cui ho lavorato negli ultimi cinque anni": è il commento dell'azzurro, "la prima dedica che voglio fare è per il mio allenatore, che per me è come un padre. Il turco Karadeniz lo avevo già affron.tato e per batterlo ho dovuto cambiare strategia e fare un lavoro molto intenso. Alla fine ha vinto chi lo desiderava di più".
Nato a Santa Clara, giunto nel nostro paese nel 2017 con un buon curriculum alle spalle (argento ai Giochi olimpici giovanili nel 2010 e ai Panamericani nel 2015), Conyedo ha ricevuto la cittadinanza italiana "per meriti speciali" nel 2019 dal Ministero dell'Interno grazie ai risultati sportivi ottenuti. In azzurro ha vinto un un bronzo mondiale (2018) e uno europeo (2019). Solo il 6 maggio scorso aveva ottenuto la qualificazione per i Giochi attraverso il torneo Preolimpico di Sofia. Diplomato in educazione fisica presso l'Università dello sport dell'Avana, ha una compagna italiana, Tiziana, è inserito nel gruppo sportivo dell'Esercito, si allena nel centro federale Fijlkam di Ostia con il coach Pietro Piscitelli. La sua medaglia compensa la delusione per il mancato podio di Frank Chamizo, del quale è amico fraterno, nei 74 kg.




Giappone, scuse pubbliche per chi arriva secondo. Ma cresce il fronte del no: "Troppo stress"dal nostro inviato Giampaolo VisettiKiyou Shimizu, argento nel karate (afp)
È tradizione culturale nel paese del Sol Levante scusarsi per aver fallito. Ogni giorno Tokyo si sveglia con trionfi e ammissioni di colpa. Ora c'è chi dice stop: "Ci siamo allenati duramente, non ci si può accusare di tradimento della patria"


TOKYO - "Non sono riuscita a rispondere alle attese del mio Paese e a ripagare i tanti connazionali che hanno fatto sacrifici per organizzare questi Giochi in un momento così difficile. Per questo chiedo scusa a tutti". Kiyou Shimizu aveva ancora la medaglia d'argento al collo quando in diretta tivù ha pregato i giapponesi di perdonarla per non aver trionfato nel karate kata, perdendo l'ultima sfida per l'oro contro la spagnola Sanchez. Tokyo 2020 ha segnato il debutto del karate alle Olimpiadi, proprio nella culla di una tra le più antiche arti marziali, nata sull'isola di Okinawa quasi otto secoli fa. Fuori dal Giappone l'incrocio di opportunità non basta però a spiegare l'urgenza di comprensione collettiva e la sistematicità dei mea culpa pubblici che accomuna gli atleti di casa che non salgono sul gradino più alto del podio.
Per gli stranieri vincere una medaglia alle Olimpiadi è comunque un sogno. Già qualificarsi per la finale, o conseguire un buon risultato, sono gli obbiettivi di una carriera sportiva. Per i giapponesi no: se vinci devi ringraziare, se non ci riesci ti devi scusare. Mai come in questa edizione. "Non ho il coraggio di prendere in mano il telefono - ha detto Kenichiro Fumita, argento nella lotta greco-romana - non so cosa dire a mio padre. Spero solo che lui e la nazione accettino le mie scuse". Il paradosso è che mai nella storia delle Olimpiadi il Giappone ha vinto tante medaglie come quest'anno. Alla vigilia della cerimonia conclusiva, la nazionale ospitante ne ha già conquistate 52: 24 d'oro, 12 d'argento e 16 di bronzo. Battuto il record di 38 medaglie, di cui solo 7 d'oro, stabilito nel 2016 a Rio de Janeiro.
Nel medagliere il Giappone è terzo alle spalle di Cina e Usa, le due superpotenze sia dello sport e che del pianeta. I successi hanno via via ridotto l'ostilità popolare contro i Giochi: rinviati di un anno, tenuti nonostante il riesplodere della pandemia nel Paese e svolti infine a porte chiuse. Non bastano però per sollevare gli atleti giapponesi dall'obbligo di pubbliche scuse, spesso in lacrime, ogni volta che mancano la vittoria assoluta. "Per rendere orgogliosa la gente - ha detto piangendo il climber Tomoa Narasaki, rimasto ai piedi del podio finale - ho rinunciato a tutto, ma non è bastato. Conquistare una medaglia d'oro era un mio dovere: chiedo scusa per questo fallimento".
La cultura occidentale tende a trovare anche nella sconfitta le ragioni di una grandezza. Quella dell'Estremo Oriente insegna invece che perdere significa non aver fatto il necessario per vincere e che tale mancanza impone una piena assunzione di responsabilità. Scusarsi davanti a tutti in Giappone fa parte di educazione e convenzione sociale. Lo fa chi entra in casa d'altri, il taxista che resta imbottigliato nel traffico, il manager che non soddisfa le attese degli azionisti, il politico travolto da uno scandalo, il dipendente che va in ferie, il conducente del treno che arriva con pochi secondi di ritardo. "La richiesta del perdono - spiega la psicologa Shirobu Kitayama - è prevista anche dal cristianesimo, ma in Giappone è rivolta alla società, non alla divinità. Mira ad attenuare le conseguenze di un errore, a dimostrare umiltà e rispetto nei confronti di chi si ritiene di aver deluso, o fatto soffrire".
Alle Olimpiadi di Tokyo per gli atleti di casa tale dovere è moltiplicato dalla pressione popolare che circonda l'evento, dai costi pubblici sostenuti per svolgerlo, dalla depressione indotta dal Covid e dal bisogno politico del governo di trionfi sportivi per risalire nei sondaggi in vista delle elezioni di fine settembre. Perfino la campionessa-star del tennis Naomi Osaka, a cui è stato riservato l'onore di accendere il braciere olimpico nel Nuovo stadio nazionale, non avendo centrato la finale è stata costretta a scuse social "per non essere riuscita a soddisfare le attese di tutti". Proprio i social sono tra le cause dell'escalation di richieste di comprensione che partono dal Villaggio olimpico. Decine di atleti, dopo aver mancato la vittoria, hanno denunciato minacce, insulti e aggressioni in Rete. Chi non ha provveduto a postare subito le proprie scuse sul web è stato subissato dalle accuse di "egoismo, menefreghismo e superbia". Tra questi anche Shochiro Mukai, argento nel judo a squadre. "Sì - ha dovuto infine ammettere - potevo resistere di più e non deludere i miei compagni, privandoli della gioia di vincere". Il capo dell'Unione degli atleti giapponesi, Takuya Yamazaki, ha spiegato che nel Paese "non si compete per se stessi, ma per rendere onore alla nazione". Da bambini si comincia a fare sport a livello agonistico non per divertimento, ma per essere all'altezza delle attese dei genitori, degli adulti, di insegnati e allenatori. L'obbiettivo, come nella vita di ogni giorno è "non perdere la faccia" risultando sconfitti. Scuse pubbliche esprimono allo stesso tempo rimpianto, umiltà, paura, riconoscenza, responsabilità, dispiacere e gratitudine per la comprensione altrui.
"Volevamo vincere a tutti i costi - ha detto il calciatore Yuki Soma dopo la sconfitta ai supplementari contro la Spagna - per rendere felici i giapponesi che causa Covid non hanno potuto sostenerci dal vivo nello stadio. Chiediamo scusa per non aver contribuito a dare forza ed energia al Paese". Mai come oggi il Giappone olimpico si sveglia ogni mattina carico di trionfi e allo stesso tempi di ammissioni di colpa. Il contrasto tra realtà sportiva e convenzioni sociali è tale che i media cominciano a chiedersi se non sia arrivato il momento di "attenuare lo stress che nella nazione pesa su ogni individuo dal giorno della nascita", considerato tra le cause del primato mondiale di suicidi. "Giusto aprire un dibattito sincero - ha detto al New York Times l'ex maratoneta Yoko Arimori, argento e bronzo ai Giochi di Atlanta e di Barcellona, processato pubblicamente per essersi dichiarato fiero di sé - sull'enigma della nostra identità. Ma restando allo sport e alle Olimpiadi, se un atleta si è allenamento duramente e in gara ha dato tutto, oggi non può più essere moralmente obbligato a scusarsi di un secondo posto per sottrarsi all'accusa ipocrita di tradimento della patria".

Tokyo 2020, i record di età dei medagliati: ecco la più giovane e il più anziano a salire sul podio


di Francesco Cofano

In questa edizione delle Olimpiadi sono stati riscritti primati di precocità e anzianità che resistevano da decenni. 

A 12 anni la giapponese Kokona Hiraki ha vinto la medaglia d’argento nello skateboard, sport al debutto assoluto ai Giochi, diventando la più giovane a vincere una medaglia da 73 anni. Il più anziano è invece il cavaliere australiano Andrew James Hoy, che a 62 anni si toglie la soddisfazione di vincere un argento e un bronzo alla sua ottava Olimpiade. Per quanto riguarda l’Italia, invece, tra il più giovane e il più anziano ci sono 23 anni di differenza. Ecco chi sono.





Naifonov, il bronzo del bambino di Beslan



Artur Naifonov (reuters)

Il ventiquattrenne russo, terzo nella lotta libera 86 kg, è uno degli oltre 700 bambini sequestrati diciassette anni fa durante l'assedio della scuola nell'Ossezia Settentrionale, la repubblica autonoma nella regione del Caucaso
Il ventiquattrenne russo Artur Naifonov, tre volte campione europeo e bronzo nella lotta libera 86 kg ai Giochi di Tokyo, è uno degli oltre 700 bambini sequestrati diciassette anni fa durante l’assedio della scuola numero 1 di Beslan, nell’Ossezia Settentrionale, repubblica autonoma nella regione del Caucaso. Lo riferisce il sito della Bild.
Tra il 1° e il 3 settembre 2004, 36 fondamentalisti islamici e separatisti ceceni occuparono l’edificio, sequestrando oltre 1200 persone. Quando intervennero le forze speciali russe, i terroristi uccisero 331 ostaggi, compresi 186 bambini, e ne ferirono 750.
In quell’occasione la mamma di Naifonov perse la vita per cercare di salvare il figlio. La vicenda coinvolge anche un altro lottatore presente ai Giochi: il connazionale Zaurbek Sidakov, oro nella categoria 74 kg ed ex compagno di classe di Naifonov, che per sua fortuna quel giorno non era a scuola. “In quel momento mi sono detto: se mai dovessi ottenere una grande vittoria, la dedicherò a tutti coloro che hanno sofferto a Beslan”, ha dichiarato alla testata Meduza il neocampione olimpico.

7.8.21

storie olimpiche parte 7 La classe operaia va alle Olimpiadi, L'arbitra italiana della lotta che gli iraniani non volevano: "Mi dicevano: sei una donna" , e altre storie





Favola Yassine, il metalmeccanico cerca gloria nella maratonadal nostro inviato Ettore Livini


Originario del Marocco, 39 anni, lavora ancora in fabbrica - la Fornovo Gas di Traversetolo - e a forza di allenamenti in pausa pranzo "in tuta da lavoro perché i miei colleghi non se ne accorgessero" è arrivato di corsa in Giappone
              
                     06 AGOSTO 2021 



La classe operaia va alle Olimpiadi. E cala il jolly del maratoneta per caso - il metalmeccanico (in aspettativa) Yassine el Fathaoui - per lanciare la sfida a Eliud Kipchoge & C. sui 42 chilometri della gara simbolo dei Giochi. Il 39enne originario del Marocco diventato italiano nel 2013 ("dopo 15 anni di contributi versati e dieci di residenza", ripete sempre orgoglioso lui) è il marziano - e la variabile impazzita - della spedizione azzurra a Sapporo. A 24 anni lavorava in una fabbrica di macchine per imbottigliamento, giochicchiava a calcio nella squadra del paese e non aveva mai corso nemmeno una non-competitiva di quartiere. Oggi lavora ancora in fabbrica - la Fornovo Gas di Traversetolo - e a forza di allenamenti in pausa pranzo "in tuta da lavoro perché i miei colleghi non se ne accorgessero" è arrivato di corsa in Giappone. Con un primato personale - 2h10'10 a Siviglia nel 2020 - che per il suo allenatore Giorgio Reggiani "è il vero record mondiale di maratona" e con intenzioni tutt'altro che decoubertiniane: "Arrivare nei primi dieci ed essere il primo degli italiani", predica da mesi con forte accento di Parma.
Il sogno olimpico di el Fathaoui inizia da zero nel 2006: "Eravamo colleghi - racconta Luca Bragazzi, corridore amatoriale del Traversetolo running club e suo "scopritore" - . Lui giocava a calcio a Bazzano. Non un granché con i piedi, mi raccontava il suo allenatore, ma un fiato pazzesco". El Fathaoui aveva 24 anni. Troppo vecchio - dicono i manuali - per sfondare nel pallone e in qualsiasi sport. "Una domenica però - racconta Bragazzi - a furia di insistere sono riuscito a convincerlo a fare con me e mia moglie il "giro della chiesa"". Dieci chilometri, un classico dei podisti da week-end della zona. Risultato: "Alla fine noi eravamo morti e lui giocava con i sassi senza un filo di fiatone".
Sapporo e i Giochi sono ancora lontani. Yassine si fa convincere da Luca a partecipare a qualche campestre "attirato più che altro dalle forme di parmigiano che davano come premio", ride Bragazzi. L'esordio alla prima non-competitiva non è un granché, - "sono arrivato nei primi cento", è il ricordo di Yassine - ma una gara alla volta la passione per la corsa gli entra nel sangue. Nel 2011, convinto dai suoi compagni di allenamento del Cus Parma, si iscrive alla Collermar-athon di Fano, 42 chilometri di saliscendi dai colli al mare. Per lui è divertimento puro Si accoda in partenza al gruppetto di Giorgio Calacaterra, il re delle ultramaratone italiane, tanto per vedere che effetto che fa. A sorpresa tiene il ritmo. Anzi, al trentesimo km. scatta, saluta la compagnia e va a chiudere a 2h29'.
El Fathaoui ha 29 anni. Troppi, dicono tutte le persone di buon senso, per pensare a un futuro nella maratona. Nel caso ci fossero dei dubbi, due infortuni lo inchiodano ai box per due anni. "Ma io sono un metalmeccanico che si impegna e dà credito alle sue possibilità" è il suo mantra. Si cura, si allena con la solita routine: otto ore in fabbrica alla Fornovo gas - "dove è uno dei migliori operai che abbiamo", come ha riconosciuto Ferdinando Bauzone, titolare dell'impresa - qualche allenamento in pausa pranzo ("una volta con gli scarponi da lavoro perché mi ero dimenticato le scarpette da corsa!") e altre due ore di pratica la sera dopo aver timbrato il cartellino.
Gli anni avanzano ma i tempi continuano a migliorare. Fino alla svolta, il 21 settembre 2019, alla Maratona di Berlino. "Mi sono iscritto perché ci andavano i miei amici", minimizza lui, reduce da due settimane di ferie rubate alla famiglia (moglie e figlia) per un ritiro in altura a Predazzo. Sarà. Parte, si sente bene. A un certo punto guarda il cronometro della macchina apripista che mostra la proiezione del tempi finale: 2 ore e 9 minuti. "Un po' mi vergognavo di stare lì", ha raccontato. Ma c'è. Tempo finale 2.11'08. Minimo olimpico.
Che fare? L'operaio El Fathaoui è preoccupato. I Giochi sono un sogno. Ma per Tokyo bisogna allenarsi. "Lui è un gran faticatore e non si tira mai indietro", dice Bragazzi. Ma per allenarsi serve tempo. E lui non può permettersi di perdere lo stipendio. Per fortuna la Fornovo gas è una famiglia: "L'ho visto allenarsi in ogni stagione e con qualsiasi tempo e non ha mai lasciato niente indietro sul lavoro", dice Bauzone. Detto, fatto. Arriva l'aspettativa. Sei mesi che ormai, complici pandemia e rinvio delle Olimpiadi, sono diventati due anni. "Ma non c'è problema. Quando avrà finito tornerà a lavorare - gli ha garantito Bauzone -. E' un onore aiutarlo. Lui rappresenta i nostri sogni che si realizzano". E' vero. E dopodomani, comunque vada El Fathaoui a Sapporo, sarà un successo. Poi il maratoneta per caso tornerà a lavorare in fabbrica.

Olimpiadi, pentathlon femminile, l’allenatrice tedesca picchia il cavallo che non salta: espulsa dai Giochi

di Flavio Vanetti

Anche in Germania, dove è molto alta la sensibilità nei confronti degli animali, è scoppiato un pandemonio

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Tu non salti? E io ti picchio. E’ scoppiato un caso nel pentathlon moderno e a farci le spese è stata l’allenatrice tedesca Kim Raisner, ex campionessa del mondo e d’Europa: ha percosso un cavallo, nella prova olimpica del 6 agosto, e ha invitato la sua cavallerizza impegnata in gara a fare altrettanto. Così è stata espulsa con effetto immediato dai Giochi e non ha potuto svolgere le sue funzioni nella competizione maschile: appena arrivata al Tokyo Olympics, lo stadio olimpico di Komazawa che fu il fulcro dei Giochi del 1964, alla Raisner è stato notificato che «era fuori», come avrebbe detto Donald Trump nel reality show «The Apprentice».
La fregatura della 48enne ex campionessa è stata anche che, in uno stadio senza spettatori, si sente tutto: quindi le sue urla e i suoi isterici incitamenti sono stati ben uditi in Tv; e in Germania, dove è molto alta la sensibilità nei confronti degli animali, è scoppiato un pandemonio. Sono fioccate le telefonate di protesta e l’’Uipm, la federazione internazionale di questa disciplina, ha dovuto prendere provvedimenti. La vicenda si lega anche al regolamento olimpico del pentathlon moderno: i concorrenti nella fase di salto non usano il proprio cavallo, quello con cui si allenano, ma ne devono montare uno estratto a sorte. Ciascun cavallerizzo ha a disposizione 20 minuti per prendere confidenza con l’animale e fare riscaldamento. Annika Schleu, l’allieva della Raisner, aveva avuto in sorte Saint Boy. Ma fin dall’inizio si è capito che il cavallo non era docile e che si comportava male, soprattutto quando si trattava di saltare. La Schleu stava andando bene ed era nelle prime posizioni. Ma domare Saint Boy stava diventando sempre più improbo: a ogni salto mancato aumentavano il suo nervosismo e la sua frustrazione. Non ce l’ha fatta più: lacrime di disperazione sul suo volto e un urlo disperato riecheggiato nello stadio vuoto. E’ a quel punto che l’allenatrice è intervenuta picchiando l’animale su una gamba posteriore e invitando la Schleu a farlo a sua volta senza esitazione. «Colpiscilo, colpiscilo: ma fallo per davvero» le ha gridato. Il suggerimento non è servito a nulla sul piano concreto: la Schleu ha visto solo aumentare il suo disagio, Saint Boy si è innervosito ancora di più e l’allenatrice ha rimediato il cartellino nero.Per la cronaca, una situazione analoga l’hanno vissuta altre due concorrenti, l’ungherese Michelle Gulyas e l’irlandese Natalya Coyle. Ma entrambe si sono ben guardate di imitare i tedeschi. Il capo squadra della Germania ai Giochi, Alfons Hoermann, ha ufficializzato che la Kaisner era stata cacciata e che non aveva diritto ad alcuna giustificazione: «Siamo stati tutti d’accordo sulla sua esclusione, certe cose non devono verificarsi». Non tutto il male viene però per nuocere. Questa vicenda, infatti, servirà a cambiare qualcosa. Proprio Hoermann ha infatti invitato l’Uipm a rivedere l’incidente e a trarre conclusioni «nell’ottica di migliorare le competizioni di pentathlon: bisogna tutelare di sicuro il benessere dei cavalli, ma anche fare in modo che gli atleti possano competere in modo equo».



unione  sarda 

Le calciatrici Usa terze a Tokyo. Trump: “Perché sono maniache di sinistra”

L'ex presidente attacca la nazionale, “colpevole” di tante battaglie sociali

                                                                  Megan Rapinoe 

Le calciatrici Usa terze a Tokyo. Trump: ““Maniache della sinistra radicale" L'ex presidente attacca la nazionale, “colpevole” di tante battaglie sociali Donald Trump attacca la nazionale di calcio femminile degli Stati Uniti arrivata “solo” terza alle Olimpiadi di Tokyo.L'ex presidente americano ha una sua teoria personale sul perché del gradino più basso del podio di una squadra che a lungo ha dominato la scena mondiale del calcio femminile. Le ragazze della nazionale, secondo lui, se non fossero così impegnate socialmente avrebbero ottenuto risultati migliori.Megan Rapinoe e compagne si sono sempre battute contro le ingiustizie sociali e le discriminazioni salariali tra uomini e donne, anche nello sport. "Questo porta ad essere destinate a perdere, ad essere perdenti" , incalza Trump.Nel 2019 la squadra campione del mondo si rifiutò di accettare il suo invito alla Casa Bianca.

L'arbitra italiana della lotta che gli iraniani non volevano: "Mi dicevano: sei una donna"dal nostro inviato Mattia Chiusano
Edit Dozsa (foto Emanuele Di Feliciantonio)

 
Nel torneo olimpico una direttice di gara internazionale, Edit Dozsa, di origine ungherese, genovese di adozione ed ex suocera di Chamizo: "Ho avuto problemi in passato, ma ora anche gli atleti di paesi islamici mi rispettano, hanno capito che sono qui per aiutarli. Nonostante le direttive del Cio questo resta uno sport maschilista, siamo solo 4 arbitri donna su 43”


06 AGOSTO 2021 



TOKYO - Nei tornei di lotta che si stanno disputando in questi giorni alla Makuhari Messe, anche in quelli in cui l'Italia non si è qualificata, l'Italia c'è. Nel centro dell'azione, a un passo dal tappeto dove si scaricano trazioni spaventose sui corpi di lottatori e lottatrici. Arbitrati con piglio deciso da una signora che si chiama Edit Dozsa, nata ungherese ma padrona ormai di una cadenza ligure da far invidia a un genovese. Ma niente a che vedere con le donne arbitro del calcio: in passato c'è chi Edit non la voleva. Non perché fosse incapace, anzi: ma perché è una donna.

Uno degli incontri arbitrati da Edit Dozsa a Tokyo: la tunisina Zaineb Sghaier contro la turca Yasemin Adar (reuters)



Cosa la ha portata da Budapest all'Italia, e da Genova a Tokyo?
"E ancora prima, ad arbitrare alle Olimpiadi di Pechino 2008 e a essere istruttrice arbitrale a Rio 2016? È stato mio marito Lucio Caneva, che portò i ragazzi che allenava in Ungheria dove io ero un'atleta. Un amore nato grazie alla lotta. Abbiamo due figli, entrambi lottatori: Aron e Dalma, che è stata a un passo dalla qualificazione a Tokyo. Io ormai mi sento ligure, e per il mondo della lotta sono italiana".
Un mondo difficile per una donna?
"E' uno sport ancora maschilista, purtroppo, nonostante le direttive del Cio. Alle Olimpiadi siamo in quattro su un totale di 43 arbitri, invece ci vorrebbe almeno il 30 % di presenza femminile. Qui il gender balance sono solo parole, sono arrabbiata".
In passato ha vissuto anche di peggio, sembra.
"Sono stata anche rifiutata. Ricordo un torneo internazionale a Sassari: dovevo arbitrare un iraniano, l'ho invitato sul tappeto ma lui non si muoveva, non capivo. Ha cominciato a puntare il dito contro di me, voleva il cambio di arbitro perché con una donna lui non avrebbe lottato. Coi colleghi siamo arrivati alla stessa conclusione, e l'abbiamo squalificato".
Si sono ripetuti episodi del genere?
"Sempre Sassari, un paio d'anni fa, sempre un iraniano. In un torneo della federazione mondiale invitiamo gli atleti a presentarsi bene sul podio, con la divisa ufficiale della federazione. Lo faccio presente a un atleta, che ribatte dicendo "siete donne, cosa volete da me?". A quel punto chiamiamo gli allenatori, comincia una discussione che va avanti per 35-40 minuti e anche questa termina con la squalifica. Quel ragazzo non si è più rivisto".
Com'è la situazione oggi con atleti di paesi in cui le donne non godono degli stessi diritti degli uomini?
"Cambiano le generazioni, cambia la mentalità. Lottatori di paesi islamici, Iran compreso, ci accettano di più. Dipende anche dagli atteggiamenti delle federazioni, degli allenatori, quel che succede poi sul tappeto. Diciamo che gli atleti ora ci rispettano".
Come ha fatto?
"Dopo tanti anni mi riconoscono, e capiscono che io sono lì per loro, a disposizione per aiutarli. Sono stata un'atleta, so cosa significa il momento che stanno vivendo. Qualcuno finisce pure per ringraziarmi".

Edit Dozsa con la figlia Dalma Caneva argento europeo (foto Emanuele Di Feliciantonio)

Voi Caneva siete la famiglia della lotta italiana: al punto che sua figlia Dalma sposò Frank Chamizo, che visse a lungo a casa vostra a Genova.
"Anche ora che si sono separati, Frank fa parte della nostra famiglia. Come non volergli bene? Erano così giovani lui e Dalma quando si sono incontrati, ognuno è cresciuto grazie a quell'incontro. Per me lui è come se fosse un figlio"









La lezione di April, talento e voglia di soffrire: ecco l'oro a 39 annidi Valentina DesalvoApril Ross (ansa)

Già bronzo e poi argento, la campionessa americana sale sul gradino più alto del podio del beach volley insieme alla compagna Alix Klineman: "Se penso a quello che abbiamo fatto mi sembra una follia e invece è successo"


Aveva trovato un lavoro: poteva fare la hostess e lasciare la pallavolo. "Mi faceva male la spalla, le ginocchia non reggevano, stavo programmando una vita altrove". Poi le compagne dell'University of Southern California la convinsero a provare con il beach. April Ross non amava il beach e soprattutto si sentiva molto scarsa, ma si fece convincere, decise di iniziare e nel 2006, a 24 anni, debuttò nei circuiti ufficiali, ad Acapulco.
Oggi, a 39 anni, ha vinto l'oro a Tokyo insieme a Alix Klineman, una coppia chiamata "team degli abbracci" per la frequenza con cui si scambia gesti d'affetto. Hanno battuto 2-0 le australiane in finale e per April, la più vecchia giocatrice a vincere ai Giochi nel beach, è la terza medaglia olimpica, la più bella. Nel 2021 a Londra aveva vinto l'argento con Jen Kessy, nel 2016 a Rio il bronzo con Kerri Walsh Jennings e adesso l'oro.
Grazie al beach ha guadagnato 3 milioni di dollari tra sponsor e premi, si diverte su instagram (ha 180 mila followers), ama lo yoga e con Alix è diventata una bambola fatta dall'American Girl Brand. "Se penso a quello che abbiamo fatto mi sembra una follia e invece è successo", ha detto alla fine abbracciata ad Alix e alla bandiera Usa. In attesa della finale femminile di volley e del basket, il dream team sono loro.

«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

  corriere  della sera   tramite  msn.it  \  bing    Rahma Nur insegna italiano, storia e inglese alla scuola elementare Fabrizio De André d...