da http://www.repubblica.it/topics/news/matteo_ferroni-94855388/
Matteo Ferroni
Architetto, nato a Perugia nel 1973 e laureato all'Università della Svizzera Italiana, premiato dalla Città di Barcellona con una menzione d'onore al City to City Award. Nel 2004 viene chiamato da Luca Ronconi per trasformare un'azienda agricola abbandonata nel Centro Teatrale Santacristina e parallelamente entra nel mondo della video arte con un opera esposta al Museo di Valls (Catalogna) e con performance live con Ludovico Einaudi. Due progetti recenti in cui esplora gli aspetti antropologici della luce nel Mali rurale e Città del Messico gli valgono l'attenzione internazionale per il modo nuovo di concepire tecnologia e cultura.
Prima uno studio sulle comunità rurali del Mali e sull'importanza della notte nella loro vita quotidiana. Poi la prototipazione di una lampada a basso costo e facile da produrre. E così la luce collettiva torna a dare speranza (e posti di lavoro) ai villaggi. Al 'Next' l'architetto perugino Matteo Ferroni, papà del progetto 'Foroba Yelen'
di GIAMPAOLO COLLETTI
@gpcolletti
17 settembre 2014
di GIAMPAOLO COLLETTI
@gpcolletti
17 settembre 2014
C'è una comunità in Mali che è tornata a vedere di notte grazie anche all'intuizione di un brillante architetto italiano. Così Matteo Ferroni, nato a Perugia e premiato dalla Città di Barcellona con una menzione d'onore al 'City to City Award', ha ridato la luce agli abitanti rispettando il contesto geografico, risparmiando energia e mantenendo inalterato il senso del tempo e dello spazio.
'Foroba Yelen' significa 'luce collettivà ed è la soluzione che sta migliorando la vita degli abitanti dei villaggi rurali del Mali. Si tratta di una lampada da strada portatile che illumina le attività piuttosto che gli spazi. Perché in Mali a causa del caldo che raggiunge livelli molto alti la vita scorre soprattutto di sera e per terra.
Produzione in loco, grazie alla fusione di parti di vecchie biciclette e lattine che vengono plasmate per diventare la testa della lampada. La lampada utilizza l'energia solare e dispone di batterie che possono essere ricaricate nelle stazioni distribuite lungo il territorio. E poi è mobile, trasportabile con facilità anche dalle donne, in modo da dare a chiunque la possibilità di usufruire della luce artificiale.
Per Ferroni, papà del progetto 'Foroba Yelen', è possibile conciliare tecnologia e presenza umana. "Occorre però privilegiare i valori culturali. In questo progetto ho considerato la luce come un fenomeno culturale invece che una sfida tecnologica. Cioè il mio obiettivo non era di portare la tecnologia LED nei villaggi, ma di trasformare l'ombra dell'albero in luce. Le conseguenze sono potenzialmente enormi: invece di installare 40 lampioni in ognuno dei 20.000 villaggi del Mali, basterebbero 4 lampioncini mobili in ogni villaggio", racconta Ferroni, che da questa esperienza ha avviato una ricerca appassionante su etnografia e design.
Energia elettrica fai-da-te, ma non solo. Quali modelli emergenti sta vedendo prevalere nel mondo dell'architettura?
"Mi pare che i giovani architetti stiano cercando nuovi modi di interagire con la città. Riconoscono l'importanza della cittadinanza attiva ed intraprendono esperienze in cui l'architettura è frutto di un processo controllato invece che di un disegno libero. In un certo senso sta emergendo un nuovo modello di architetto più che un nuovo modello di architettura".
E lei personalmente a quali stili guarda con maggiore attenzione?
"Io credo che l'architetto debba cercare di elevare il proprio spirito e chiedersi a cosa serva l'architettura. Per questo guardo con ammirazione l'opera dei maestri del '900 che conoscevano il mestiere e la vita. Nell'Expo del 1937 Josep Luis Sert realizzò il padiglione della Repubblica Spagnola in piena guerra civile presentando la Guernica di Picasso proprio in faccia al padiglione nazista. Ecco, quell'architettura esprimeva degli ideali ed un pensiero sull'essere umano".
Formazione o genialità. Un buon architetto su cosa dovrebbe puntare?
"Decisamente sulla formazione, perché anche la creatività ha bisogno di essere coltivata".
Su invito di Luca Ronconi ha trasformato un'azienda agricola abbandonata nel Centro Teatrale Santa Cristina a Gubbio. Ci racconta l'esperienza?
"In Luca Ronconi ho trovato un maestro, un riferimento come artista e come persona. Avevo solo trent'anni e lavoravo a Berlino quando mi ha chiamato per chiedermi se potevo aiutarlo a trasformare un'azienda agricola delle campagne Umbre nel suo centro teatrale. All'inizio voleva una cosa molto semplice per ospitare attori e poter lavorare entro pochi mesi. Il cantiere è diventato un laboratorio di architettura, con una mia piccola raccolta di libri, modelli di studio e prototipi di mobili. Un progetto a quattro mani nato sul posto senza disegni, o meglio, tracciando linee sui muri, sulle assi di legno e sul cemento".
Dal Mali e dal resto del mondo alla sua Umbria. Che cosa rappresenta la sua terra d'origine?
"L'Umbria ha la dimensione di provincia ideale e non è un caso che venga scelta da tanti artisti internazionali proprio come luogo di lavoro e non come luogo di riposo. Qui il tempo e la prossimità alle persone permettono di sviluppare progetti meglio che altrove. Concentrarmi qui, nelle campagne umbre, è una formazione continua".
Lei ha girato il mondo. Un messaggio ai giovane 'nexter'?
"Direi di guardare l'Europa come la nostra casa e quindi di non considerarsi mai dei fuggiti all'estero".
http://milan.impacthub.net/2013/04/05/matteo-ferrone-pioniere-della-luce-in-mali/
STORIES
Matteo Ferroni, pioniere della luce in Mali
05 APRIL 2013 |
“In Africa ci sono finito per caso. Non ho mai lavorato per la cooperazione internazionale. Però ho lavorato nel teatro. Ogni tanto aiutavo la scenografa di Luca Ronconi. È stato proprio lui, il regista, il committente del mio primo lavoro”. Matteo Ferroni comincia così a raccontare la lunga strada che l’ha portato in Mali, nel cuore dell’Africa subsahariana, dove è stato pioniere di un’invenzione del tutto innovativa nella sua concezione e realizzazione: un lampione portatile a energia solare per far luce (solo quando serve) nei villaggi rurali dove non c’è elettricità.
Tra il teatro e le vie di un villaggio nato al limitare del deserto il collegamento sembra arduo. Eppure c’è, e c’entra anche la luce.
“Lavoravo all’allestimento dello spettacolo di Ronconi‘ Il bosco degli spiriti’, tratto da un racconto africano che corrisponde più o meno al mito di Orfeo. Sul set ho incontrato la cantante maliana Rokya Traoré. È stata lei a chiamarmi per andare a lavorare in Mali. Voleva costruire un teatro all’aperto a Bamako. Abbiamo cominciato, ma ora purtroppo il progetto è fermo a causa del conflitto che ha investito il Paese”.
Ferrone, architetto originario di Perugia, laureato in Svizzera, ha lavorato già in Germania e per tre anni a Barcellona. In Mali viene folgorato dai villaggi, dalla vita rurale: “Contrariamente a quello che mi aspettavo, più che povertà ho visto armonia. La vita è fragile, certo. È facile morire per una malattia. Ma non ho visto la fame. Come architetto mi interessava capire cosa rendeva possibile questo tenore di vita in una comunità con pochi mezzi in un ambiente naturale così difficile, dove il termometro arriva spesso a sfiorare i 50 gradi. Un altro aspetto che mi affascinato era la loro concezione di bene collettivo. I villaggi non sono isolati ma formano delle comunità. Un villaggio, da solo, non potrebbe mai permettersi un mulino per macinare la farina. Allora ci si mette insieme, in cinque, otto villaggi. Così avviene per la scuola e per i centri sanitari, ognuno dà il suo contributo”.
Il lavoro sulla luce è venuto dopo. Matteo comincia a frequentare sempre di più i villaggi e a viverci per periodi sempre più lunghi. Si accorge che i ritmi di sonno e veglia sono diversi da quelli occidentali: la vita sociale si svolge soprattutto di notte, quando il clima è più sopportabile. Per illuminare si usano torce elettriche, nel caso di cerimonie si affittano generatori, che però sono costosi. “Quando ho cominciato a ragionare sulla lucenon ero convinto che fosse indispensabile per la loro vita, mi chiedevo che diritto avessi di cambiare un modo di vivere che fino ad allora aveva funzionato”.
“Intanto continuavo a osservare le persone: mi accorgevo che quando parlavano fra di loro mantenevano sempre una certa distanza. Avevo già vissuto con persone africane a Barcellona e anche loro si parlavano nell’ambito del medesimo spazio relazionale. Vivendo con loro mi sono fatto l’idea che questo spazio relazionale corrisponde all’ombra dell’albero. Durante il giorno sono abituati a condividere questo spazio. Allora ha cominciato a farsi spazio in me l’idea di una luce che corrispondesse all’ombra dell’albero, per illuminare una scena, come avviene sul palcoscenico. Per illuminare la notte dei villaggi ho inziato a immaginare uno strumento che fosse però funzionale alle azioni e alla vita”. I lampioni fissi esistono in qualche piazza di villaggio del Mali, dono di qualche progetto di cooperazione internazionale. Ma Ferrone si accorge che la gente non li usa. Le cerimonie e le azioni sono itineranti e si svolgono in altri spazi. “Mi è venuta così l’idea di creare un utensile per illuminare le attività piuttosto che gli spazi. Concetti come piazza o strada nei villaggi africani non esistono, o perlomeno non hanno lo stesso significato”.
L’utensile deve essere facilmente trasportabile, alimentabile con poca spesa, costruito con materiale reperito in loco. Nasce il prototipo: un lampione posto su un’asta saldato a una ruota e a una batteria caricata a energia solare. “Come architetto e designer ho prestato attenzione all’estetica” afferma Ferrone. “Ho pensato a un utensile portatile, quindi con una ruota, e la bicicletta mi sembrava un oggetto che esprime bellezza ed equilibrio. Infatti mi ha permesso di realizzare un oggetto che arriva a 3 metri e 60 di altezza, porta una batteria ed è trasportabile da un bambino di otto anni”. Tutta la struttura è realizzata da artigiani locali con materiali che si trovano facilmente nei villaggi, fatta eccezione per il led importato dalla Cina.
“Ho cominciato a produrre un prototipo e il giorno dopo il villaggio vicino ne ha richiesto un altro esemplare. In meno di un mese 60 villaggi avevano chiesto al sindaco del villaggio in cui vivevo di poter avere altri lampioni portatili. Il sindaco mi ha fatto chiamare e mi ha chiesto se la mia invenzione si poteva trasformare in un progetto”.
Un aspetto interessante è la gestione collettiva della luce. Ogni villaggio che ne fa richiesta riceve quattro lampioni. A gestirli è un comitatocomposto di rappresentanti di diversi gruppi: ci sono sempre una donna, un anziano, un giovane e un tecnico. Il comitato dà la luce a noleggio eil ricavato alimenta una cassa comune, che poi viene utilizzata per finanziare altre microattività imprenditoriali. La luce unisce le persone, attorno ad attività o a una cerimonia. Facilita lavori che vengono compiuti di notte, dalla vaccinazione degli animali alla pesca sul fiume con le piroghe, alla ristrutturazione di una moschea. “I villaggi non pagano, ma hanno un anno di tempo per ridarci dieci telai di bicicletta che serviranno per costruire altri lampioni”, spiega Matteo. “Per loro è tanto. Un telaio potrebbero venderlo a 8 euro, dieci telai quindi valgono 80 euro”.
La luce portatile, “foroba yelen” in lingua locale, ha vinto il premio innovazione urbana della città di Barcellona. Per sostenere il progetto in Mali Matteo ha aperto la fondazione eLand, con il supporto di Haus der Kulturen der Welt, e ha iniziato un progetto analogo a Città del Messico in collaborazione con l’Università di Barcellona. Di recente è arrivata una richiesta singolare da Marsiglia: la comunità senegalese che vive nei sobborghi della città francese è interessata ai lampioni portatili. Matteo non sa ancora come finirà, ma ormai si è arreso all’evidenza: la luce nei villaggi del Mali serviva, e ha già facilitato la vita di migliaia di persone.
Di Emanuela Citterio – HUB Milano
“Aspettando i pionieri” è una serie di interviste che HUB Milano sta preparando in vista del 3 maggio, data in cui verranno premiati i vincitori del concorso “A caccia di pionieri” promosso da Progetto RENA in collaborazione con HUB Milano, ActionAid Italia, CNA Giovani Imprenditori e La Stampa. Ogni settimana racconteremo il caso di un “pioniere” italiano, una persona, un’associazione o un’impresa che hanno tracciato la via producendo qualcosa di innovativo ed eccellente. La prima puntata è dedicata a Matteo Ferroni, pioniere della luce in Mal
'Foroba Yelen' significa 'luce collettivà ed è la soluzione che sta migliorando la vita degli abitanti dei villaggi rurali del Mali. Si tratta di una lampada da strada portatile che illumina le attività piuttosto che gli spazi. Perché in Mali a causa del caldo che raggiunge livelli molto alti la vita scorre soprattutto di sera e per terra.
Produzione in loco, grazie alla fusione di parti di vecchie biciclette e lattine che vengono plasmate per diventare la testa della lampada. La lampada utilizza l'energia solare e dispone di batterie che possono essere ricaricate nelle stazioni distribuite lungo il territorio. E poi è mobile, trasportabile con facilità anche dalle donne, in modo da dare a chiunque la possibilità di usufruire della luce artificiale.
Per Ferroni, papà del progetto 'Foroba Yelen', è possibile conciliare tecnologia e presenza umana. "Occorre però privilegiare i valori culturali. In questo progetto ho considerato la luce come un fenomeno culturale invece che una sfida tecnologica. Cioè il mio obiettivo non era di portare la tecnologia LED nei villaggi, ma di trasformare l'ombra dell'albero in luce. Le conseguenze sono potenzialmente enormi: invece di installare 40 lampioni in ognuno dei 20.000 villaggi del Mali, basterebbero 4 lampioncini mobili in ogni villaggio", racconta Ferroni, che da questa esperienza ha avviato una ricerca appassionante su etnografia e design.
Energia elettrica fai-da-te, ma non solo. Quali modelli emergenti sta vedendo prevalere nel mondo dell'architettura?
"Mi pare che i giovani architetti stiano cercando nuovi modi di interagire con la città. Riconoscono l'importanza della cittadinanza attiva ed intraprendono esperienze in cui l'architettura è frutto di un processo controllato invece che di un disegno libero. In un certo senso sta emergendo un nuovo modello di architetto più che un nuovo modello di architettura".
E lei personalmente a quali stili guarda con maggiore attenzione?
"Io credo che l'architetto debba cercare di elevare il proprio spirito e chiedersi a cosa serva l'architettura. Per questo guardo con ammirazione l'opera dei maestri del '900 che conoscevano il mestiere e la vita. Nell'Expo del 1937 Josep Luis Sert realizzò il padiglione della Repubblica Spagnola in piena guerra civile presentando la Guernica di Picasso proprio in faccia al padiglione nazista. Ecco, quell'architettura esprimeva degli ideali ed un pensiero sull'essere umano".
Formazione o genialità. Un buon architetto su cosa dovrebbe puntare?
"Decisamente sulla formazione, perché anche la creatività ha bisogno di essere coltivata".
Su invito di Luca Ronconi ha trasformato un'azienda agricola abbandonata nel Centro Teatrale Santa Cristina a Gubbio. Ci racconta l'esperienza?
"In Luca Ronconi ho trovato un maestro, un riferimento come artista e come persona. Avevo solo trent'anni e lavoravo a Berlino quando mi ha chiamato per chiedermi se potevo aiutarlo a trasformare un'azienda agricola delle campagne Umbre nel suo centro teatrale. All'inizio voleva una cosa molto semplice per ospitare attori e poter lavorare entro pochi mesi. Il cantiere è diventato un laboratorio di architettura, con una mia piccola raccolta di libri, modelli di studio e prototipi di mobili. Un progetto a quattro mani nato sul posto senza disegni, o meglio, tracciando linee sui muri, sulle assi di legno e sul cemento".
Dal Mali e dal resto del mondo alla sua Umbria. Che cosa rappresenta la sua terra d'origine?
"L'Umbria ha la dimensione di provincia ideale e non è un caso che venga scelta da tanti artisti internazionali proprio come luogo di lavoro e non come luogo di riposo. Qui il tempo e la prossimità alle persone permettono di sviluppare progetti meglio che altrove. Concentrarmi qui, nelle campagne umbre, è una formazione continua".
Lei ha girato il mondo. Un messaggio ai giovane 'nexter'?
"Direi di guardare l'Europa come la nostra casa e quindi di non considerarsi mai dei fuggiti all'estero".
http://milan.impacthub.net/2013/04/05/matteo-ferrone-pioniere-della-luce-in-mali/
STORIES
Matteo Ferroni, pioniere della luce in Mali
05 APRIL 2013 |
“In Africa ci sono finito per caso. Non ho mai lavorato per la cooperazione internazionale. Però ho lavorato nel teatro. Ogni tanto aiutavo la scenografa di Luca Ronconi. È stato proprio lui, il regista, il committente del mio primo lavoro”. Matteo Ferroni comincia così a raccontare la lunga strada che l’ha portato in Mali, nel cuore dell’Africa subsahariana, dove è stato pioniere di un’invenzione del tutto innovativa nella sua concezione e realizzazione: un lampione portatile a energia solare per far luce (solo quando serve) nei villaggi rurali dove non c’è elettricità.
Tra il teatro e le vie di un villaggio nato al limitare del deserto il collegamento sembra arduo. Eppure c’è, e c’entra anche la luce.
“Lavoravo all’allestimento dello spettacolo di Ronconi‘ Il bosco degli spiriti’, tratto da un racconto africano che corrisponde più o meno al mito di Orfeo. Sul set ho incontrato la cantante maliana Rokya Traoré. È stata lei a chiamarmi per andare a lavorare in Mali. Voleva costruire un teatro all’aperto a Bamako. Abbiamo cominciato, ma ora purtroppo il progetto è fermo a causa del conflitto che ha investito il Paese”.
Ferrone, architetto originario di Perugia, laureato in Svizzera, ha lavorato già in Germania e per tre anni a Barcellona. In Mali viene folgorato dai villaggi, dalla vita rurale: “Contrariamente a quello che mi aspettavo, più che povertà ho visto armonia. La vita è fragile, certo. È facile morire per una malattia. Ma non ho visto la fame. Come architetto mi interessava capire cosa rendeva possibile questo tenore di vita in una comunità con pochi mezzi in un ambiente naturale così difficile, dove il termometro arriva spesso a sfiorare i 50 gradi. Un altro aspetto che mi affascinato era la loro concezione di bene collettivo. I villaggi non sono isolati ma formano delle comunità. Un villaggio, da solo, non potrebbe mai permettersi un mulino per macinare la farina. Allora ci si mette insieme, in cinque, otto villaggi. Così avviene per la scuola e per i centri sanitari, ognuno dà il suo contributo”.
Il lavoro sulla luce è venuto dopo. Matteo comincia a frequentare sempre di più i villaggi e a viverci per periodi sempre più lunghi. Si accorge che i ritmi di sonno e veglia sono diversi da quelli occidentali: la vita sociale si svolge soprattutto di notte, quando il clima è più sopportabile. Per illuminare si usano torce elettriche, nel caso di cerimonie si affittano generatori, che però sono costosi. “Quando ho cominciato a ragionare sulla lucenon ero convinto che fosse indispensabile per la loro vita, mi chiedevo che diritto avessi di cambiare un modo di vivere che fino ad allora aveva funzionato”.
“Intanto continuavo a osservare le persone: mi accorgevo che quando parlavano fra di loro mantenevano sempre una certa distanza. Avevo già vissuto con persone africane a Barcellona e anche loro si parlavano nell’ambito del medesimo spazio relazionale. Vivendo con loro mi sono fatto l’idea che questo spazio relazionale corrisponde all’ombra dell’albero. Durante il giorno sono abituati a condividere questo spazio. Allora ha cominciato a farsi spazio in me l’idea di una luce che corrispondesse all’ombra dell’albero, per illuminare una scena, come avviene sul palcoscenico. Per illuminare la notte dei villaggi ho inziato a immaginare uno strumento che fosse però funzionale alle azioni e alla vita”. I lampioni fissi esistono in qualche piazza di villaggio del Mali, dono di qualche progetto di cooperazione internazionale. Ma Ferrone si accorge che la gente non li usa. Le cerimonie e le azioni sono itineranti e si svolgono in altri spazi. “Mi è venuta così l’idea di creare un utensile per illuminare le attività piuttosto che gli spazi. Concetti come piazza o strada nei villaggi africani non esistono, o perlomeno non hanno lo stesso significato”.
L’utensile deve essere facilmente trasportabile, alimentabile con poca spesa, costruito con materiale reperito in loco. Nasce il prototipo: un lampione posto su un’asta saldato a una ruota e a una batteria caricata a energia solare. “Come architetto e designer ho prestato attenzione all’estetica” afferma Ferrone. “Ho pensato a un utensile portatile, quindi con una ruota, e la bicicletta mi sembrava un oggetto che esprime bellezza ed equilibrio. Infatti mi ha permesso di realizzare un oggetto che arriva a 3 metri e 60 di altezza, porta una batteria ed è trasportabile da un bambino di otto anni”. Tutta la struttura è realizzata da artigiani locali con materiali che si trovano facilmente nei villaggi, fatta eccezione per il led importato dalla Cina.
“Ho cominciato a produrre un prototipo e il giorno dopo il villaggio vicino ne ha richiesto un altro esemplare. In meno di un mese 60 villaggi avevano chiesto al sindaco del villaggio in cui vivevo di poter avere altri lampioni portatili. Il sindaco mi ha fatto chiamare e mi ha chiesto se la mia invenzione si poteva trasformare in un progetto”.
Un aspetto interessante è la gestione collettiva della luce. Ogni villaggio che ne fa richiesta riceve quattro lampioni. A gestirli è un comitatocomposto di rappresentanti di diversi gruppi: ci sono sempre una donna, un anziano, un giovane e un tecnico. Il comitato dà la luce a noleggio eil ricavato alimenta una cassa comune, che poi viene utilizzata per finanziare altre microattività imprenditoriali. La luce unisce le persone, attorno ad attività o a una cerimonia. Facilita lavori che vengono compiuti di notte, dalla vaccinazione degli animali alla pesca sul fiume con le piroghe, alla ristrutturazione di una moschea. “I villaggi non pagano, ma hanno un anno di tempo per ridarci dieci telai di bicicletta che serviranno per costruire altri lampioni”, spiega Matteo. “Per loro è tanto. Un telaio potrebbero venderlo a 8 euro, dieci telai quindi valgono 80 euro”.
La luce portatile, “foroba yelen” in lingua locale, ha vinto il premio innovazione urbana della città di Barcellona. Per sostenere il progetto in Mali Matteo ha aperto la fondazione eLand, con il supporto di Haus der Kulturen der Welt, e ha iniziato un progetto analogo a Città del Messico in collaborazione con l’Università di Barcellona. Di recente è arrivata una richiesta singolare da Marsiglia: la comunità senegalese che vive nei sobborghi della città francese è interessata ai lampioni portatili. Matteo non sa ancora come finirà, ma ormai si è arreso all’evidenza: la luce nei villaggi del Mali serviva, e ha già facilitato la vita di migliaia di persone.
Di Emanuela Citterio – HUB Milano
“Aspettando i pionieri” è una serie di interviste che HUB Milano sta preparando in vista del 3 maggio, data in cui verranno premiati i vincitori del concorso “A caccia di pionieri” promosso da Progetto RENA in collaborazione con HUB Milano, ActionAid Italia, CNA Giovani Imprenditori e La Stampa. Ogni settimana racconteremo il caso di un “pioniere” italiano, una persona, un’associazione o un’impresa che hanno tracciato la via producendo qualcosa di innovativo ed eccellente. La prima puntata è dedicata a Matteo Ferroni, pioniere della luce in Mal