A questa persona ( qui e nei link , insieme alla colonna sonora sotto maggiori news su di lei e sulla sua storia bisogna intitolarle una via al suo paese e spiegare il perche '!!!! E tutte le scuole ogni anno dovrebbero portarle lì dove hanno ucciso la sua famiglia e dire cosa le hanno fatto e spiegare che cosa e 'l 'omerta '
La mafia le ammazzò il marito. Ma lei, Serafina, non parlò perché era cresciuta nella trappola dell’omertà e della mafia. Poi però toccò al figlio, Salvatore, un bravo ragazzo cresciuto in un
ambiente sbagliato. La mafia uccise anche lui. Per Serafina Battaglia cambiò il mondo e decise di abbandonare totalmente la vita di prima e rompere l’omertà. Era il 30 gennaio quando prese una decisione storica: dire ai giudici tutto quello che sapeva. Sicari, affari mafiosi che aveva il marito, informazioni. Tutto. Divenne la prima donna in Italia testimone di giustizia. Pagò un prezzo enorme oltre a quello della perdita del figlio: il totale isolamento dal mondo. Si mise contro tutti, dalla famiglia fino agli amici. Al punto tale che per trovare un avvocato ci mise un’eternità. Nessuno la voleva, tutti la evitavano per aver rotto il silenzio dell’omertà. Ma Serafina non si arrese mai. Testimoniò in tribunale e affrontò i boss mafiosi senza paura, addirittura incalzandoli, inveendo loro contro come mai era successo prima.“ Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo”, diceva. Non mollò un attimo ma non vide mai l’arresto dei sicari di suo figlio. Abbandonata da tutti, morì a Roma, ancora in lutto, il 10 settembre 2004. Il suo aver detto “no” all’omertà aprì però un mondo. A lei, oggi, in questa ricorrenza importante, il ricordo di tutti noi.
"L'Ape furibonda" (Rubbettino) di C. Cavaliere, B. Gemelli e R. Pitaro include un ritratto di Serafina Battaglia: "Senza avvocato, senza soldi e messa all'indice"
COLONNA SONORA
“Pensa” Fabrizio Moro " a finestra " Carmen Conosoli “I cento passi” Modena City Ramblers “Signor tenente” Giorgio Faletti “Don Raffaè” Fabrizio De André “Povera patria” di Franco Battiato
un ottimo articolo sul editorialedomani del16\3\2022 quello dello storicoEnzo Ciconte Scrittore, docente e politico italiano, è fra i massimi esperti in
Italia delle dinamiche delle grandi associazioni mafiose. Fra i suoi
libri, segnalo : Processo alla 'Ndrangheta (Laterza), 'Ndrangheta padana (Rubbettino) e La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza).
Era il 10 agosto 1867. Anni dopo
nella ricorrenza del luttuoso anniversario, il 10 agosto 1904, il poeta
Giovanni Pascoli prende carta e penna e scrive ad un altro orfano,
Leopoldo Notarbartolo figlio del più noto Emanuele che era stato
direttore del Banco di Sicilia, ucciso il 1° febbraio 1893.
I
due hanno avuto la “medesima sorte” dice Pascoli: sono orfani di un
padre assassinato. hanno cercato la verità senza trovarla, si sono
scontrati con un muro di silenzio.
La conferma ci viene da
alcune vicende trovate nei documenti dell’Archivio centrale dello Stato.
Prendiamo ad esempio quello che successe a Medicina in provincia di
Bologna nel maggio del 1889. Oppure a Torino, all’alba dell’Unità
d’Italia.
Ognuno di noi, credo, ricorda i versi di un grande poeta italiano,
Giovanni Pascoli, “O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che
non ritorna”. Chi non è più ritornato è Ruggero, il padre del poeta,
assassinato con una schioppettata mentre rientrava a casa da solo, e
cadendo dal calesse lasciò la cavalla storna rientrare senza il suo
padrone. Era il 10 agosto 1867. Anni dopo nella ricorrenza del luttuoso
anniversario, il 10 agosto 1904, prende carta e penna e scrive ad un
altro orfano, Leopoldo Notarbartolo figlio del più noto Emanuele che era
stato direttore del Banco di Sicilia, ucciso il 1° febbraio 1893. I due hanno avuto la “medesima sorte” dice Pascoli:
sono orfani di un padre assassinato, anche se è «ineffabilmente meglio
esser figli di un assassinato che d’un assassino!», hanno cercato la
verità senza trovarla, si sono scontrati con un muro di silenzio, «tutti
sanno, almeno, in Romagna», e di complicità delle autorità che hanno
impedito di portare alla luce assassini e mandanti. «Mi sono occupato
molto di rintracciare gli assassini, ma era troppo tardi! Nessuno
parlava, o riferiva voci vaghe, che naturalmente io riferii a mia volta;
ma prove, nessuna». Anzi, Pascoli rischiò addirittura di essere
arrestato per l’insistenza delle sue ricerche. Anche Leopoldo cercò fino
alla fine di fare luce sui fatti. «La polizia, continua Pascoli, seppe
probabilmente tutto, ma non volle approfondire. In Romagna c’era allora
uno spirito di setta, dall’apparenza politica, e dalla sostanza
delinquente volgare che era tal quale la mafia, se non peggio». Il carteggio di Pascoli mi è stato segnalato dal mio amico Ennio
Grassi, anche lui romagnolo. Chi ha approfondito le ragioni
dell’assassinio di Ruggero Pascoli è Rosita Boschetti, Omicidio Pascoli.
Il complotto, Mimesis 2014. Io ho ricostruito l’altro omicidio, “Chi ha
ucciso Emanuele Notarbartolo? Il primo omicidio politico-mafioso”,
Salerno 2019.
Omertà nazionale
Il discorso che fa
Pascoli è potente. Accomuna i due omicidi sotto la medesima categoria –
l’omertà – anche se quel termine non c’è; ma c’è la sostanza. Non si
sbagliava, anzi coglieva un aspetto che allora non andava di moda e cioè
che l’omertà non era nel codice genetico dei meridionali ma era una
questione molto complessa.La conferma ci viene da alcune
vicende trovate nei documenti dell’Archivio centrale dello Stato.
Prendiamo ad esempio quello che successe a Medicina in provincia di
Bologna nel maggio del 1889 quando le risaiole che lottavano perché
tutte avessero la stessa paga giornaliera, stanche delle promesse delle
autorità, al grido di “Abbiamo fame, abbiamo fame” presero d’assalto i
forni. Alcune furono arrestate perché riconosciute dagli «agenti della
Pubblica Forza». Le altre non furono individuate neanche dai fornai.
Molti «dichiararono di non aver riconosciuta alcuna; il che è
evidentemente impossibile, ma ciò si spiega pensando alla inconsulta
ritrosia, abituale in molti popolani romagnoli, di denunziare
all’autorità inquirente i colpevoli. I restanti testi sentiti non
diedero migliori schiarimenti».È straordinario quel termine –
ritrosia – che in altri luoghi si coniuga in modo più crudo: omertà, che
in questo caso è una complicità verso chi non aveva niente perché la
fame mordeva in modo pesante. E i casi si moltiplicavano. A Faenza quasi
un migliaio di persone assaltarono i forni e le botteghe del pane. «Nei
saccheggi non fu tolto altro che pane» annotò il procuratore generale.
Erano affamati, non ladri; e presero soltanto il necessario per potersi
sfamare.
Torino
Ma già all’alba dell’Unità erano
emersi comportamenti simili a quelli appena descritti. Nell’autunno del
1864 a Torino ci fu una manifestazione popolare perché fu annunziata la
decisione di spostare la capitale del regno a Firenze. I torinesi erano
proprio infuriati. 5mila persone si riversarono in piazza Castello e in
piazza San Carlo dove i regi carabinieri in assetto di guerra spararono.
I morti furono 55 i feriti 133. Chi aveva ordinato di sparare e perché?
Si fecero due commissioni, una del Comune e una della Camera, ma non
approdarono a nulla. La strage, la prima strage nella storia d’Italia,
rimase senza colpevoli.Il 30 gennaio 1865 ci fu una clamorosa
protesta dei torinesi contro la Corte. Era un giorno importante perché
in programma era previsto il tradizionale primo ballo dell’anno. Ma la
festa ebbe un esito imprevisto perché dalla folla, appena cominciarono a
sfilare le carrozze con i nobili invitati, partì una selva di fischi e
di grida di protesta senza che la Guardia nazionale facesse nulla per
fermarli. Anzi, successe che avendo un ufficiale comandato ai suoi
soldati di impedire alla folla di fare schiamazzi non obbedirono
all’ordine e se ne stettero fermi. Molti invitati non arrivarono a
palazzo Reale e molte signore, messe al corrente degli schiamazzi
preferirono retarsene a casa.La magistratura indagò per
individuare e punire coloro che avevano osato oltraggiare il re. Ma ben
presto sorsero dei problemi che uno sconsolato procuratore generale del
re di Torino, Castellamonte, qualche giorno dopo, il 9 febbraio,
evidenziò in una sconsolata relazione al ministro di Grazia e giustizia.
«L’autorità giudiziaria continuerà nel suo compito, ma come ben vede il
Signor Ministro, non è più questione né di energia, né di
sollecitudine, né di sagacia». È questione di altra natura, ben più
complessa e dai molteplici aspetti.Scrive l’alto magistrato che «le varie classi della popolazione sono
troppo interessate in questi avvenimenti, e scema quindi la fiducia di
potere venire giudiziariamente in chiaro sulle persone, che presero
parte alla dimostrazione, e sul modo in cui la medesima fu concertata ed
eseguita». L’ipotesi su cui indagava la magistratura è che non fu un
fatto spontaneo, ma ben organizzato.«Taluni poi che
presumibilmente dovrebbero essere informati danno al fatto il carattere
di reato politico, e si fanno di buon conto e in cuor loro una legge di
cavalleria ed anzi una religione di nulla rivelare alla giustizia».
Altri, invece, «vi hanno coinvolti parenti e amici e tacciono per questo
motivo, né l’autorità giudiziaria ha elementi per poterli convincere di
reticenza. Taluni infine si fanno pure una convinzione che sia meglio
lasciare correre, onde il processo non impedisca quella riconciliazione
tra il re e la Città, che è desiderata da tutti».L’alto
magistrato torinese descriveva molto bene le varie angolature che assume
il meccanismo della reticenza e dell’omertà che lui arriva a definire
“una legge di cavalleria ed anzi una religione”. Le cose non cambieranno
nel corso del Novecento e del nuovo secolo. In più, nei fatti di mafia,
compare anche la paura, è evidente, ma ci sono tanti altri motivi che
spingono a tacere. Ma sono motivi che non appartengono come
caratteristica identitaria alla sola cultura meridionale.Ed è bene avere consapevolezza di questo retroterra se vogliamo
riconoscere l’omertà, o comunque la si voglia definire, anche in altre
realtà al di fuori del Mezzogiorno come negli ultimi anni cominciano a
stigmatizzare le forze di polizia e i magistrati che operano al Nord.
Chicco Fresu
Nessun compagno di classe al funerale di Domenico Maurantonio, studente padovano morto in circostanze misteriose mentre era in gita assieme a quelli che non si sono presentati. Com'è che non si leggono sparate sulla culture dell'omertà a Padova? E' lontanuccia da Orune...
non aggiungo altro perchè due parole sono poche ed una è troppo
"I morfassini si sono ritrovati compatti come il granito a difesa dei vivi e ancor di più dei morti.'' (Gianluca Saccomani - Libertà del 19/5/08)
Lucia Merli - Omertà a Morfasso
Il ricordo di un drammatico avvenimento accaduto a Morfasso, sull'appennino piacentino, a pochi metri dalla stazione dei carabinieri, davanti a decine di persone che non hanno visto, nè sentito... ...o non ricordano più nulla.