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16.3.22

Non è questione di meridionali L’omertà è un prodotto tipico del Sud? Falso, ecco i documenti sui silenzi nordici

un ottimo articolo sul editorialedomani  del16\3\2022   quello  dello   Scrittore, docente e politico italiano, è fra i massimi esperti in Italia delle dinamiche delle grandi associazioni mafiose.
Fra i suoi libri,  segnalo :   Processo alla 'Ndrangheta (Laterza), 'Ndrangheta padana (Rubbettino) e La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza). 

 

 

 

  • Era il 10 agosto 1867. Anni dopo nella ricorrenza del luttuoso anniversario, il 10 agosto 1904, il poeta Giovanni Pascoli prende carta e penna e scrive ad un altro orfano, Leopoldo Notarbartolo figlio del più noto Emanuele che era stato direttore del Banco di Sicilia, ucciso il 1° febbraio 1893.
  • I due hanno avuto la “medesima sorte” dice Pascoli: sono orfani di un padre assassinato. hanno cercato la verità senza trovarla, si sono scontrati con un muro di silenzio.
  • La conferma ci viene da alcune vicende trovate nei documenti dell’Archivio centrale dello Stato. Prendiamo ad esempio quello che successe a Medicina in provincia di Bologna nel maggio del 1889. Oppure a Torino, all’alba dell’Unità d’Italia.

Ognuno di noi, credo, ricorda i versi di un grande poeta italiano, Giovanni Pascoli, “O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna”. Chi non è più ritornato è Ruggero, il padre del poeta, assassinato con una schioppettata mentre rientrava a casa da solo, e cadendo dal calesse lasciò la cavalla storna rientrare senza il suo padrone. Era il 10 agosto 1867. Anni dopo nella ricorrenza del luttuoso anniversario, il 10 agosto 1904, prende carta e penna e scrive ad un altro orfano, Leopoldo Notarbartolo figlio del più noto Emanuele che era stato direttore del Banco di Sicilia, ucciso il 1° febbraio 1893. I due hanno avuto la “medesima sorte” dice Pascoli: sono orfani di un padre assassinato, anche se è «ineffabilmente meglio esser figli di un assassinato che d’un assassino!», hanno cercato la verità senza trovarla, si sono scontrati con un muro di silenzio, «tutti sanno, almeno, in Romagna», e di complicità delle autorità che hanno impedito di portare alla luce assassini e mandanti. «Mi sono occupato molto di rintracciare gli assassini, ma era troppo tardi! Nessuno parlava, o riferiva voci vaghe, che naturalmente io riferii a mia volta; ma prove, nessuna». Anzi, Pascoli rischiò addirittura di essere arrestato per l’insistenza delle sue ricerche. Anche Leopoldo cercò fino alla fine di fare luce sui fatti. «La polizia, continua Pascoli, seppe probabilmente tutto, ma non volle approfondire. In Romagna c’era allora uno spirito di setta, dall’apparenza politica, e dalla sostanza delinquente volgare che era tal quale la mafia, se non peggio». Il carteggio di Pascoli mi è stato segnalato dal mio amico Ennio Grassi, anche lui romagnolo. Chi ha approfondito le ragioni dell’assassinio di Ruggero Pascoli è Rosita Boschetti, Omicidio Pascoli. Il complotto, Mimesis 2014. Io ho ricostruito l’altro omicidio, “Chi ha ucciso Emanuele Notarbartolo? Il primo omicidio politico-mafioso”, Salerno 2019.

Omertà nazionale

Il discorso che fa Pascoli è potente. Accomuna i due omicidi sotto la medesima categoria – l’omertà – anche se quel termine non c’è; ma c’è la sostanza. Non si sbagliava, anzi coglieva un aspetto che allora non andava di moda e cioè che l’omertà non era nel codice genetico dei meridionali ma era una questione molto complessa.La conferma ci viene da alcune vicende trovate nei documenti dell’Archivio centrale dello Stato. Prendiamo ad esempio quello che successe a Medicina in provincia di Bologna nel maggio del 1889 quando le risaiole che lottavano perché tutte avessero la stessa paga giornaliera, stanche delle promesse delle autorità, al grido di “Abbiamo fame, abbiamo fame” presero d’assalto i forni. Alcune furono arrestate perché riconosciute dagli «agenti della Pubblica Forza». Le altre non furono individuate neanche dai fornai. Molti «dichiararono di non aver riconosciuta alcuna; il che è evidentemente impossibile, ma ciò si spiega pensando alla inconsulta ritrosia, abituale in molti popolani romagnoli, di denunziare all’autorità inquirente i colpevoli. I restanti testi sentiti non diedero migliori schiarimenti».È straordinario quel termine – ritrosia – che in altri luoghi si coniuga in modo più crudo: omertà, che in questo caso è una complicità verso chi non aveva niente perché la fame mordeva in modo pesante. E i casi si moltiplicavano. A Faenza quasi un migliaio di persone assaltarono i forni e le botteghe del pane. «Nei saccheggi non fu tolto altro che pane» annotò il procuratore generale. Erano affamati, non ladri; e presero soltanto il necessario per potersi sfamare.

Torino

Ma già all’alba dell’Unità erano emersi comportamenti simili a quelli appena descritti. Nell’autunno del 1864 a Torino ci fu una manifestazione popolare perché fu annunziata la decisione di spostare la capitale del regno a Firenze. I torinesi erano proprio infuriati. 5mila persone si riversarono in piazza Castello e in piazza San Carlo dove i regi carabinieri in assetto di guerra spararono. I morti furono 55 i feriti 133. Chi aveva ordinato di sparare e perché? Si fecero due commissioni, una del Comune e una della Camera, ma non approdarono a nulla. La strage, la prima strage nella storia d’Italia, rimase senza colpevoli.Il 30 gennaio 1865 ci fu una clamorosa protesta dei torinesi contro la Corte. Era un giorno importante perché in programma era previsto il tradizionale primo ballo dell’anno. Ma la festa ebbe un esito imprevisto perché dalla folla, appena cominciarono a sfilare le carrozze con i nobili invitati, partì una selva di fischi e di grida di protesta senza che la Guardia nazionale facesse nulla per fermarli. Anzi, successe che avendo un ufficiale comandato ai suoi soldati di impedire alla folla di fare schiamazzi non obbedirono all’ordine e se ne stettero fermi. Molti invitati non arrivarono a palazzo Reale e molte signore, messe al corrente degli schiamazzi preferirono retarsene a casa.La magistratura indagò per individuare e punire coloro che avevano osato oltraggiare il re. Ma ben presto sorsero dei problemi che uno sconsolato procuratore generale del re di Torino, Castellamonte, qualche giorno dopo, il 9 febbraio, evidenziò in una sconsolata relazione al ministro di Grazia e giustizia. «L’autorità giudiziaria continuerà nel suo compito, ma come ben vede il Signor Ministro, non è più questione né di energia, né di sollecitudine, né di sagacia». È questione di altra natura, ben più complessa e dai molteplici aspetti.Scrive l’alto magistrato che «le varie classi della popolazione sono troppo interessate in questi avvenimenti, e scema quindi la fiducia di potere venire giudiziariamente in chiaro sulle persone, che presero parte alla dimostrazione, e sul modo in cui la medesima fu concertata ed eseguita». L’ipotesi su cui indagava la magistratura è che non fu un fatto spontaneo, ma ben organizzato.«Taluni poi che presumibilmente dovrebbero essere informati danno al fatto il carattere di reato politico, e si fanno di buon conto e in cuor loro una legge di cavalleria ed anzi una religione di nulla rivelare alla giustizia». Altri, invece, «vi hanno coinvolti parenti e amici e tacciono per questo motivo, né l’autorità giudiziaria ha elementi per poterli convincere di reticenza. Taluni infine si fanno pure una convinzione che sia meglio lasciare correre, onde il processo non impedisca quella riconciliazione tra il re e la Città, che è desiderata da tutti».L’alto magistrato torinese descriveva molto bene le varie angolature che assume il meccanismo della reticenza e dell’omertà che lui arriva a definire “una legge di cavalleria ed anzi una religione”. Le cose non cambieranno nel corso del Novecento e del nuovo secolo. In più, nei fatti di mafia, compare anche la paura, è evidente, ma ci sono tanti altri motivi che spingono a tacere. Ma sono motivi che non appartengono come caratteristica identitaria alla sola cultura meridionale.Ed è bene avere consapevolezza di questo retroterra se vogliamo riconoscere l’omertà, o comunque la si voglia definire, anche in altre realtà al di fuori del Mezzogiorno come negli ultimi anni cominciano a stigmatizzare le forze di polizia e i magistrati che operano al Nord.

 


24.1.16

anche noi italiani abbiamo fatto la shoah e l'olocausto I campi di concentramento fascisti in Jugoslavia

  anche noi italiani    non fummo immuni  dai  crimini dell'olocausto  ma  di questo  non tutti  ne parlano e  chi lo fa  viene bollato  come   anti patriota  

Lunedì, 29 June 2015 17:45 Scritto da Davide Allegri



I campi di concentramento fascisti in Jugoslavia







“Il mio nome è Marija Poje. Sono una ex internata nel campo di concentramento forzato di Rab-Arbe e di Gonars. Sono nata il 5 aprile 1922 a Gorači, un paesetto sperduto tra i boschi al confine tra la Slovenia e la Croazia. Sono stata arrestata e internata alla fine del mese di luglio del 1942 con tutta la mia famiglia, con tutta la gente del mio paese, i bambini, i vecchi, tutti. Ci hanno bruciato le case a Stari kot dove mi ero trasferita dopo il matrimonio. Siamo partiti solo con quello che siamo riusciti a portarci dietro. […]In quella bolgia infernale dove il pianto dei bambini si alternava agli urli delle donne alle quali avevano appena fucilato il marito, io ho pensato solo al mio bambino che allora aveva 16 mesi ed era sempre con me, perché avevo paura che ci dividessero e non avevo fiducia in nessuno. Essere divisi dalla famiglia, dagli abitanti del proprio paese o da gente conosciuta era la cosa peggiore che sarebbe potuta accadere. Noi gente di montagna eravamo abituati a stringere i denti, ma l’insicurezza della nostra posizione e la crudeltà dei soldati ci facevano stare in apprensione. […] La mattina seguente dopo un ultimo appello e dopo averci diviso dagli uomini, ci hanno fatti salire sui camion per portarci chissà dove.”
A prima vista questa sembra una delle tante testimonianze toccanti dei sopravvissuti ai campi di sterminio della Germania nazionalsocialista sparsi nell’Europa occupata. Ma qualcosa non torna, nei nomi di luogo: Rab, un’incantevole isola dell’attuale Croazia e Gonars, che a dispetto del nome, si trova in Friuli a pochi chilometri da Palmanova. Certo non sarebbe una novità venire a conoscenza di lager in terra italiana, vista la terribile fama guadagnata ad esempio dal campo di concentramento di Bolzano. Probabilmente campi sorti e gestiti dai tedeschi in Italia ed in Croazia dopo il 1943, dirà qualcuno. Assolutamente no: essi erano campi di concentramento voluti e organizzati dall’Italia fascista all’indomani dello scoppio della Seconda Guerra mondiale. Forse non votati allo sterminio sistematico e scientifico di una razza, come quelli del Reich tedesco, ma luoghi di orrore e morte del tutti simili a quelli ideati dal Führer.



Sorti per piegare la resistenza dei popoli dei Balcani ma, si badi bene, non certo destinati solo ai partigiani di Tito ed ai combattenti. In questi campi venivano indistintamente segregate e lasciate morire di fame e di malattie le popolazioni iugoslave  
Uomini, ma soprattutto vecchi, donne e bambini: come Marija che aveva solo vent’anni ed era incinta. Il campo si portò via entrambi i figli dopo la fucilazione del marito. Una vita spezzata e segnata per sempre. Come lei decine di migliaia di civili subirono una sorte analoga. “Nei 29 mesi di occupazione italiana soltanto nella provincia compresa tra Lubiana e Fiume vennero fucilati cinquemila civili, 900 furono i partigiani catturati e fucilati e, in base ai dati a disposizione presso l’Archivio Centrale dello Stato a Roma, furono più di 20.000 i deportati civili sloveni internati nei campi di Arbe, Chiesanuova (Padova), Monigo (Treviso), Gonars (Udine) e Renicci di Anghiari (Arezzo)” sostiene Boris Mario Gombač (articolo completo qui), lo storico italo-sloveno che insieme ad altri come Angelo del Boca per l’Africa e Carlo Spartaco Capogreco per i Balcani, sta cercando di rompere il velo di silenzio e omertà sui crimini commessi dal fascismo nelle sue “colonie”. Studi che distruggono lo stereotipo del “soldato italiano buono” a confronto con i tedeschi “cattivi” e che mettono in luce la necessità di approfondire ulteriormente queste vicende. Si trattava di campi del tutto “illegali”, vale a dire non visitabili dalla Croce Rossa internazionale e dove i detenuti non potevano ricevere aiuti, pacchi viveri e visite dall’esterno. Campi dove gli internati erano costretti ad una durissima lotta quotidiana per la sopravvivenza: “ormai la sopravvivenza era diventata una lotta di tutti contro tutti. Si lottava contro gli abitanti delle altre tende, contro i militari ma anche contro i nostri uomini che dall’altra parte della rete pretendevano dalle mogli il loro rancio quotidiano. Nelle nostre menti era inciso solo un pensiero: chi riusciva a sopravvivere un giorno più degli altri era vivo e chi non ce la faceva lo portavano giù verso le fosse comuni. Ormai eravamo solo l’ombra di noi stessi. I giorni e le notti passavano tra il pianto e i gemiti continui dei bambini affamati o assetati che andava avanti per mesi” prosegue la testimone nel suo toccante racconto.



Solo l’armistizio del 1943 interruppe questo orrore. Marija, nel frattempo trasferita da Rab a Gonars così descrive la fuga: “All’uscita del campo eravamo mal messi, le gambe non ci tenevano e dopo pochi passi eravamo stanchi come se avessimo falciato l’erba tutto il giorno. Un militare ci aveva dato del riso, ma non sapevamo cosa farne, non sapevamo come cuocerlo e mangiarlo. Per strada abbiamo trovato gente che ci dava del pane. Qualcuno vedendoci ripeteva esterrefatto “poveri bambini, poveri bambini”. Alcune donne ci hanno portato pane e sapone indicandoci i bambini. Era buona questa gente.” Un barlume di umanità in una vicenda turpe e taciuta troppo a lungo.

7.6.12

SFATIAMO IL MITO dei ricercatori validissimi costretti ad emigrare. esistono anche gli imbeccilli

  storia  tratta  da  http://www.agoravox.it  per  mezzo   della stessa  autrice   che  è anche propietaria del sito  http://www.inpuntadicapezzolo.it/

La storia di Gigione, il ricercatore scarsone



Si parla sempre di ricercatori validissimi costretti ad emigrare. Delle loro difficoltà, in un Paese che non li comprende. Ma esiste un numero considerevole di storie ben diverse. Storie di scarsoni, non raccomandati, che ottengono riconoscimento (e successo) grazie alla retorica dello "stato che umilia la ricerca" e dell'incapacità di giornalisti e persone comuni di rendersi conto del loro reale (scarso) valore. La statistica ha il compito di quantificare numericamente i casi, i media quello di raccontare entrambi i tipi di storie. Perché assolutamente non bisogna trasmettere alla gente comune un'immagine idealizzata della realtà. Ecco la storia di Gigione (nome di fantasia): non bravo, non raccomandato, emigrato e poi rientrato in Italia grazie alle offerte di gente comune affascinata dalla sua retorica ma non in grado di valutare le sue reali capacità. Il racconto, per ovvie ragioni, non può essere eccessivamente dettagliato.
Aveva scritto una lettera piena di seducenti parole a un personaggio sulla cresta dell'onda, Gigione. Nessun aggancio, nessuna raccomandazione: soltanto la storia giusta - e la retorica giusta - al momento giusto... ed è subito raccolta fondi: Gigione deve tornare in Italia. Era andato all'estero perché in Italia non c'era trippa per lui: altri molto più bravi (alcuni dei quali "figli di", ma tutti indiscutibilmente più bravi di lui) avevano la precedenza. Ma alla fine il qualunquismo ha pagato: Gigione è di nuovo in Italia. Ed è di nuovo in Italia perché si occupa di un'area di ricerca che tocca l'immaginario comune e perché ha saputo scegliere le parole giuste per raccontare un sogno affascinante agli occhi della gente, sebbene non supportato da reali capacità.
Ora Gigione insegna in un'università 
italiana e fa danni con la sua mediocrità. Le persone valide del suo settore lo sfottono un po', ma si guardano bene dal far sentire tutti insieme la loro voce e chiedere provvedimenti: "Tanto in giro c'è di peggio"... Ma quel che è certo è che Gigione è un esempio paradigmatico di cosa possa produrre un certo qualunquismo da strilloni applicato alla critica sociale. Ci sono alcuni, tra i ricercatori che sono tornati in Italia, che sarebbe stato molto meglio se fossero rimasti all'estero. Ma tanto la gente non sa, non può valutare e confonde i cialtroni con gli eroi. È la stessa gente che ritiene che Allevi sia un compositore di musica classica contemporanea, o Bocelli un grande cantante lirico.

I fondi per la ricerca sono importantissimi, ma sarebbe ora di dire basta alla solita retorica dei "cervelli in fuga". La retorica piace a certi baroni, che sono la parte marcia dell'Università italiana e non vogliono altro che più fondi per incrementare il loro potere. Vigliacchi sono tutti coloro che nel mondo universitario si sottomettono a questo sistema e che accettano che le regole non siano rispettate. Non farebbe male, al mondo universitario, l'abbandono di qualsiasi filosofia morale utilitarista in favore del kantiano imperativo categorico. Anche la più innocente delle bugie è sbagliata, punto. Anche il più innocente piccolo imbroglio è sbagliato, punto. Anche la più innocente azione pragmatica di politica accademica dettata dal buon senso è sbagliata, punto. Così come è sbagliata ogni forma di diplomazia o di "tatto" e anche la più insignificante eccezione al rigore autonomo dell'individuo compiuta in considerazione della realtà dei fatti di un contesto sociale. Per intenderci: "C'è Mario?", "No, non c'è" (quando invece c'è). Peccato mortale. Risposta giusta: "C'è ma non desidera parlarti". Rigore, rigore, rigore. E formalismo etico radicale. Solo così l'Italia che vale avrà l'autorevolezza e la dignità morale per sbugiardare e ridicolizzare i Beppe Grillo e i Gigione (ma anche i Di Pietro) di turno.

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...