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13.7.22

La strage di via d'amelio 19 luglio 1992 non fu solo ucciso Borsellino ma anche Manuela Loi , Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina

L’autobomba che uccise Borsellino e 5 agenti il 19 luglio ‘92 (Ansa)
 Ero poco più di un bambino , avevo 16 anni , quando gli attentati a Falcone e Borsellino hanno stravolto l'Italia. Ho ancora in mente le immagini terribili del cratere sull'autostrada tra l'aeroporto di Punta Raisi e Palermo e quelle delle auto in fiamme in via D'Amelio . Ma posso dire che ci  sono notizie a cui non vogliamo credere, a cui non riusciamo a credere, che non vogliono entrare nelle nostre teste perché sono troppo dolorose, perché spengono sogni e speranze. Per me la notizia della morte di Giovanni Falcone prima e poi  di Paolo Borsellino   sono  state  il simbolo di quella sensazione di disperata incredulità. Ed è grazie  ad essa che ho  iniziato , anche  se nel mio limite  , ad  interessarmi
alla lotta  antimafia e   a parlare  di mafia . Ma  non  divaghiamo  ed   ritorniamo  al discorso originale  . Per quanto riguarda  la  strage  di via  d'Amelio  il mio  è un ricordo     di un  ragazzo di 16  anni  . Eroo  con mio padre  ed mio fratello a fe  una passeggiata   ed  a raccogliere  bacche  di mirto   , mentre mia  madre era  rimasta  con i miei nonni . Quando tornammo  a prenderla   , per  poi rientrare  a Tempio ,  vedevo  mia nonna  materna  scossa  e  sullo fondo le immagini   del palazzo sventrato  e  delle  auto bruciate  . Ed  li  che   apprendemmo   della  strage   di  via  d'amelio che vide la morte  del giudice  paolo borsellino  e  della sua  scorta .   
 Ora poichè   per le  celebrazioni del 19 luglio  si parlerà  di al 90  % di  Borsellino  ,  e  poco  dei suoi uomini  della scorta   voglio   riportare  dal  settimanale  oggi    della  scorsa  settimana   questa intervista     alla  sorella di manuela Loi (Cagliari, 9 ottobre 1967– Palermo, 19 luglio 1992) . Manuela è stata la prima agente di Polizia italiana adibite in Italia al servizio scorte, a restare uccisa in servizio.

  dal settimanale  oggi  

Sestu, una decina di chilometri a nord di Cagliari, c’è una palazzina rosa di tre piani. Il primo è disabitato da molti anni. Le persiane sono sempre chiuse. In una cameretta il tempo si è fermato 30 anni fa. Il letto è intatto, i pupazzi sono distribuiti con amore, la scrivania è in ordine. Le pareti sono tappezzate di fotografie che ritraggono una ragazza allegra. Si chiamava Emanuela Loi, aveva 24 anni, faceva la poliziotta. Il 19 luglio del 1992, alle 16.58, invia D’Amelio, a Palermo, un’autobomba piazzata all’interno di una 126 amaranto l’ha fatta saltare per aria assieme al giudice Paolo Borsellino e a quattro suoi colleghi della scorta (Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina). Emanuela è la prima agente donna rimasta uccisa in servizio. «Moltissime persone, in tutti questi anni, mi hanno chiesto di visitare la sua stanza, adesso voglio fare di più: per ricordare mia sorella creerò un museo in sua memoria».

PASSAGGIO DI TESTIMONE Sopra Emanuela Loi, 29, guarda la foto della zia da cui ha ereditato il nome. Figlia del fratello dell’agente


Non sapevamo che scortava Borsellino. Ci tranquillizzava dicendo che il suo lavoro non era a rischio

Mia nipote è nata quattro mesi dopo la morte di Emanuela. Darle il suo nome è stato naturale.

Ora è una poliziotta anche lei

È la promessa, svelata con voce commossa, della sorella Maria Claudia, 56 anni, che abita al piano superiore di quella che un tempo era “la casa di famiglia”.

Come sarà il museo?

«Sorgerà qui, nella mansarda. Ci sarà tanta luce, le teche con gli oggetti che hanno fatto parte della vita di Emanuela: i vestiti, le catenine, la sua divisa, il cappello. Esporrò tutto quello che in questi 30 anni ho ricevuto in regalo per lei da ogni parte d’Italia: lettere, poesie, targhe, quadri, pupazzi. Verranno anche proiettati dei filmati inediti. Finalmente, la gente potrà sentire la voce di Emanuela e capire come era».

Che rapporto avevate?
«Eravamo legate da un amore indissolubile. Io, timida e introversa

; lei, chiacchierona. Invidiavo questo suo lato. Emanuela era molto legata alla famiglia e alla Sardegna, la sua terra. Quando lavorava a Palermo aveva chiesto di essere trasferita vicino a casa nostra».






Lei è più tornata a Palermo?

«Per 25 anni non ho avuto il coraggio di andarci. L’ho fatto per la prima volta nel 2017, con la Nave della Legalità. Avevo quasi paura di calpestare lo stesso suolo che aveva visto morire Emanuela, poi ho superato il blocco. Quest’anno non sarò presente alla commemorazione, preferisco ricordarla a Sestu. Parteciperò a una cerimonia più intima, nei luoghi che lei amava e dove ha vissuto».

È cambiato qualcosa in questi 30 anni?

«Non abbiamo più paura di esporci, di dire no a Cosa Nostra, di scendere in piazza. Subito dopo le stragi del 1992, ricordo le lenzuola bianche appese ai balconi delle case di Palermo e la gente che partecipava alle fiaccolate. Prima di allora era impensabile, c’era molta omertà. Oggi scuotiamo le coscienze delle generazioni future. Io ci provo quando giro le scuole d’Italia e ai giovani parlo di Emanuela. I bambini di sei anni si avvicinano emi dicono: “Da grande voglio fare il poliziotto come tua sorella”. In questi 30 anni sono venute a trovarci centinaia di scolaresche, le portano i fiori sulla tomba, una scultura unica, fatta di specchi e acqua, il simbolo della vita».

Che cosa chiede oggi per sua sorella?

«Che si faccia chiarezza sui mandanti. Nonostante diversi processi e sentenze, ci sono ancora tanti punti oscuri su questa strage di stampo mafioso-terroristico. Sono una persona molto religiosa, se i colpevoli dovessero pentirsi in modo sincero, sentito, forse potrei perdonarli».

Dove era quel 19 luglio?

«Ero in vacanza sul Lago di Garda. Le avevo scritto una cartolina, non ricordavo il suo indirizzo, così chiamai mia madre per farmelo dare. Lei rispose al telefono con voce un po’ agitata, disse che c’era appena stata una strage a Palermo, di lasciare libera la linea di casa perché probabilmente Emanuela la stava chiamando per rassicurarla, cosa che aveva

fatto il giorno in cui era morto Falcone. La sua telefonata non arrivò mai. Poi la sera sentii la notizia e il nome di Emanuela pronunciato al telegiornale. Svenni».

Sapevate che scortava il giudice Borsellino?

«No, ci diceva che era al servizio di un uomo importante, ma quando provavamo a farle qualche domanda cambiava discorso. “Non faccio un lavoro a rischio, state tranquilli”, ci rispondeva».

E dopo quella strage?

«Troppi lutti. Via D’Amelio non mi ha tolto solo mia sorella. Dopo sono venuti a mancare i miei genitori. Mio padre per quattro anni ha avuto la febbre ogni giorno, le sue difese immunitarie si erano abbassate, eppure prima di morire era a Palermo per ricordare mia sorella. Mia madre se n’è andata per un tumore al fegato nel 2006. Nel 2010 mio nipote è morto in un incidente stradale, aveva 19 anni, e l’anno prima era morta, a 40 anni, sua madre, la moglie di mio fratello».

Chi le ha dato la forza?

«La fede innanzitutto. Sono sicura che i miei cari si trovano in una dimensione migliore di quella terrena. Proprio lì ci ritroveremo tutti insieme. E poi devo molto a mio marito, che mi è sempre stato vicino, e a quello che è rimasto della mia famiglia: mio fratello e mia nipote Emanuela. Si chiama come mia sorella ed è una poliziotta anche lei».

Ha seguito le orme della zia.


«È una donna sensibile, ma anche forte e tenace, mamma di una splendida bambina di 7 anni. Emanuela si sarebbe dovuta chiamare Azzurra, è nata quattro mesi dopo via D’Amelio, ma darle il nome della zia è stato naturale. Sin da piccola ha partecipato alle commemorazioni in suo ricordo, ha respirato il senso di giustizia».

Come era arrivata in Polizia sua sorella?

«Tra noi due ero io quella che voleva fare la poliziotta, lei sognava di diventare maestra perché amava i bambini, aveva anche partecipato al concorso, aspettava solo l’esito. Nel frattempo, la convinsi a sostenere il concorso in Polizia, lei lo superò, io no. Quando seppe di essere stata assunta come insegnante, non ebbe dubbi: decise di restare in divisa, era felice».

Si è mai sentita in colpa per averla spinta a fare questo lavoro?

«Questa è una domanda che mi fanno spesso i ragazzi delle scuole. No, non ho mai avuto nessun rimpianto. Emanuela amava il suo lavoro e quando ha avuto la possibilità di lasciarlo non lo ha fatto. Per lei era una missione».

Nonostante diversi processi e sentenze, ci sono ancora tanti punti oscuri su questa strage

L’ultimo ricordo che ha di lei?

«Qualche giorno prima di morire, era in vacanza a casa nostra, in Sardegna. Aveva la febbre, mia madre le aveva detto di non tornare in Sicilia, di aspettare che passasse. Lei disse di no: “Se non vado, il mio collega non potrà andare in ferie. Lui ha una famiglia, è giusto che stia con i suoi bambini”. Questa era Emanuela».

19.7.17

La mafia e il sorriso di Emanuela




25 anni fa, la strage di via D’Amelio: un’altra coltellata al quel corpo straziato italiano, che ci ha portato via Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi." La nostra" Emanuela Loi . Ora , come dice  Daniele Madu( un insegnante, studioso di cose di mafia e pubblicista: scrive su un giornale on line, Tramas de amistade – trame d’amicizia ) Alla vigilia del 19 luglio è andato a trovare la sorella di Emanuela Loi, Claudia. Emanuela è stata uccisa 25 anni fa in via D’Amelio: era nata a Sestu, era agente di polizia, aveva 24 anni. E’ stata la prima poliziotta a morire in servizio, non aveva ancora completato l’addestramentonell'introduzione articolo che trovate sotto , Scrivere di quei fatti non è semplice quanto è doveroso; si avverte il rischio di non aggiungere niente a tutto quanto è stato detto, studiato, ricostruito: eppure, per la giustizia italiana, ancora c’è bisogno di processi per giungere ad una verità, che non sia solo giudiziaria. Personalmente, poi, parlare di Emanuela è doloroso, coinvolgente: ricordo ancora, troppo, bene il giorno in cui sentii la notizia, e da quel momento in poi sono cresciuto col suo ricordo. [....] .



da http://tramasdeamistade.org/
Dopo Capaci, via D’Amelio: a ripensarci, 25 anni dopo, cosa proviamo? Dolore, smarrimento, incredulità, desiderio di unirsi, prendersi per mano e sconfiggere insieme, come Italia, quella “misteriosa e onnipotente mafia” – come la definì Paolo Borsellino – una volta per tutte, per poi festeggiare per le strade, coi canti e balli, come dopo la caduta del nazifascismo. Già, però, mentre il nazifascismo è davvero svanito, facendo sbocciare sulle sue ceneri la speranza, a 25 anni di distanza dalle stragi di mafia, non abbiamo ancora la sensazione che tutto sia passato: ci guardiamo ancora feriti, traballanti, come parti di una nazione ferita e traballante, che ancora protegge il mistero, che istituisce processi in cui lo Stato è accusatore e accusato, vittima e carnefice.
“Ma chi è lo Stato? Lo Stato siamo noi”; e su questo siamo d’accordo con Claudia e il marito Enrico. Lo Stato siamo noi, nonostante tutto: nonostante Borsellino sia morto con la sensazione che ad ucciderlo non sia stato solo la mafia, nonostante Emanuela facesse da scorta a obiettivi sensibilissimi – ma sì, diciamolo pure brutalmente, con le parole di Borsellino stesso – a morti che camminano – senza aver potuto svolgere il periodo di addestramento.
Quel periodo di addestramento avrebbe dovuto svolgerlo in Sardegna, ed è per questo che Emanuela, nella sua voglia di Sardegna e di casa, lo scelse: ma non ne ebbe il tempo.
Tutte le domande che porgo a Claudia riguardano la vita e il carattere della sorella, così che si delineano i tratti di un destino cieco e testardo che l’ha portata, come una eroina martire, a via D’Amelio con la forza.
Nel salone della loro casa d’infanzia, abbellito dalle foto di Emanuela, Claudia ripercorre quegli anni pur sempre giovanili e perciò spensierati. Non è semplice per nessuno incominciare a parlare, ma dopo qualche minuto riusciamo a concentrarci soprattutto su quella giovinezza e quella gioia, quella voglia di ridere che Claudia ancora conserva. Dopo la maturità, lei sarebbe voluta entrare in Polizia ed Emanuela diventare maestra. Fecero assieme i concorsi e i viaggi, assaporando la bellezza della forza fraterna –indistruttibile - e dello stare insieme. A Roma capita, però, che il destino scelga Emanuela in Polizia e che questo lavoro le piaccia, tanto da non farle cambiare idea neanche dopo la notizia di aver conseguito l’abilitazione all’insegnamento elementare. Cosa può esserci di più distante: la dolce tranquillità di una classe colorata di bambini e le vie di Palermo insozzate e insanguinate dai mafiosi.
Eppure ora la vita di Emanuela, a scuola, è conosciuta da tantissimi studenti che Claudia incontra spesso: sempre interessati - fin quasi all’impertinenza in certe domande – e perciò consapevoli.
Quando le diedero come destinazione Palermo, disse Emanuela: «Ma dove c’è la mafia?», non con cognizione, però, quasi con ingenuità e una perplessità sorridente, come a parlare di qualcosa di lontano.
Non ebbe paura e non si voltò indietro, in una città dalla quale invece Claudia, come confessa, sarebbe fuggita: ma la sorella era coraggiosa, e il coraggio è ciò che mi indica come aspetto del carattere che ricorda di più.
I giorni immediatamente prima dell’attentato Emanuela era a Sestu e non stava bene ma si preparava a ripartire. La madre avrebbe voluto che restasse ancora un po’, che si riprendesse ma, con naturalezza, lei rispose che anche gli altri avevano diritto ad andare in ferie e ripartì.
Chiamava a casa con regolarità, saltando solo raramente qualche giorno: rassicurava tutti, pur non potendo esporsi, e scherzava con Claudia.
Il sabato 18 non chiamò, e a casa non si preoccuparono. Domenica 19 però tardava e i genitori erano un po’ in ansia. Emanuela era a disposizione in caserma e quel giorno c’era bisogno di un agente nella scorta di Paolo Borsellino. Del seguito, poi, sappiamo tutto: il destino si è compiuto.
Non ho voluto chiedere nulla del padre e della madre: sappiamo che sono morti di dolore e ho scelto un silenzio di rispetto e vicinanza.
Non abbiamo parlato neanche dei mafiosi, dei processi, dei misteri: non mi interessavano in quel momento e, del resto, Claudia mi rivela che lei non ci vuole pensare a quelle cose. Si è sempre sentita accompagnata dallo Stato, da quella parte di esso che la circonda di attenzioni e non si dimentica mai di Emanuela.
Anche il fratello Marcello ora è sereno: è diventato poliziotto dopo sette anni di disoccupazione e dopo aver perso la sorella, i genitori, la moglie e un figlio.
Eppure anche parlando della sua vita e dei suoi dolori, sorridiamo pensando che ha un’altra figlia, di nome Emanuela e nata nel ’92.
Ci chiediamo come mai Emanuela non solo sia ancora, naturalmente, amata ma lo sia sempre di più: sicuramente per quel suo essere la prima e unica donna, ragazza, morta nell’adempimento del suo dovere da poliziotta. Come una beffa per quei mafiosi così patriarcali, così falsamente e vilmente virili. In questo periodo così duro per i diritti delle donne, la sua figura è ancora più preziosa.
Vado via e ora scrivo col cuore allo stesso tempo inquieto ma calmo, forte ma commosso, pensando che la mafia non ha vinto, perché non ci ha tolto il sorriso e la possibilità di ricordare Emanuela nella sua gioia di vivere.

E allora quelle domande di senso, persistenti, forse nella forza della vita hanno una risposta: ha avuto un senso la morte di tutte queste persone belle, perché semplici? Non c’era un altro modo perché l’Italia si ridestasse dalla sua narcotizzata anestesia?
I ragazzi hanno bisogno di figure di eroi martiri per essere consapevoli di dover combattere la mafia?
Che loro possano in futuro festeggiare, coi canti e i balli, la nuova Liberazione.


e  come   suggerisce  concita   nel suo  articolo  http://invececoncita.blogautore.repubblica.it/articoli/2017/07/19/strage-via-damelio-la-poliziotta-emanuela-loi/



Con Claudia e Enrico [ il fratello e  la sorella  di EManuela Loi ] ci chiediamo come mai Emanuela non solo sia ancora, naturalmente, amata ma lo sia sempre di più. La prima e unica donna, ancora una ragazza, morta quel giorno nell’adempimento del suo dovere da poliziotta. Come una beffa per i mafiosi così patriarcali, così falsamente e vilmente virili. In questo periodo così duro per i diritti delle donne, la sua figura è ancora più preziosa. Ci salutiamo dicendoci, pensando, che la mafia non ha vinto perché non ci ha tolto il sorriso e la possibilità di ricordare Emanuela nella sua gioia di vivere”.




















































19.7.12

Via d'Amelio 19 luglio 1992-19 luglio 2012 [c'era una volta 1992-1994 puntata VII] + intervista esclusiva ad uno dei pochi giornalisti che non credono alla trattiva tra stato e mafia Enrico tagliaferro


Da oggi  16  luglio   inizia  il rituale celebrativo per il 20° anniversario di Via d'Amelio . Strage \attentato di stampo terroristico-mafioso messo in atto il pomeriggio del 19 luglio 1992 a Palermo in cui persero la vita il giudice antimafia Paolo Borsellino e la sua scorta. L'agguato segue di due mesi la strage di Capaci, in cui fu ucciso il giudice Giovanni Falcone, segnando uno dei momenti più tragici nella lotta alla mafia Da quei pochi ricordi diretti , viste che non vidi subito in diretta come quelle per capaci ( vedere miei post del 22 e 23 maggio che potete trovare qui ) ero a raccogliere  bacche  di mirto per  farne  talee  con mio padre  e mio fratello  .  
foto ansa
Dai quei pochi ricordi dell'epoca, aveva  16 anni,fu  un attentato di stampo 
terroristico-mafioso messo in atto il pomeriggio del 19 luglio 1992 a Palermo in cui persero la vita il giudice antimafia Paolo Borsellino e la sua scorta :   1)  Agostino Catalano il  capo scorta  ., 2)  Emanuela Loi prima donna a far parte di una scorta e a cadere in servizio, Vincenzo Li Muli,Walter Eddie Cosina ed infine  Claudio Traina.
L'unico sopravvissuto   fu  Antonino Vullo, risvegliatosi in ospedale dopo l'esplosione, in gravi condizioni. L'attentato segue di due mesi la strage di Capaci, in cui fu ucciso il giudice Giovanni Falcone, segnando uno dei momenti più tragici nella lotta alla mafia.
Essi sono ricordi  basati  su immagini tv (  vedere  video sotto  )  che vedemmo appena   rientrammo a  casa  di nonna  materna   


                       film e  documentari sull'eccidio 





 L'esplosione, avvene in via Mariano D'Amelio dove viveva la madre di Borsellino e dalla quale il giudice quella domenica si era recato in visita, avvenne per mezzo di una Fiat 126 contenente circa 100 chilogrammi di tritolo sui  dubbi espressi   da  gli agenti di scorta, via d'Amelio era una strada pericolosa, tanto che era stato chiesto di procedere preventivamente ad una rimozione dei veicoli parcheggiati davanti alla casa, richiesta però non accolta dal comune di Palermo, come rilasciato in una intervista alla RAI da Antonino Caponnetto.
Fin qui i   ricordi misti .
Questo    fino a  che   s'inizio  a parlare  della trattiva  tra mafia e stato  che  appresi da trasmessi  come Blu notte di Lucarelli e  siti  come  http://www.misteriditalia.it  . Ora  inizialmente  c'era lo stesso proposito   , per  chiarire e  chiarirmi  meglio  alcuni  aspetti   della trattativa  (  verità assoluta ed indiscutibile secondo alcuni  ,  verità  con critica  come il  sottoscritto  , presunta   secondo alcuni  , inesistente o bufala  secondo altri  ) ,  dei post  su  capaci   cioè  il non parlare   del contrastato argomento  ,  e lasciare parlare solo  i ricordi diretti o indiretti che fossero  . Ma  visti  i classici fiumi  d'inchiostro  e  di bit   e tutta  una serie  d'articoli  trasmissioni  ,tv  , dvd  , libri ,ecc   a senso  unico  cioè pro trattativa  , i  miei dubbi  su quello che  gli stessi fautori  d'essa definisco  basilare    cioè il pappello  di  Vito Ciancimino   e le  dichiarazioni  del figlio  Massimo Ciancimino    , ed [  SIC  ] il svincolare  ( come il  caso  di  Adriana  stazio delle agende  rosse )  o  il non rispondere ( motivi di salute o paura  d'essere messi in discussione   , Salvatore  Borsellino spazio facebook  e email al sito http://www.19luglio1992.com/.  
Il mio  intento  era intervistare   sia  i Trattatisti  (   sono sempre  a  disposizione per  repliche  ed eventuali richieste di rettifiche    che  questo post   dovesse potare  )  sia  gli anti  o i dubbiosi \ negazionisti   . Ora  Sono riuscito  nel secondo ,  intervistando  via  facebook  il maggiore  dei rappresentati  Enrico Tagliaferro , riprendendo le  domande (  qui il testo originale  )  fatte dall'amica Antonella Serafini  (  di www.censurati .it )  al d Antonio Ingroia  ovviamente  modificandole per  renderle  più comprensibili  a  chi non legge i giornali ( se  non quelli sportivi  )  o  vede  solo programmi demenziali  ,  insomma  agli analfabeti di  ritorno  
Egli  è un blogger noto sul web come “il Segugio” ( indirizzo del blog: http://segugio.daonews.com/ ), autore nel 2010 di un libro autoprodotto dal titolo “Prego, dottore!”, acquisito agli atti del processo “Mori-Obinu”, a Palermo, in quanto latore di argomenti piuttosto convincenti in relazione alla dubbia autenticità di alcune carte prodotte dal teste Massimo Ciancimino, in un periodo in cui lo stesso Ciancimino era considerato un’icona dell’antimafia non essendo ancora incappato nel malaugurato incidente che gli costò l’arresto con un’accusa di calunnia per la falsificazione di un documento.
Tagliaferro in questi ultimi anni insieme ad altri blogger giornalisti come Antonella Serafini (censurati.it) o Anna Germoni, ha seguito le vicende siciliane che hanno visto i Reparti Operativi Speciali dei carabinieri al centro di accuse molto gravi, studiando scrupolosamente le carte e le testimonianze, e proponendo quindi un’analisi critica del lavoro della magistratura che ha sollevato nei suoi lettori, come pare, più di un dubbio in relazione alle ipotesi accusatorie formulate a carico di uomini come il capitano Ultimo (Sergio De Caprio) e il generale Mori.
Tagliaferro in particolare, con le sue documentate inchieste, ha acceso i riflettori su indizi di dubbia autenticità e su testimonianze incongrue, in relazione a questa triste storia.
Purtroppo il nostro sistema dell’informazione da ben poco spazio a chi non si accoda alle “verità” ufficiali.

Abbiamo così deciso di proporgli alcune domande.



1) Con riferimento alla perquisizione del febbraio 2005 della casa all’Addaura di Massimo Ciancimino, tu non vedi forse un’incongruenza fra quanto riferito dal testimone a proposito della cassaforte “volontariamente non perquisita” dai carabinieri, ed il fatto che vi sia stata una contestuale perquisizione, da parte degli stessi carabinieri, di un magazzino, persino facoltativa in quanto non disposta nel mandato del magistrato, in cui venne repertato il famoso pizzino strappato, meglio noto come “lettera di Provenzano a Berlusconi”, oltre che a copiosa documentazione manoscritta di don Vito? E come si conciliano le due versioni date dal teste, una in cui Ciancimino per telefono dalla Francia suggerisce al suo impiegato di consegnare ai carabinieri la chiave della cassaforte, e l’altra in cui dice di aver parlato con il suo dipendente solo “a perquisizione avvenuta”?
Tu hai già posto l’accento, nella tua domanda, su alcune visibili incongruenze. Ma ce ne sono molte altre, su quel fatto. Massimo Ciancimino dapprima racconta che i carabinieri, durante quella perquisizione nel 2005, rinunciarono ad aprire la sua cassaforte, nonostante questa contenesse il preziosissimo “papello”, quello poi da lui consegnato in fotocopia e che oggi noi conosciamo. Successivamente uno dei carabinieri che parteciparono alla perquisizione, affermò invece in aula che un suo collega ritrovò il papello nascosto in una controsoffittatura, se lo portò in copisteria per fotocopiarselo (ma senza porre la fotocopia agli atti del sequestro), e quindi lo ripose nuovamente dove l’aveva trovato.
Tutte queste narrazioni possono lasciare, in chi le recepisce, perplessità, e come un senso di sconcerto, di mistero. Io invece credo che tutto diventi più chiaro e meno misterioso, se si guarda sotto un’altra luce, vale a dire tenendo in considerazione in primis che il “papello” di Ciancimino, già rinviato a giudizio per aver falsificato, reo confesso, un altro documento, contiene un evidente anacronismo, tale da indurre a dubitare anche di quella fotocopia, e che il secondo testimone è un carabiniere non proprio dei primi della classe, già condannato in primo grado per falso materiale, avendo falsificato la firma del suo comandante in calce ad una dichiarazione scritta, ed essendo quindi fisiologicamente ostile verso i propri comandi dell’epoca.
Ci troviamo quindi di fronte ad incongruenze o fatti sconcertanti scaturiti dalle testimonianze di due probabili falsari. Tenendo in conto questo, forse tutto quadra meglio, e si spiegano le incongruenze.

 2 ) Parliamo della trattativa fra lo stato e la mafia. Secondo la teoria dei magistrati, questa avrebbe avuto origine da un contatto, realizzato a questo scopo, fra i carabinieri del ROS e don Vito Ciancimino. Ti pare forse un’iniziativa logica, quella di impiegare due ufficiali dei carabinieri, già distintisi per un’attività senza tregua contro la criminalità e per aver arrestato molti pericolosi latitanti, come ad esempio Ciccio Madonìa, e proprio in quel momento concentrati in un’inchiesta sulla mafia e sugli appalti in Sicilia, come emissari della “trattativa”, quando era disponibile, ad esempio, il famoso “signor Franco” il quale, a sentire le testimonianze, era un rappresentante delle istituzioni che nel contempo aveva contatti molto più diretti dei carabinieri con Cosa Nostra?

Le istituzioni con cui Cosa Nostra avrebbe dovuto trattare, erano forse rappresentate dai due carabinieri, Mori e De Donno, e da loro soltanto?
L’idea di un’iniziativa del “signor Franco” intesa come migliore e più logica opportunità, per intavolare una trattativa fra lo stato e la mafia, rispetto a quella assunta da due nemici giurati (non solo metaforicamente) dell’organizzazione criminale, quali erano Mori e De Donno, è logicamente sostenibile di per se stessa,  ma irrealistica e non ipotizzabile, in quanto non solo il sottoscritto, ma anche, ad esempio, i magistrati di Caltanissetta dubitano che questo sig. Franco possa configurarsi veramente come un’entità appartenente al mondo reale. Comunque, pur prescindendo  da ogni termine di paragone,anche in senso assoluto mi pare evidente che se veramente qualcuno nello Stato, volendo piegarsi ad una trattativa di natura “concessoria” con Cosa Nostra, avesse deciso di affidare, anziché a qualcuno dei molti “contatti” possibili con la mafia (magari selezionato nell’ambito delle molte contiguità e collusioni che certamente esistevano), l’incarico a due segugi da caccia grossa, capaci di mille trucchi pur di catturare la preda, quali erano Mori e De Donno, e conosciuti dai mafiosi come tali, beh… non mi pare che potrebbe considerarsi una brillante idea, se questa fosse riferita ad un fatto vero. Infatti io sono convinto che le cose non stiano a quel modo. Cosa Nostra sapeva benissimo che il Generale Dalla Chiesa era stato come un padre ed un fratello, per il colonnello Mori, così come lo stesso Mori lo era stato per il maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso pochi mesi prima (aprile 92) dagli assassini di Cosa Nostra. Avete mai visto un assassino che, per intavolare una trattativa finalizzata ad ottenere qualche vantaggio, accetta fiducioso, quale interlocutore, il fratello oppure il padre, o comunque un compagno d’armi delle proprie vittime? E’ chiaro che non esiste al mondo un interlocutore più inopportuno ed inadatto di quello, potendo egli come obbiettivo primario, anche per ragioni personali, sempre e soltanto la cattura degli assassini.
Ma questa è soltanto una, fra le tante incongruenze di questa fantastica ricostruzione storica, quella della trattativa.



3)

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...