
Mario era restituzione,senso della precarietà e roccia verso l'orizzonte.Saperlo lì, nel suo Veneto rorido di cielo, confortava. Dava la certezza del compattarsi del tempo, della regolarità del vivere, della rappacificazione col creato. Bambini, il suo Sergente nella neve ci aveva scaldato lacrime affettuose. Cinquant'anni dopo la prima edizione, eccolo in scena, nel grandioso affresco corale di Marco Paolini. Ma se in Marco gli occhi piovono di ariosità ruzantiane, in Mario tutto era come trattenuto, raccolto, silente. Non un fiato di troppo. Stagioni. Solo quelle, il suo punto d'arrivo. La sua quinta stagione, quella umana, è terminata due giorni fa. Ma il viaggio prosegue. Perché Mario ha raggiunto l'albero, la pietra, la festuca. Si è eternato evolvendo; e la morte non è, per lui, spegnimento, ma transustanziazione. Sì, finché è stato uomo, Mario stava in simbiosi con la neve, i ciocchi, i rossori gelati. Eppure stamane, quando finalmente il sole è ricomparso dopo giorni autunnali, era come se la terra ringraziasse l'umano divenuto seme, senza il quale nulla sussisterebbe. E lo ha riaccolto nel grembo dal quale tutti usciamo, ma di cui egli solo aveva consapevolezza, con l'antico e semplice saluto: "Bentornato, Mario".
Daniela Tuscano