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23.1.22

Le storie dimenticate degli italiani non ebrei deportati ad Auschwitz

 come promesso nei post  precedenti  dedicati  a  tale  giornata     riporto   qui   un articolo interessantissimo      do   editorialedomani  del  22\1\2022     di  Laura Fontana  Storica della Shoah ed esperta di didattica. È responsabile per l’Italia del Mémorial de la Shoah di Parigi, ha pubblicato numerosi saggi scientifici in diverse lingue. È autrice di Gli Italiani ad Auschwitz. 1943-1945. Deportazioni, “Soluzione finale”, lavoro forzato. Un mosaico di vittime, Oswiecim, Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, 2021. 



UN MOSAICO DIFFICILE DA COMPORRE

Le storie dimenticate degli italiani non ebrei deportati ad Auschwitz





Nella foto: Vittoria Gorizia Nenni (Wikipedia)



Nonostante la mole impressionante di studi oggi disponibili, Auschwitz resta per molti, sostanzialmente, un’idea e un’immagine (del male, della crudeltà, della disumanizzazione). Quando a prevalere è la dimensione simbolica o il discorso morale attorno al tema, il rischio è quello di sconnettere i diversi elementi della storia e di tramandare un racconto sempre più generico e impreciso, confondendo i percorsi delle vittime e i contesti della loro deportazione. L’intuizione di approfondire queste vicende mi ha portato a scoprire le storie di 1.200 non ebrei internati in quel campo. Sono emerse le biografie di tante storie dimenticate di “triangoli rossi” (simbolo nel lager dei prigionieri politici). Dalla fine della guerra, la storia di Auschwitz è stata abbondantemente documentata. Eppure, la conoscenza comune resta limitata a pochi fatti essenziali (date, numeri, nomi) e la narrazione appare improntata a una visione parziale, non inclusiva di tutte le politiche criminali che i nazisti realizzarono in questo sito. In sintesi, per tutti Auschwitz è la Shoah e ogni prigioniero dietro il filo spinato era ebreo, destinato alla camera a gas. Dal 1943 al 1944 lo sterminio costituì la funzione principale del sito (almeno il 90 per cento delle vittime furono ebrei). Ma la Shoah – il cui svolgimento non coincise, per la maggior parte, con la cronologia di Auschwitz – non rappresentò mai l’unico obiettivo dei nazisti. L’istituzione stessa del campo, nel 1940, non fu motivata dalla logica di eliminare gli ebrei, ma dal contesto di brutale repressione della Polonia. Anche quando Auschwitz iniziò ad assumere un ruolo centrale nella Soluzione finale, il sito mantenne la sua funzione di campo di concentramento e di lavoro forzato, internando prigionieri che non erano solo ebrei. Nonostante la mole impressionante di studi oggi disponibili, Auschwitz resta per molti, sostanzialmente, un’idea e un’immagine (del male, della crudeltà, della disumanizzazione). Quando a prevalere è la dimensione simbolica o il discorso morale attorno al tema, il rischio è quello di sconnettere i diversi elementi della storia e di tramandare un racconto sempre più generico e impreciso, confondendo i percorsi delle vittime e i contesti della loro deportazione. Tra storia e microstoria Capodistria (Koper) 1945.  Su questo riflettevo qualche anno fa, quando ho intrapreso il progetto di un libro sugli italiani
Jolanda Marchesich mostra il suo numero di
matricola di Auschwitz tatuato sul braccio.
deportati ad Auschwitz. L’intenzione era di narrare le vicende umane della Shoah italiana a un ampio pubblico di lettori, dando spazio alle memorie dei superstiti e adottando un approccio integrato tra storia e microstoria, per far emergere le relazioni tra i diversi ambiti di azione che avevano reso possibile quella tragedia. All’epoca non conoscevo la storia di italiani non ebrei finiti ad Auschwitz, salvo quella di tre donne, arrestate in luoghi e circostanze diverse: Vittoria (Vivà) Nenni, figlia del leader socialista Pietro Nenni e deportata come resistente dalla Francia, la triestina Ondina Peteani, catturata come giovane staffetta partigiana, e Ines Figini, operaia della Tintoria Comense, arrestata perché aveva scioperato. L’intuizione di approfondire queste vicende per collocarle nel racconto della deportazione italiana ad Auschwitz mi ha portato a scoprire le storie di 1.200 non ebrei internati in quel campo, grazie a una lunga ricerca negli archivi europei. Il libro ha, quindi, imboccato un’altra strada, più complessa e ambiziosa, volta a riscrivere una storia che fino ad allora era stata raccontata solo attraverso la lettura della Shoah. Dalle carte degli archivi sono emerse le biografie di tante storie dimenticate di “triangoli rossi” (simbolo nel lager dei prigionieri politici). Le biografie di Ondina e di Ines sono state la chiave per conoscere altre storie di giovani italiane, almeno un migliaio, quasi tutte arrestate nel 1944 nelle province di Udine, Gorizia, Trieste, Fiume, Pola e Lubiana, incorporate nel Reich dopo l’8 settembre. Territorio sottoposto a una durissima repressione nazista, il litorale adriatico fu oggetto di vaste azioni di arresto e di rastrellamento di civili, volte a stroncare la Resistenza e raccogliere manodopera per le industrie belliche tedesche. Maria Rudolf, 18 anni di Gorizia, o Adriana Bruschi, 16 anni di Fiume, sono due esempi tra centinaia di giovanissime italiane coinvolte nell’azione partigiana. Altre, invece, vennero arrestate perché sospettate di fiancheggiare le bande partigiane. Alla cattura, spesso su delazione dei fascisti locali, seguì talvolta la tortura fisica, persino lo stupro. Aurelia Gregori, slovena di 23 anni, partorirà ad Auschwitz la sua bimba, frutto di violenza, pochi giorni prima dell’arrivo dell’Armata rossa. Molte delle politiche italiane deportate da Gorizia e Trieste erano slovene e croate, nate in località annesse all’Italia dove il fascismo aveva pesantemente discriminato queste minoranze, imponendo un’italianizzazione forzata. Negli anni tra le due guerre, si era diffuso nelle popolazioni locali un sentimento sempre più forte di opposizione, esacerbato poi dall’occupazione nazista. Da Bergamo furono deportate circa quaranta operaie scioperanti delle fabbriche lombarde: una misura punitiva, unita a ragioni di sfruttamento economico. Resta da chiedersi, perché solo loro finirono ad Auschwitz, tra molte altre scioperanti. Dimensione polivalente È complicato interpretare per tutte queste italiane la motivazione che ne determinò la deportazione ad Auschwitz. Nel 1944, oltre che centro di sterminio per gli ebrei, Auschwitz era un gigantesco complesso di campi adibiti al lavoro forzato, non solo industriale. Eppure, le testimonianze delle italiane superstiti convergono su un punto: quasi nessuna dovette svolgere un lavoro a scopo produttivo o in fabbrica. Peraltro, tante vi rimasero internate solo per il periodo di quarantena, a ricordare che Auschwitz funzionava anche come campo di smistamento di prigionieri. Fu solo dopo il trasferimento in altri lager che le italiane iniziarono a essere impiegate per la produzione bellica. Quanto ai più di duecento uomini internati come triangoli rossi, nessuno risulta arrivato direttamente dall’Italia, ma trasferito con specifici trasporti di prigionieri, scelti per categoria (malati e inabili al lavoro per Majdanek) o per professione (lavoratori specializzati e medici da Mauthausen e Dachau). Gli uomini giunsero ad Auschwitz in condizioni ben peggiori delle connazionali. Già sfiniti dal duro lavoro in diversi campi, spesso sei o sette lager diversi, come per il piemontese Pio Bigo, in molti non fecero ritorno a casa. Generalmente i medici, uomini e donne, che ad Auschwitz furono scelti per la loro professione, come Luciana Nissim, amica di Primo Levi, o il maggiore dell’esercito Giuseppe Filippini, poterono contare su migliori condizioni di sopravvivenza. Per ognuno il trauma rimase indelebile, anche per l’impossibilità di curare i prigionieri ammalati. Solo ricollocando al centro del quadro la dimensione polivalente di Auschwitz nel 1944, quando vi arrivò la quasi totalità degli italiani, è possibile attribuire un senso alle tante e diverse storie, in particolare quelle delle donne non ebree. Il lavoro forzato, inteso però in senso ampio, come sfruttamento del corpo degli internati a servizio delle mansioni più disparate (tra le quali svuotare le latrine, trasportare i cadaveri, livellare continuamente un terreno paludoso e ghiacciato), rimase una funzione importante nella storia del complesso di Auschwitz, mai però prevalente, anche durante gli anni dello sterminio e al termine delle operazioni di uccisione col gas, nell’autunno 1944. È il 2 dicembre 1944 quando, a pochi giorni dalla grande evacuazione, arriva da Mauthausen un trasporto numeroso di lavoratori specializzati, come fabbri, falegnami, elettricisti, ma anche cuochi: tra loro, 165 prigionieri registrati come italiani. Non è un trasferimento casuale, ma giustificato dall’indicazione delle diverse professioni che hanno motivato la scelta di quei prigionieri da inviare proprio ad Auschwitz, dove la pluralità dei campi e sotto-campi della sua amministrazione, richiedevano con urgenza molta manodopera. Allo stesso modo, le continue epidemie di tifo e malattie contagiose, richiedevano la presenza di medici anche per curare le SS e le loro famiglie. Gli ultimi cinque medici prigionieri italiani, internati come triangoli rossi a Dachau e a Mauthausen, giungono ad Auschwitz il 22 novembre 1944 e il 3 gennaio 1945. La storia degli italiani ad Auschwitz è un mosaico difficile da comporre, perché mancano alcuni tasselli. Le fonti sono frammentarie e le testimonianze dei superstiti non ebrei poco numerose, rilasciate in età molto anziana, oppure raccolte in sloveno e croato e non tradotte. Raccontare i diversi aspetti di una tragedia, ricordando tutte le vittime, non serve solo a raccogliere le memorie e a riscrivere il racconto storico. È anche un atto di giustizia per tutti coloro che per tanto tempo sono stati ingiustamente dimenticati.

29.12.21

perchè nei licei s'insegna la filosofia degli uomini e non delle donne ?

 leggo sul mensile   gratuito   io aqua   sapone  di  Ven 22 Ott 2021 | di Angela Iantosca | Interviste Esclusive questa  intervista  a Mariarosaria Taddeo (  FOTO  A  SINISTRA   PhD in Filosofia Teoretica e Pratica, Università degli Studi di Padova; Laurea Magistrale summa cum laude in Filosofia Università degli Studi di Bari) è Professore Associato e Senior Research Fellow presso l’Oxford Internet Institute dell’Università di Oxford. È anche Defense Science and Technology Fellow presso l’Alan Turing Institute di Londra. Il suo lavoro si concentra principalmente sull’analisi etica dell’intelligenza artificiale, dell’innovazione digitale, della sicurezza informatica e dei conflitti informatici. Ad ottobre ha partecipato all’undicesima edizione dell’Internet Festival  (  www.internetfestival.it  )  a Pisa per parlare di moral machine, festival che prosegue online fino a dicembre. 
Essa a otto anni si poneva domande su Dio e l’universo, su finito ed infinito e su chi genera cosa, provando a dare un senso ai suoi ‘perché’, grazie alle conversazioni con uno zio professore prima e a quelle con un professore di filosofia poi. Oggi Mariarosaria Taddeo è tra le prime 50 donne italiane che lavorano sui temi della tecnologia e della sua governance; è tra le 100 donne più influenti nella tecnologia del Regno Unito e tra le prime 100 donne che lavorano sull’etica dell’intelligenza artificiale nel mondo. Professoressa associata e ricercatrice senior 
presso l'Oxford Internet Institute, il suo lavoro si concentra principalmente sull’analisi etica dell’intelligenza artificiale, dell’innovazione digitale, della sicurezza informatica e dei conflitti informatici.
 Prima  dell'intervista  , chiedo perdono  ,   un ulteriore premessa  :   Poiché non sono nè un filosofo  accademico  nè  un laureato in filosofia la mia   risposta  è ovvia  e  scontata      perchè il sistema  scolastico  \  culturale è  un sistema   patriarcale  e maschilista    , lancio   con  il  titolo interrogativo   la domanda   a miei compagni  di viaggio \  di strada   laureati  ed  insegnanti  in filosofia  . 
Adesso godetevi  l'intervista  in questione  e  gli eventuali link  sotto riportati   per  chi  volesse   approfondire  tali  argomenti  



 
All’undicesima edizione dell’Internet Festival, organizzato a Pisa nel mese di ottobre, è intervenuta per parlare di moral machine: che cosa si intende?
«Questa espressione è un ossimoro, perché non esistono le macchine morali. Ma fa riferimento a qualcosa che sappiamo: tutte le tecnologie, dalla prima leva per sollevare il mondo all’intelligenza artificiale, hanno un impatto etico nella misura in cui aiutano a trasformare la nostra interazione con il mondo o il mondo stesso, quindi hanno delle ricadute sociali ed etiche. L’esempio che faccio spesso è quello della corrente elettrica: nel momento in cui si è creata l’infrastruttura elettrica si sono allungate le giornate lavorative delle persone, perché le ore al buio sono diventate produttive e questo ha trasformato l’interazione sociale, le opportunità e i problemi della società. La tecnologia, quindi, ha un impatto etico e sociale e noi vogliamo capirlo e indirizzarlo, cioè vogliamo fare in modo che la tecnologia sia utilizzata per rendere migliore la società. Questo nel senso più ampio. Nel senso più specifico, moral machine attiene all’ambito dell’intelligenza artificiale e a questo miraggio, che, se si fossero mai costruite queste macchine intelligenti così come noi umani siamo intelligenti - cosa che dico subito è fantascienza, non scienza -, allora questa macchine sarebbero dovute essere morali, comportandosi secondo i nostri valori e, se non lo fossero state, ci saremmo trovati in acque problematiche, perché, essendo macchine intelligenti e autosufficienti, avrebbero potuto sopraffare il genere umano». 
 
Ma non è questo il problema. 
«No. Quindi che cosa ci teniamo del moral machine? Il digitale è una tecnologia altamente trasformativa tanto delle nostre interazioni con l’ambiente, tanto dell’ambiente stesso, tanto della nostra comprensione dell’ambiente. Pensiamo al concetto di fisicità e realtà: fino a qualche tempo fa tangibile e reale coincidevano; ora possiamo dire che la conversazione che stiamo facendo su Skype è reale, ma non è fisica, come i file del prossimo articolo che scriverò non sono tangibili, ma sono molto reali. Si tratta, quindi, di una trasformazione concettuale che il digitale ha determinato. Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale abbiamo capito che è una tecnologia, che anche se non ha a che vedere con l’intelligenza umana porta con sé grandi potenzialità e grandi rischi: progettarla e usarla in modo etico è una delle sfide principali del nostro tempo». 
 
Lei è laureata in Filosofia e si occupa di intelligenze artificiali: che collegamento c’è tra filosofia e tecnologia?
«La filosofia della tecnologia esiste da sempre. La tecnologia pone molte domande concettuali a cui la filosofia è chiamata a rispondere. In contesti anglosassoni e nelle scuole di filosofia analitica, filosofia e tecnologia sono un connubio frequente. Forse è un connubio meno frequente nella filosofia continentale, anche se filosofi come Heidegger o Foucault si sono posti questioni che hanno a che fare con la tecnologia. Inoltre, i filosofi da sempre si occupano del tempo in cui vivono: Platone, Aristotele, Kant si preoccupavano dei problemi del loro tempo. E nel nostro tempo al centro c’è la tecnologia, quindi è normale che i filosofi se ne occupino». 
 
Come usarla e non abusarne della tecnologia?
«Non sempre è possibile prevedere e quindi controllare gli effetti e gli usi indesiderati della tecnologia. Nel contesto del digitale è valso per anni il motto della Silicon Valley del fallisci spesso e in fretta per poi ricominciare, senza preoccuparti delle conseguenze, perché l’innovazione deve andare avanti. Questo è uno spirito pionieristico che non tanto collima con le società di oggi. Nella scorsa decade è diventato sempre più chiaro che l’innovazione tecnologica ha bisogno di governance e di strategie che allineino l’innovazione con i valori delle nostre società. È per questo che mi piace molto la strategia europea della Twin Transitions – che lega l’innovazione digitale alla sostenibilità -. Definire governance e strategie non è semplice, la cosa richiede di considerare interessi diversi e equilibri precari e bisogna indirizzare l’innovazione senza rallentarla troppo, favorirne il potenziale buono e nello stesso tempo costruire delle condizioni, identificare e mitigare i rischi. A volte in tutto questo la chiarezza concettuale di analisi filosofiche può offrire un aiuto importante». 
 
Donne e tecnologia, un tema che spaventa più di qualcuno. Quanto siamo indietro nel nostro Paese e all’estero?
«Io sono sempre un po’ in dubbio: non so quanto sia una questione di Paese o personale. C’è sempre, anche nel Paese più evoluto, qualcuno che pensa che sia strano che una donna scriva poesia o costruisca ponti. In Italia - ma non solo - abbiamo un retaggio sia culturale sia formativo. Faccio parte di quella generazione in cui le studentesse di Fisica o Informatica si contavano su una mano, mentre a Lettere, Filosofia o Psicologia la proporzione era quasi inversa. Mi sono sempre chiesta quanto di queste proporzioni fosse il risultato di un retaggio culturale e sociale, un retaggio che abbiamo pagato e continuiamo a pagare in termini di skills. Forse la differenza con gli altri Paesi è che all’estero il problema è riconosciuto in maniera più evidente e vengono prese misure che tendono a limitarlo. Confesso una duplice ambizione: da un lato immagino e lavoro nel mio piccolo per una società in cui la diversità sia riconosciuta come un valore e un assett, dall’altro lato per quello che attiene alla vita professionale, vorrei smettere di pensare in termini di uomini e donne e pensare in termini di persone competenti o non competenti. E immagino una società in cui le opportunità per acquisire competenze siano alla portata di tutti. Ma so che queste ambizioni richiedono molto lavoro». 
 
Lei è nata e cresciuta in Italia, dove si è anche laureata e poi è emigrata, dunque è un cervello in fuga: quando ha deciso di cercare altrove nuove opportunità? 
«Sono andata via la prima volta a 22 anni, ho fatto un Erasmus a Berlino, che ha cambiato la mia prospettiva. A Berlino, per la prima volta, mi sono sentita Europea e non solo Italiana e mi sono ritrovata al centro di mondo che transitava verso il digitale. Quando sono partita per la Germania, vedevo l’Erasmus come una pausa non una fuga; quando sono rientrata ho capito che era stato uno spartiacque.  
Sono successe in un secondo momento delle cose che hanno definito la mia scelta di studiare all’estero. Io ho fatto un dottorato in Italia (a Padova), quindi non posso dire che non ci siano state date opportunità: certo, trovare quelle opportunità è stato tremendamente difficile. La scelta, poi, di cercare contatti ad Oxford è stata molto più consapevole ed ha avuto a che fare anzitutto con la determinazione di voler lavorare su temi di tecnologia, filosofia e etica. Quando ho iniziato ad occuparmi di questi argomenti, Oxford era uno dei pochi posti in Europa in cui si parlava di filosofia della tecnologia ed etica della tecnologia. C’era già un gruppo che se ne occupava, colleghi che avevano gruppi di ricerca. Inoltre, noi filosofi seguiamo delle scuole ed io seguivo più la scuola analitica che quella continentale, quindi è stato ulteriormente ovvio orientarmi su Oxford».
 
Lei lavora anche con la Nato: qual è il suo ruolo?
«Faccio parte di un gruppo di studiosi composto da esperti di tecnologie e militari creato per capire come le tecnologie del digitale possono essere usate a supporto della sicurezza e anche del benessere delle persone che sono impiegate in un campo di battaglia. Poi collaboro da tempo in diversi contesti per quanto riguarda l’analisi dell’impatto etico dell’uso del digitale per la difesa nazionale, come per esempio la definizione dei principi etici per l’uso di intelligenza artificiale nei conflitti cibernetici. La Nato ha un ruolo importantissimo nella spinta verso la definizione di come gli Stati si comportano in certi contesti, in questo caso quello cibernetico. Non definisce leggi, ma si determinano delle prassi, a volte anche non scritte, ma che sono poi rispettate dagli Stati Membri e dagli alleati. Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, soprattutto nell’ambito dei conflitti cibernetici, non abbiamo una regolamentazione delle State practices e quindi guardare un po’ a ciò che la Nato dice e fa o poter contribuire alle discussioni su cosa sia giusto fare è un grande opportunità per guidare l’uso dell’intelligenza artificiale, che nel contesto della difesa nazionale ha un enorme potenziale, ma pone anche seri rischi per la stabilità internazionale e i diritti dei cittadini».
 
Quando ha scoperto questa passione?
«Dico sempre che ci sono nata. è un’attitudine. Sin da piccola mi facevo domande un po' strane sulla natura delle cose … Eh sì, avevo di questi problemi (Ride – ndr) di cui riuscivo a discutere solo con uno zio che è stato un professore di filosofia in un liceo napoletano. Negli anni poi le risposte a quelle domande sono venute dai libri di filosofia. Quando poi ho scoperto la logica, che mi ha insegnato a mettere in ordine i pensieri, ho capito che non c’era altra strada».
 
A delle giovani ragazze che si affacciano a questo mondo che consigli darebbe? 
«C’è una cosa che è importantissima, che è forse la più importante che mi hanno insegnato: bisogna buttare il cuore oltre l’ostacolo. Finché si rimane nella confort zone, il salto non è mai abbastanza alto. E questo vale per tutto. Vale sempre. Per me è stato utile capire questa cosa, perché con il cuore oltre l’ostacolo è difficile distrarsi o lasciarsi intimorire. Per le ragazze che vorrebbero fare le filosofe il cuore oltre l’ostacolo vale doppio. In Italia siamo abituati a pensare alla filosofia come alla storia della filosofia e leggiamo questi libri bellissimi, ma difficilissimi, che sono un deterrente per i più. Ma la filosofia, prima di essere storia della filosofia, è ragionamento sul mondo. Quindi i filosofi osano, hanno l’ambizione (e quindi l’entusiasmo, l’impegno e la disciplina) di contribuire a capire e cambiare il mondo (anche solo un po’) con la forza delle proprie idee».  
 
Se potesse intervenire nei programmi delle scuole, quale strategia adotterebbe?
«La copierei al mio professore di filosofia del Liceo: smettete di leggere i manuali e leggete i testi. Il manuale è una sintesi, che rischia spesso di rendere le analisi filosofiche tediose. Il testo, invece, anche se scritto in modo un po’ complesso, rivela molto di più dell’autore, delle sue teorie, del momento in cui sono state definite. Poi, inserirei l’insegnamento di tanta logica. La logica sta alla filosofia come la matematica all’ingegneria: non si costruisce un’analisi, un argomento stringente senza la logica, non si costruisce un palazzo che regga senza fare calcoli precisi… A parte il suo ruolo per la filosofia, la logica è un’alleata dei ragionamenti che noi tutti facciamo nel quotidiano, quindi studiarla non può che essere un valore».   

SITOGRAFIA   

 

19.5.20

Andy Rocchelli, una storia da raccontare e da far uscire dalle nebbie

Fra le tante storie  lette  o sentite  ( video e  podcast  )  durante  questo periodo  eccovene  una  molto bella   . Essa descrive benissimo   il  tipo di quelle    di cui  ho parlato nel precedente  post  .
Lo  so che non è mia  , cioè raccontata  da me  ma d'altri . Ma   è  grazie  a persone  come   colui che   ha  fatto    l'articolo e   l'ha  raccolta    che   tali  vicende    rinascono     riemergono  dalle  nebbie   del tempo e  dall'oblio in cui  i media maistream  e i politicanti le  hanno   fatte  finire

da https://www.mariocalabresi.com/stories/


 Ci sono foto che nella vita non si dimenticano mai, che ci accompagnano, che formano il nostro immaginario e segnano la nostra memoria. Di questa ricordo i volti dei bambini, nove o dieci bambini pigiati in una dispensa sotterranea, tra barattoli di conserve, marmellate, pomodori, peperoni e cetrioli sottaceto. Li avevano stipati in questa cantina, a cui si accedeva attraverso una piccola botola, per proteggerli dai bombardamenti. Alcuni erano orfani, tutti erano stati raccolti e ospitati da una famiglia che provava a salvarli.





Ucraina, maggio 2014. Bambini rifugiati in una cantina per proteggersi dai bombardamenti a Sloviansk, durante il conflitto tra nazionalisti e separatisti filorussi (foto ©Andy Rocchelli/Cesura)

Nella foto cinque di loro guardano verso l’alto, la bimba piccola con il cappello di jeans ha un’espressione che sembra mescolare stupore e paura, gli altri fissano con fiducia il fotografo. Sono nascosti sotto il fronte: sopra quella casa, in quel momento, passava il confine estremo di un’idea di Europa. Da un lato c’erano gli ucraini che volevano diventare europei, dall’altra quelli che guardavano a Mosca, in mezzo, intrappolati, gli innocenti che avevano la colpa di abitare nel posto sbagliato.Questa foto la pubblicai sulla “Stampa” lunedì 26 maggio 2014. Era stata scattata pochi giorni prima, ma il fotografo non c’era più. Era stato ucciso insieme al suo amico e compagno di viaggio, il dissidente russo Andrej Mironov, proprio su quel fronte. Colpiti da un colpo di mortaio nel pomeriggio di sabato 24. Il fotografo si chiamava Andrea Rocchelli, detto Andy, e aveva 30 anni.






Andrea “Andy” Rocchelli, a destra, e Andrej Mironov nell’aprile del 2014 (foto ©Gabriele Micalizzi/Cesura)

Non seppi più nulla di lui, finché un giorno di inizio aprile del 2017 a Perugia mi si avvicinarono due persone. Un uomo e una donna, marito e moglie. Parlavano quasi sottovoce. Era evidente che avevano paura di disturbare, erano arrivati fin lì per amore. Per amore del loro figlio scomparso senza verità e senza giustizia. Erano Elisa Signori e Rino Rocchelli, i genitori di Andy. Erano venuti a seguire la presentazione di “Nove giorni al Cairo”, il documentario che con “Repubblica” avevamo dedicato al rapimento e all’omicidio di Giulio Regeni. Ero appena sceso dal palco della Sala dei Notari, dove si teneva il Festival internazionale di Giornalismo, quando mi chiesero se potevano raccontarmi di Andy.Mi spiegarono che erano a Perugia per presentare il lavoro del figlio e denunciare le circostanze non chiarite della sua morte. Nonostante il tono pacato si intuivano la frustrazione e il dolore per il fatto che l’inchiesta sull’omicidio non stesse andando da nessuna parte e la sensazione che Andy fosse stato dimenticato. Non mi chiesero nulla in particolare, volevano solo seminare memoria. Alcuni mesi dopo, all’inizio dell’estate, registrai la notizia che un ragazzo italo-ucraino era stato arrestato all’aeroporto di Bologna in relazione alla morte di Rocchelli. Poi più nulla.



Pavia, marzo 2020. Elisa Signori e Rino Rocchelli, i genitori di Andy (foto ©Alessandro Sala/Cesura)

Fino ad un pomeriggio di fine luglio dello scorso anno quando sono andato a prendere un caffè con Anna Dichiarante, una giornalista che avevo conosciuto a “Repubblica” durante la mia direzione. Mi voleva raccontare di un processo che aveva seguito a Pavia e che era appena arrivato a sentenza, un processo affollatissimo, teso, pieno di colpi di scena ma che non era mai arrivato sulle prime pagine dei giornali. Era il processo per la morte di Andy Rocchelli e Andrej Mironov. Quella sera, su un treno verso il mare, ho capito che quella storia mi si era impigliata nei pensieri, e che doveva essere raccontata fin dall’inizio.Ho cercato di capire perché fosse scivolata via in silenzio, tra le cose dimenticate e non urgenti. Dopo un po’ di ricerche mi sono fatto l’idea che, in questo frenetico ciclo di notizie, l’Ucraina e le sue storie avessero perso presto importanza in quel 2014 in cui l’Isis stava prendendo piede in Iraq e Siria e nasceva lo Stato Islamico. Per cominciare mi sono procurato “Evidence”, il libro con le foto di Andy, e ho cominciato a sfogliarlo per cercare di entrare in sintonia con il suo sguardo. C’erano le foto della rivolta di Maidan a Kiev, i ragazzi che vanno a combattere contro Gheddafi in Libia, la testimonianza delle violazioni dei diritti umani in luoghi dimenticati come il Kirghizistan e l’Inguscezia.


Ucraina, febbraio 2014. La rivolta di Maidan, a Kiev, con i manifestanti che contestano la mancata firma dell’accordo con l’Unione europea (foto ©Andy Rocchelli/Cesura)

Sentivo l’urgenza di raccogliere più elementi possibile, di scavare dentro questa storia. Restava da capire quale fosse la forma più giusta. Mi sono ricordato di una chiacchierata romana con Carlo Annese, uno dei pionieri del podcast in Italia, in cui mi aveva sfidato a sperimentare l’idea di fare inchieste audio. L’ho chiamato e lui ha organizzato, ai primi di settembre, un incontro con Storytel, piattaforma svedese che anche in Italia produce podcast e audiolibri; è bastato poco per capire che valeva la pena provarci.Allora ho telefonato ad Anna e le ho detto che volevo raccontare la storia di Andy, ma a patto che mi aiutasse a raccogliere tutto il materiale e le testimonianze. Mi ha risposto soltanto: «Sapevo che se te l’avessi raccontata tu l’avresti fatta». Così abbiamo cominciato un lungo viaggio tra le carte, gli atti del processo e le voci di colleghi, amici, investigatori, che arriva in porto oggi con questa serie in quattro puntate che si chiama “La Volpe Scapigliata”. È stato il lavoro più lungo che abbia mai fatto, un giornalismo lento, durato più di otto mesi.Ho impiegato molte settimane a convincere Elisa e Rino Rocchelli a rompere il loro riserbo e a parlarmi di Andy, ma piano piano abbiamo costruito un rapporto di fiducia e amicizia che mi onora. Un pomeriggio Rino mi ha aperto il suo computer, dentro ci sono gli audio che Andy raccoglieva intervistando tutti quelli che fotografava. Elisa, che insegna Storia contemporanea all’Università di Pavia, mi ha spiegato meglio di chiunque altro perché quella foto della cantina mi era rimasta negli occhi: «Perché è la più rappresentativa del modo in cui Andrea si poneva nei confronti di chi voleva fotografare, e perché quello scatto presuppone un rapporto di confidenza e di fiducia. Bisogna osservare lo sguardo di questi bambini, nascosti in mezzo alle marmellate e ai sottaceti, si vede che passa qualcosa tra la macchina fotografica e quegli occhi, credo sia solidarietà e condivisione».


Libia, marzo 2011. Dopo gli scontri tra i ribelli della Primavera araba e le truppe governative, molti cercano di scappare dal Paese ed entrare nella vicina Tunisia (foto ©Andy Rocchelli/Cesura)

Avevo provato a contattare anche Mariachiara Ferrari, la compagna di Andy, che in questi anni ha sempre preferito stare un passo indietro e proteggere Nico, il loro bambino, che proprio nel giorno della morte del padre aveva compiuto tre anni. Un giorno mi ha scritto dicendomi che, se avessi avuto bisogno di aiuto, lei ci sarebbe stata, ma senza registratore. In una giornata tiepida di questo inverno ci siamo trovati sul Ticino e abbiamo camminato a lungo sul greto del fiume fino al tramonto, ha risposto a tutte le mie domande e mi ha spiegato perché gli amici scout chiamarono Andy “Volpe Scapigliata”.


Pavia, febbraio 2020. Il tramonto sulle rive del fiume Ticino

«Una sera Andy mi ha chiesto: “Indovina il nome che mi avevano dato agli scout. È quello di un animale”. Io – racconta Mariachiara – ho risposto subito: volpe. Non ci poteva credere che avessi indovinato al primo colpo e cominciò a dire che lo sapevo già. Quando poi, con un colpo di fortuna, ho aggiunto scapigliata, la sua teoria che me lo avesse suggerito qualche suo vecchio amico divenne una certezza. La verità è che io non lo sapevo. Dissi volpe perché Andy ti dava un’idea di selvatico ma allo stesso tempo di curioso. Di una persona fedele a sé stessa che non scende a compromessi. Non gli avrei mai dato il nome di un animale domestico, lui non poteva che essere un animale del bosco.Scapigliato? Era arruffato, concentrato a seguire il suo fiuto. Ricordo la sua macchina quando ci siamo conosciuti: aveva una vecchia Uno grigia, sempre piena di cose che trovava in giro, di fogli e di rotoli di carta fotografica. Una volta era tornato con un telone di quelli che si usano per coprire i camion. Mi disse: “Teniamolo, chissà che un giorno non possa servire”. A casa ho ancora due vecchie poltroncine rosse di un cinema, venne a sapere che le buttavano via e andò a recuperarle. La sera si sedeva lì e io dicevo che quello era il suo trono. Riusciva a vedere negli oggetti e nelle persone, potenzialità che agli altri sfuggivano. Era questo il suo segreto».

3.1.20

Prima gli italiani; i soldati neri morti per liberarci nella Seconda guerra mondiale

JohnRFox.jpg Il battaglione Buffalo, tutto composto da afroamericani, era impiegato per le azioni disperate. Una scrittrice ricostruisce le loro storie dimenticate. Come quella di John Fox  (  1919-1944   foto a  sinistra  ) che fermò da solo i tedeschi in Garfagnana strano che    a destra    cosi  vanagloriosa ad esaltare  gli alleati come liberatori  non si  parli i loro. Ma    ma   solo delle  marocchinate  .
 P.s
per  chi non lo sa  o  non ricorda  Con il termine marocchinate vengono generalmente definiti tutti gli episodi di violenza sessuale e violenza fisica di massa, ai danni di svariate migliaia di individui di ambo i sessi e di tutte le età (ma soprattutto di donne) effettuati dai goumier francesi inquadrati nel Corpo di spedizione francese in Italia (Corps expéditionnaire français en Italie - CEF) durante la campagna d'Italia della seconda guerra mondiale. Questi episodi di violenza sfociavano a volte anche in esecuzioni coatte degli abitanti delle zone sottoposte a razzia e violenza, e raggiunsero l'apice durante i giorni immediatamente successivi l'operazione Diadem e lo sfondamento della linea Gustav da parte degli Alleati .   ulteriori news  https://it.wikipedia.org/wiki/Marocchinate

Ora   Dopo questo spiegone     veniamo alla  news  in se   trovata    su   repubblica    robinson  1\ I \  2020

Prima gli italiani; i soldati neri morti per noi nella Seconda guerra mondiale

Il battaglione Buffalo, tutto composto da afroamericani, era impiegato per le azioni disperate. Una scrittrice ricostruisce le loro storie dimenticate. Come quella di John Fox che fermò da solo i tedeschi in Garfagnana
                            DI ENRICO DEAGLIO

SOMMOCOLONIA (LUCCA)
Con appena 34 residenti, il paese a 710 metri su un promontorio che domina la valle del Serchio, Sommacolonia può ben definirsi "paese fantasma". 52 case in pietra intorno a una torre medievale diroccata, punto di osservazione che spazia per 180 gradi, tra boschi di castagni. In basso, la storica cittadina di Barga. Qui, negli ultimi giorni di dicembre del 1944 passò la Storia, con l'ultimo disperato attacco di due divisioni tedesche sulla linea Gotica - Operazione Wintergewitter - respinto con un certo affanno dalle truppe alleate; se nei libri di storia militare della Seconda guerra mondiale, la battaglia di Sommocolonia è confinata alle note a fondo pagina, nonostante il fuoco, le bombe, i morti e le conseguenze dello scontro siano stati pesantissimi, è per un certo imbarazzo che da sempre ha circondato tutta la vicenda, ricca di "cose di cui è meglio non parlare".


Per questo fa piacere dare notizia del 26 dicembre del 2019 a Sommocolonia, 75 anni dopo la battaglia: una giornata particolare, con la banda a suonare Bella Ciao, il prete a benedire, gli alpini e l'Anpi ultimi testimoni, tutti intorno a una signora americana dai capelli bianchi, che ha portato nel paese un libro di storia davvero struggente. Solace Wales ha ottant'anni, una vita passata ad insegnare l'arte ai bambini nella Bay Area della California, ha vissuto per quasi quarant'anni con il marito Bill, pittore di paesaggi e nature morte, per parte dell'anno proprio a Sommocolonia e ha sentito raccontare le storie della guerra da chi allora era ancora in vita.
Ora è seduta in una saletta dove la sindaca di Barga, Caterina Campana, ha organizzato un incontro e un rinfresco (prosecco, aranciata e crostini toscani), con il mano il libro appena uscito negli Stati Uniti Braided In Fire: Black GIs and Tuscan Villagers on the Gothic Line 1944, che cominciò proprio in queste case, nel 1987, quando Solace ebbe l'idea di registrare i racconti di Annetta Marchetti, allora novantenne: la linea gotica che passava proprio di lì, il chilometro appena che divideva americani e tedeschi, per cui le donne lavavano la biancheria al lavatoio sia per gli uni che per gli altri, i bambini nascosti nei "fondi" che sapevano distinguere il suono delle suole degli stivali (di gomma, americani; chiodati, tedeschi), la povertà assoluta per cui si mangiava solo castagnaccio, i rifugi dove si dormiva sulle foglie su cui però erano stati messi i lenzuoli di canapa ricamati delle doti, i Nardini e i Biondi che avevano i figli partigiani e, naturalmente, i soldati "negri" della 92esima divisione di fanteria "Buffalo", passati per la Toscana tra la leggenda, il mito e l'oblio.
Istituita nel 1942, sciolta nell'aprile del 1945, impiegata nelle missioni più rischiose della guerra italiana, la Buffalo - incredibile da credersi per un paese democratico che ci ha liberato dal nazifascismo - era completamente segregata, ovvero composta da soldati afroamericani specie degli Stati del sud, in pratica i pronipoti degli schiavi, costantemente umiliati e screditati, inviati nelle missioni più difficili e comandati da ufficiali bianchi che non facevano mistero di disprezzarli.
Sentite il generale Edward Almond, eroe di guerra, che li comandava in Toscana: "Nessun bianco vuole essere accusato di fuggire dal fronte, i Negri invece se ne fregano... Li conosciamo, veniamo tutti dal Sud. E non vogliamo metterci a mensa con loro". A Sommocolonia furono mandati in 75, membri del 366esimo fanteria, un battaglione raffazzonato durante le progressive avanzate dalla Sicilia verso nord, una specie di "battaglione di scarto". Nelle quattro ore di battaglia morirono in 45, altroché vigliacchi. Ma l'esercito americano non spese mai una parola per loro. E dunque toccò a questa mite signora americana, vissuta decenni in mezzo alla purezza di quei luoghi, abituata alla scabra rettitudine morale dei suoi abitanti, andare a rintracciare cosa era stato di quei morti e di quei sopravvissuti. Li ha trovati, ha dato loro un nome, una storia e dettagli. Radio Londra trasmetteva di lasciare i frutti nei campi, e i contadini lo facevano. I Buffalo soldiers avevano buone razioni di cibo, ma li dividevano con i contadini, anche se era vietato e nessuno di loro venne mai accusato di stupri o violenze.
In mezzo a tutti, giganteggia la storia del tenente John Fox, 29 anni, bravo ragazzo dell'Ohio, tenente del 336esimo, "osservatore al tiro", sistemato quasi in cima alla torre medievale di Sommocolonia, da cui vede arrivare, ad ondate, i soldati tedeschi. È l'alba, da giorni c'erano segni di movimenti di truppe tedesche (ed austriache, riconoscibili da un cappello con una stella alpina), ma la segnalazione arrivata a quel gentiluomo del generale Almond, era parsa una fregnaccia di negri e partigiani. Fox è l'unico tramite con l'artiglieria stazionata a Barga, comunica via radio le coordinate dei lanci dei mortai. Le truppe tedesche ormai stanno accerchiando la torre, sono sotto di lui. "Correggi l'alto", comunica. "Sei pazzo! Se scendo, arriva giusto addosso a te". "Fire it!", novello Pietro Micca, Sansone, Protesilao. Quando, quattro giorni dopo i Gurkha dell'Ottavo Fanteria Indiano, riconquisteranno Sommocolonia, troveranno pezzi del corpo di John Fox e dei suoi uomini in mezzo a una quantità di cadaveri tedeschi. Che ci facevano i Gurka, a Sommocolonia, me lo racconta Frank Viviano, l'inviato di guerra del quotidiano San Francisco Chronicle che proprio a Barga venne ad abitare vent'anni fa. Oggi sta scrivendo un saggio su quanto fu davvero "mondiale" l'avanzata del 1944. "I Gurka nepalesi, i brasiliani, i famosi marocchini in Ciociaria, gli americani giapponesi che liberarono la Versilia, e che diedero il più alto tributo di morti. Tutto il mondo era qui, 75 anni fa, in favore della piccola Italia...".
La scrittrice Solace Wales può essere orgogliosa del suo lavoro. La sua ricerca ha fatto conoscere la fierezza e l'umanità dei quei soldati segregati, che tutto fecero tranne che scappare. Nel 1997, soprattutto grazie a lei, John Fox fu il primo soldato afroamericano a ricevere (alla memoria) la Presidential Medal of Honor, che venne consegnata alla vedova dal presidente Bill Clinton, alla Casa Bianca, che nell'occasione ricordò il brutti tempi del razzismo nell'esercito americano "Con la signora Fox eravamo diventate amiche - mi dice Solace Wales - e quindi mi invitò alla Casa Bianca. Fu una serata indimenticabile, Bill Clinton fu ammirevole, e molto caldo". "Sai", mi dice scendendo, cauta, dai gradini delle stradine in pietra dell'antica città fantasma, "mi sono portata le scarpe che avevo quella sera a Washington, le ho qui in borsa; ma poi mi sono resa conto che metterle è un po' esagerato. E anche scomodo".


  se repubblica      dovesse   secondo alcuni poco attendibile  come  sembra    evidenziarsi da questi commenti  al post


             [........]


Gianluca Romeo Bello perché repubblica piuttosto che non parlare di un azione che coinvolse decine di migliaia di italiani parla di un mitragliere americano. Fate ridere!
Manfredi Girolamo Sparti Gianluca Romeo , nessuno tace l'eroismo della lotta partigiana, in questo servizio si tratta del sacrificio di un soldato statunitense, sacrificio che ha un significato particolare se si pensa che è stata l' Italia a dichiarare guerra agli Stati Uniti d'America, e che, per di più, ha avuto come protagonista un nero, una cosiddetta " minoranza" disprezzata e messa ai margini della società nella propria Patria.
Gianluca Romeo
Manfredi Girolamo Sparti guardi che non parlavo dei partigiani ma dei 6 mila regolari della Monterosa e della San Marco che attaccarono la 92ma buffalo. L'attacco non era frutto di due divisioni tedesche che attaccarono disperate, ma di due divisioni ITALIANE e di un kampf gruppe tedesco, che volevano alleggerire la pressione prendendo posizioni favorevoli sulla valle del Serchio in attesa dell'atteso attacco di primavera.
Cristian Salvaterra Tanto di qualsiasi cosa avesse parlato l'articolo ci sarebbe stato qualcuno a lamentarsi che non si sta parlando di altro...

                           [....  qui  il resto della  discussione   ]


  ecco  un articolo   dell'avvenire    giornale   della Cei   del  9 \  IX \ 2014
  Da  https://www.avvenire.it/agora/pagine/

I recenti fatti del Missouri ci hanno riportato a una triste realtà: l’illusione che, negli Stati Uniti, le tensioni tra afro-americani e bianchi fossero finite con le lotte degli anni Sessanta. Così non è. Settant’anni fa, però, i loro avi fecero non poca fatica per riuscire a dare il loro contributo alla guerra contro il nazismo.All’epoca, infatti, i «neri» erano ritenuti troppo «ottusi e lenti» per combattere al fianco dei bianchi. Qualcuno si era dimenticato forse (o faceva finta di non ricordare) che proprio un reggimento di soldati di colore aveva avuto una notevole importanza sul fronte francese, durante la Grande Guerra, tanto da ricevere la prestigiosa Croix de Guerre. Ma tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta la partecipazione dei discendenti degli schiavi africani nelle file dell’esercito non era lontanamente presa in considerazione.Lentamente, però, iniziarono a farsi largo alcune importanti voci contro l’imperante razzismo. Il Pittsburg Courier, in una lettera aperta al presidente Franklin Delano Roosevelt, chiese di creare una nuova divisione militare composta interamente da uomini di colore, al grido di «date ai nostri uomini la possibilità di combattere». E così, a causa anche dell’andamento della guerra, si decise di organizzare una divisione di «neri»: la 92ª denominata «Buffalo» (simbolo anche dell’unità militare), un vecchio appellativo dato dai pellerossa agli uomini di colore che combatterono nel 10° Reggimento di Cavalleria: sia per la loro capigliatura riccia che ricordava il manto del bisonte, sia per la loro forza e tenacia simile a quella dell’animale che per i nativi era il più sacro, nobile e degno di rispetto.Addestrati tra Texas e Alabama, i Buffalo furono comandati da ufficiali degli Stati del sud, razzisti di prim’ordine, ritenuti più adatti al comando di quella singolare unità per le loro esperienza di schiavisti. «I soldati non ricevettero un addestramento adeguato – spiega Vittorio Lino Biondi, ufficiale dell’Esercito Italiano, esperto di storia militare locale –. Inizialmente i Buffalo Soldiers furono destinati alla guardia agli aeroporti alleati nel Mediterraneo. Infatti, gli Usa avevano puntato molto sulla superiorità della forza aerea seguendo le indicazione di un generale italiano, Giulio Douhet, che aveva pronosticato: "Vincerà chi avrà il dominio dell’aria". In seguito i soldati di colore furono inviati su un fronte terziario a sorvegliare obbiettivi sensibili che si trovavano nel sud Italia; non era previsto un loro impiego al fronte».Ma dopo la conferenza di Teheran venne deciso di spostare forze della V Armata dal teatro italiano per attaccare il sud della Francia, rimpiazzandole con gli uomini della 92ª che – appena sbarcati a Napoli – si trovarono così di colpo in prima linea. Entrati in combattimento giusto settant’anni fa a Pisa, gli afroamericani sostituirono la Força Expedicionária Brasileira nel settore apuano, della Versilia e della Valle del Serchio. I soldati costituirono con le popolazioni locali un ottimo rapporto combattendo invece una «doppia guerra». Ha spiegato infatti Ivan J. Houston, reduce della Buffalo: «Non combattevano solo contro il nemico nazista, ma anche contro un nemico interno: il razzismo degli alti ufficiali bianchi».Il generale comandante della divisione, Edward Almond, li accolse così: «Noi non vi abbiamo chiamato. I vostri giornali e politici neri assieme ai vostri amici bianchi hanno insistito per vedervi combattere e io mi impegnerò perché voi combattiate e offriate la vostra parte di vittime». I caduti furono più di mille; 3500 invece i feriti e i dispersi. Almond spesso accusò i neri di scarso coraggio, ma non fu così. Ad esempio a Sommocolonia, un piccolo borgo montano del comune di Barga, durante uno degli ultimi colpi di coda dei tedeschi, l’«Operazione Wintergewitter» attuata di sorpresa il giorno di Santo Stefano 1944, il tenente John Fox compì un atto di straordinario eroismo: chiamò il tiro dell’artiglieria americana sulla sua posizione, sacrificandosi per la riuscita della battaglia.
Ben prima che gli Stati Uniti negli anni Novanta, con l’amministrazione Clinton, concedessero ai Buffalo la prestigiosa Medal of Honor, il professore di storia contemporanea all’università di Udine Umberto Sereni promosse l’intitolazione di un cippo alla divisione nera, individuando nel periodo bellico italiano l’inizio del riscatto del popolo afroamericano. Un particolare messo in evidenza anche dal documentario Inside Buffalo, premiato al Festival del Cinema di Berlino e realizzato dal regista italo-ghanese Fred Kuwornu, che ha conosciuto la storia dei black warriors sul set del film di Spike Lee Miracolo a Sant’Anna; quest’ultimo racconta proprio della partecipazione di un gruppo di militari della 92ª alla Campagna d’Italia.«I buffalo soldiers – spiega Kuwornu – parteciparono agli scontri sulla Linea Gotica e al Cinquale, liberando con le altre forze alleate e i partigiani le città di Lucca, Viareggio, La Spezia, Genova. Ma al loro rientro non ricevettero alcun riconoscimento se non solo dopo vari decenni, come nel caso di Vernon Backer che ebbe un ruolo fondamentale nell’assalto al Castello Aghinolfi di Montignoso».Il filmato, proiettato tra l’altro alla Library of Congress di Washington e alla New York University, ha ricevuto i complimenti da parte del presidente Barack Obama, che in una lettera al regista ha scritto: «Nonostante i tanti ostacoli i Buffalo Soldiers servirono la Patria con coraggio, preparando la strada alle future generazioni. Nella Seconda Guerra Mondiale esemplificarono il loro eroismo collaborando alla liberazione di un continente dalla tirannia, cambiando il corso di un intero secolo».



3.8.19

Andrè Spada l'ultimo bandito d'onore e di vendetta

 


" La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla "
Gabriel Garcia Márquez



N.B 
 l'articolo è in francese perché a parte ( purtroppo a € e non free in italiano c'è solo l'articolo di " le storie dimenticate " di Pietro Mannironi sulla nuova sardegna d'oggi )

Inizio  a   scrivere   questo post  con in  sottofondo  le  note  di   Bandito Senza Tempo- The Gang

da quando  (  e  soprattutto  ora  che mi sto avvicinando  ai 50   quello che dante chiama    nel mezzo del cammin de  nostra vita   )  ho messo su  il  blog  e   poi  la  pagina  di Facebook ad  esso  collegata


Ho maturato la convinzione che il problema più grosso del camminare verso la fine della vita non sia il morire (o la perdita della lucidità e della consapevolezza), quanto la cancellazione della memoria, del vissuto, delle emozioni, dei sentimenti che sono stati te stesso ben più del corpo, dell'immagine, del fatto e del non fatto.
Per questo motivo  seguo , almeno coi  provo  . l'esempio  di http://www.promemoria.sm/  <<    ho creato artigianalmente questo piccolo sito. Vi depositerò una parte del mio pensiero, del mio vissuto, per fare memoria e dare testimonianza di una generazione che ha vissuto trasformazioni epocali.. Sarà a disposizione di chi lo vorrà, senza particolare ansia se saranno molti o pochi. Sapere che è a disposizione dà la sensazione di morire di meno.>> quindi se  qualcuno volesse interloquire  mi  farebbe comunque cosa gradita attraverso i miei social  facebook   twitter   l' e-mail o anche attraverso il blog . Infatti ci sono storie condannate a perdersi tra le pagine infinite del tempo . Storie di donne e uomini che svaniscono nella memoria collettiva, portandosi dietro il loro pesante fardello di dolore e speranza , di volti e di di parole , di sofferenza e di rinascita. Vicende che nel bene e nel male non meritano d'essere dimenticate . Alcune sono rimaste ( e credo rimarranno ) orfane di una risposta di giustizia e quindi quindi senza poter offrire una consolazione possibile . Anche perchè , ora che la polvere delle emozioni si è posata , meritano d'essere riviste ( come il caso sotto riportato ) con più serenità , fuori dalla prigione dei fondamentalismi e mitizzazioni , non deformate agli occhiali ideologici . Ed altre semplicemente perchè è importante ricordarsi di ricordare . Perchè : << le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno , ricordare una cosa significa vederla ora soltanto per la prima volta >> ( Cesare Pavese ) . 


Ma  ora  bado alle  ciance  ed  ecco  la storia     tratta   da https://www.corsicamea.fr/  



André SPADA est né dans une ruelle du vieil Ajaccio le 13 février 1897 d'un père Sarde (Gavino) et d'une mère Corse (Anna-Maria BERTI) qui mit au monde neuf enfants. En 1909, la famille décide d'aller s'installer dans le CRUZZINI au village de LOPIGNA d'où Marie BERTI est originaire.
Jusqu'à l'age de 17 ans, André, que l'on décrit comme un garçon émotif et anxieux mais honnête et travailleur, va exercer avec son père le dur métier de bûcheron et de charbonnier qu'il abandonnera en 1917 pour s'engager dans l'artillerie et acquérir ainsi la nationalité Française.
 Il est condamné en 1918 pour désertion en temps de guerre. Amnistié, il rengage à nouveau pour aller se battre en Syrie. A la fin de la guerre, il est libéré et rentre en Corse en mai 1921.
Sans travail, ne voulant pas reprendre le dur métier exercé par son père, André Spada postule pour un emploi de douanier mais les circonstances vont en décider autrement en faisant de ce jeune homme que rien ne prédestinait au banditisme, un des plus terribles hors-la loi que la Corse ait connu.
Sa vie bascule le soir du 8 octobre de 1922 à Sari d'Orcino. Au cours de la fête patronale du village, un homme, passablement éméché, tire sans l'atteindre sur une femme qui l'aurait éconduit. Une confusion s'ensuit, les gendarmes mènent rapidement l'enquête et arrêtent quelques instant plus tard les dénommés Stephanini Toussaint et Rutili Dominique attablés en compagnie de Spada dans une buvette du village.
Pour défendre son ami, Spada tire sur les gendarmes, blesse mortellement l'un d'entre eux avant de prendre le maquis en compagnie de Rutili.
Rutili, dont la folie meurtrière inquiète Spada (il l'a vu tuer son propre frère), sera arrêté le 4 janvier 1924 lors de l'embuscade du Finosello, après avoir abattu ses hôtes qu'il soupçonne de trahison. Condamné à mort en février 1925, il verra sa peine commuée en travaux forcés à perpétuité. Après 27 années passées au bagne de Cayenne, il reviendra dans son village en 1952 et décèdera tranquillement en juillet 1973.

Dans le maquis, Spada, dont la tête est mise à prix, condamné à mort par contumace le 11 juillet 1925, vient d'apprendre avec consternation la condamnation à la peine capitale de son ami d'enfance. Désormais seul, il sombre dans une profonde période dépressive que viendra encore aggraver en févier  l'annonce de la mort d'un autre ami, le bandit Romanetti. Son esprit semble basculer alors dans la tourmente: "C'est à ce moment là, dans ma profonde solitude que j'ai commencé à apprendre à connaître  Dieu" confiera-t-il dans ses mémoires. 
L'amitié, mais aussi l'amour, ont orienté la destinée de ce bandit à la sensibilité à fleur de peau. C'est la soeur de François, son ami d'enfance. Elle se nomme Marie Caviglioli, elle est jolie et Spada en tombe éperdument amoureux ; Mais très vite, lassée par la tyrannie, les accès de colère et la jalousie maladive de son amant, Marie décide de le quitter et s'enfuit à Ajaccio où elle va faire la connaissance de  Jacques Giocondi. En apprenant cette liaison, Spada, emporté par l'orgueil et la colère, commettra l'irréparable en abattant froidement à Poggio-Mezzana, le 9 novembre 1925 la soeur de Giocondi, agée de 22 ans, et son vieil oncle qu'il avait pris dans l'obscurité, pour Marie Caviglioli et son amant. Abattu, rongé par le remord, Spada écrira au procureur de la république pour dénoncer son crime. Cela  ne l'empêchera pas cependant, de poursuivre sa carrière de bandit en se mettant en ménage à la Punta, avec l'intrigante Antoinette Leca*, la compagne de Romanetti qui vient d'être assassiné, et dont il prendra la succession.
*Antoinette Leca sera par la suite jugée et condamnée à deux ans de prison et 10 ans d'interdiction de séjour par le tribunal correctionnel d'Ajaccio.

Le 23 décembre 1926, pour s'adjuger à travers un prête-nom, la concession du service postal, Spada n'hésite pas à attaquer à Saint-André d'Orcino, le fourgon qui assure la liaison Ajaccio-Lopigna, blessant le chauffeur Fanchi Delmo et deux des douze voyageurs. L'avertissement contraignit Franchi à se retirer sur Ajaccio.

Le 06 août 1927, il utilise la presse locale pour informer les gendarmes qu'il ne fera usage de son arme que s'il est "serré de près"; il ajoute : "... malgré ma répulsion, je tiens à signaler que je serais sans pitié pour quiconque, autre que les gendarmes, que je surprendrais me recherchant ou m'espionnant... ". A plusieurs reprises, Spada aura recours à la presse pour faire passer ses message et se justifier. 
Le 18 mai 1930, en attaquant de nouveau ce même service postal dont la concession, arrivée à son terme, vient de faire l'objet d'une nouvelle adjudication qui échappe au contrôle du bandit. Cette fois, le chauffeur et deux gendarmes, passagers du véhicule, sont tués, un troisième gendarme est grièvement blessé. Les autres passagers prennent la fuite tandis que le fourgon postal est incendié.

L'attaque de l'auto du service postal Ajaccio-Lopigna.
Voir l'article paru dans le Petit Journal du 19 mai 1930.

A la suite de cette tragédie, le service Ajaccio-Lopigna ne sera plus assuré pendant 6 mois. En novembre 1930, Spada et sa compagne Antoinette Leca, sous le couvert d'un prête-nom, s'en adjugent à nouveau la concession.

Au mois de Février 1931, après la mort de Romanetti, Spada s'autoproclame "Roi du Palais vert" et sa notoriété attire Pathé-Journal. Moyennant une belle somme d'argent, il se laisse filmer par le cinéaste Harry Grey et raconte aux journalistes l'histoire de sa vie qui paraîtra après sa mort en 1935, dans un livre intitulé "Mes mémoires".

Spada "interviewé au maquis".
Extrait du journal l'humanité du 12 novembre 1931

Il déclare :  "Moi Spada, je suis universel avant même d'être Corse [...] je ne connais que ceux qui me connaissent, les autres tant pis pour eux [...] un bandit doit faire sa réputation".
Spada entretenait en effet sa réputation . A l'audience du 07 mars 1935 le président du tribunal ne manque pas de le lui rappeler: " Dans votre palais vert, vous aviez une cassette, et entassiez des caisses de liqueurs, et des paniers de champagne, dont vous régaliez cette étrangère, un peu toquée, qui était venue vous admirer dans votre repaire, et qui vous eut volontiers épousé".
Cette "étrangère un peu toquée" lui offrit d'ailleurs le seul bijou (une bague ornée d'une croix d'or) qu'il posséda jusqu'à sa mort. Elle fut ensuite vendue aux enchères domaniales et adjugée au docteur François del Pellegrino, conseiller général d'Ajaccio.

Mais au mois de novembre1931, l'expédition militaire organisée par le général Fournier, contraint Spada à fuir son domaine de la Punta et de nombreuses personnes de son entourage proche ainsi qu'Antoinette Leca et son frère Jules sont arrêtés.
Dès lors, privé de tous soutiens, tenaillée par la faim, dans un état mental proche de la folie (comme en témoigne ces lignes extraites d'un long courrier adressé à la presse le 05 juillet 1932 : "...Avis à tous et à la grâce de Dieu, Spada André, bandit d'honneur et de vengeance, mais non gendarme, plutôt cent mille fois la mort qu'une seule fois le déshonneur. Me voilà prêt à la paix et à la guerre, donc je suis prêt à tout. Dieu devant et ensuite je souhaite à tous ce que leur coeur désire..."), Spada va mener une vie de bête traquée avec son jeune frère Bastien qui l'a rejoint au maquis le 20 avril 1930, après avoir assassiné Jean-Ange Paoli, un ancien guide de Spada.
Un matin de février 1932, après des jours de souffrance passés dans la neige et le froid, après s'être réfugié pendant plusieurs jours à Coggia dans la maison familiale, Bastien finira par se rendre et se sont ses parents qui le conduiront au cabinet du procureur de la République à Ajaccio tandis que Spada continuera à se terrer. Une importante somme d'argent sera proposée, sans succès pour sa capture.

Le 29 mai 1933, à Coggia, dans la maison de ses parents, à bout de force, sans armes, un grand crucifix de bois pendu à son cou, Spada se laisse arrêter par les gendarmes qui le conduisent à la prison d'Ajaccio. Mais son état mental préoccupant nécessite un examen psychiatrique à Marseille.
A son retour, le 29 janvier 1935, il est enfermé à la prison Sainte-Claire de Bastia dans l'attente de son procès qui aura lieu le 04 mars 1935.

L'arrestation de Spada.
Voir l'article paru dans le Petit Journal du 30 mai 1933.

A l'issue de trois jours de débats qu'il suivra avec une profonde indifférence en le ponctuant parfois de répliques théâtrales, il acceptera l'annonce de sa condamnation à mort sans manifester la moindre émotion, se contentant de conclure: "Dieu en a décidé ainsi".
A l'énumération de ses crimes, Spada déclara : "Oublions le passé, Monsieur le Président"; puis il croit bon de préciser : "Vous parlez de sang ? C'est moi le responsable, un point c'est tout!".

Spada filmé au tribunal d'Ajaccio durant les débats par  British movietone.

Nonobstant la personnalité du prévenu et la nature de ses crimes, on peut affirmer aujourd'hui que Spada n'a pas bénéficié d'une justice sereine et équitable. En effet, les experts psychiatriques qui procèderont à son examen, vont écrire dans un rapport insensé, rempli d'erreurs et d'incohérences, que Spada simule la folie et le déclareront pleinement responsable de ses actes. Un jugement arbitraire et expéditif qui le conduira directement à l'échafaud.
Spada, surnommé "le bandit de Dieu", le "tigre de la Cinarca" et le "sanglier" sera condamné à mort et la sentence exécutée à l'aube du 21 juin 1935.

C'est le bourreau Anatole Deibler (fils de Louis Deibler) venu spécialement de Paris avec ses deux aides, qui exécutera la sentence. Deibler aura exécuté au total 395 condamnés à mort de 1885 à 1939, dont 299 en tant qu'exécuteur en chef, de 1899 à 1939. Il meurt d'un infarctus le 02 février 1939 en allant prendre le train qui le conduit à Rennes où il doit procéder à sa 396ème décapitation.


A 4h12 du matin, le couperet de la guillotine, dressée pour la circonstance devant la prison de Bastia, tombera pour la dernière fois sur la tête d'un condamné qui aura marché vers la mort avec un courage tranquille qui ne l'a jamais abandonné un seul instant.

Personne ne réclamera le corps de Spada. Il sera enterré dans le carré des suppliciés du vieux cimetière de Bastia.

Les derniers instants de Spada
(le petit journal - Edition du 22 juin 1935).







ed in musica che concludo il post d'oggi   con Les bandits d'honneur  -  Antoine Ciosi

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...