A volte , ed è questo uno dei casi , il web offre delle scoperte notevoli . In un post sulla home dei social che frequento e sui trovete anche i miie scritti , ho letto e visto alcune foto d'oppere della pittrice giapponese Kiyohara Tama . Incuriosito volendo andare oltre alla sua voce su wikipedia , da cui ho appreso che essa era conosciuta anche con i nomi di Kiyohara Otama (清原 お玉?), Eleonora Ragusa e Otama Ragusa. Ha vissuto gran parte della sua vita a Palermo, ho fatto ele ricerche sul web è ho trovato questo bellissima pagina https://otamakiyohara.onweb.it/it ad essa dedicata di Maria Antonietta Spadaro ( e di cui per gentile concessione riporto le foto che trovate nel post ) .Ho scoperto oltre a due pittori la otamakiyohara e il marito Vincenzo Ragusa . Ho trovato conferma quanto affermavo in questi due precedenti post sull'oriente : 1)https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2023/12/diario-di-bordo-n-anno-i-oriente-ed.html 2)https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2022/11/10-giorni-senza-mondiale-occidente-e.html. Infatti la pittrice in questione , secondo Maria Antonietta Spadaro : << [...] il suo mondo vissuto ed elaborato in una pittura tra oriente e occidente [...] Discreta e riservata, la piccola pittrice dagli occhi a mandorla ebbe il coraggio a soli vent'anni di lasciare il proprio paese e la famiglia per trasferirsi con l'uomo che amava in una città, Palermo, di un paese lontano e sconosciuto. Da poco il Giappone aveva istituito rapporti diplomatici con l'occidente e comunque i viaggi intercontinentali non erano all'epoca
affatto frequenti, soprattutto per le donne. Possiamo solo immaginare l'impatto con la sua nuova città: la famiglia di Vincenzo, gli usi locali, la lingua, ecc., e lo stesso Ragusa spaesato, mancando da Palermo da dieci anni ... e con idee difficili da far accettare in un ambiente abbastanza restio alle novità. >> Pur non avendo fatto studi artistici posso affermare che le opere di O'Tama che collaborò a fondare la Scuola Museo Officina d'arte orientale in qialità di docente e direttrice della sezione femminile, sono una contaminazione di stili e un ponte tra Giappone ed europa . Infatti sempre semre secondo la Spadaro : << si perfezionava nelle tecniche pittoriche più diverse: dall'olio all'acquerello, dal pastello alla pittura parietale, dai dipinti su stoffa agli oggetti d'arte applicata. >>Bellissimi i soggetti ch sono i più vari: ritratti, nature morte, scene di genere, animali, fiori, temi religiosi, ecc. La sua indole curiosa la portava a studiare con attenzione i capolavori della pittura italiana del passato. Cercò in ogni modo di appropriarsi dei modi di vita locali dall'abbigliamento alla cucina, sempre all'ombra del marito, ma con una sua personalitàe mai passivamente . Insieme hanno dato vita al più importante, se non unico, episodio di Giapponismo nel nostro paese.
Peccato che tale artista sia ancora poco conosciuta . Visto che la sua la collezione fu poi venduta da V. Ragusa al Museo Etnografico Pigorini di Roma, dove è custodita, ma non visibile al pubblico.Composta da 4172 pezzi, tra cui dipinti, xilografie, lacche, statue bronzee, armi, vasi in bronzo e ceramica, strumenti musicali, maschere, abiti, e oggetti di uso quotidiano, costituisce la più importante raccolta di oggetti giapponesi antichi esistente in Italia. La raccolta ha anche un grande valore di testimonianza della cultura giapponese precedente all'apertura verso l'Occidente[10]. Molti degli oggetti della Collezione Ragusa furono immortalati in tavole ad acquerello dipinte a Tokyo dalla Kiyohara: 31 tavole sono conservate a Palermo presso il Liceo Artistico - Vincenzo Ragusa Otama Kiyohara, mentre altre sono a Tokyo in collezioni pubbliche e private.Purtroppo le esposizioni fin ora fatte sono state solo due Due sono state le grandi mostre dedicate a O'Tama Kiyohara a Palermo, città in cui l'artista visse 51 anni, entrambe ideate dalla Spadaro , né risulta ne siano state allestite altre in Italia.
- La prima allestita nel 2017, nei saloni di Palazzo Sant'Elia e curata da me, ha messo in risalto un episodio estremamente importante di giapponismo in Italia. Attraverso bel 170 opere di O'Tama, del marito, lo scultore Vincenzo Ragusa, e vari oggetti d'arte, arredi, ecc. di ambito giapponese, il pubblico ha potuto conoscere e apprezzare un momento storico significativo della nostra città, immergendosi nelle suggestive atmosfere del lontano Giappone.
- La seconda, ospitata nel 2019-20 negli appartamenti reali del Palazzo Reale e ideata da me e dalla Fondazione Federico II, ha mostrato uno degli aspetti più interessanti della vicenda della coppia O'Tama e Vincenzo Ragusa quando, ancora a Tokyo collezionavano oggetti d'arte e artigianato del luogo, di un'epoca che presto sarebbe scomparsa. Questa magnifica Collezione composta di 4200 pezzi è oggi al Museo L. Pigorini di Roma. Alla mostra del Palazzo Reale furono esposti alcuni acquerelli di O'Tama che raffigurano in modo quasi fotografico tali preziosi oggetti, esposti in bacheche accanto (v. foto). Un confronto di estremo interesse per il quale si ringrazia il Museo Pigorini per il prestito delle opere della Collezione Ragusa, ancor oggi purtroppo non esposta al pubblico.
Un vero peccato . La sua è anche una storia d'amore . infatti Dopo ben quasi 51 anni di lontananza dal suo paese, e dopo aver imparato a parlare l’italiano meglio del giapponese, O'Tama Ragusa dovette rientrare in patria nel 1933 richiamata dai discendenti della sua famiglia che inviarono, per sollecitare il suo ritorno in Giappone, una giovanissima pronipote che la condusse da Palermo a Tokyo. Eleonora Ragusa morì a Shiba, nel 1939, dove ancora in vita aprì un atelier. Rispettando i suoi ultimi desideri in punto di morte la sua famiglia divise i suoi resti: la metà delle sue ceneri infatti si trova in Giappone, nel tempio di famiglia Chōgen-ji, mentre l'altra metà è sepolta nella tomba del marito, nel cimitero palermitano dei Rotoli, sulla cui tomba c'è una colonna sormontata da una colomba realizzata dallo stesso Vincenzo Ragusa.
Fra le tante storie lette o sentite ( video e podcast ) durante questo periodo eccovene una molto bella . Essa descrive benissimo il tipo di quelle di cui ho parlato nel precedente post .
Lo so che non è mia , cioè raccontata da me ma d'altri . Ma è grazie a persone come colui che ha fatto l'articolo e l'ha raccolta che tali vicende rinascono riemergono dalle nebbie del tempo e dall'oblio in cui i media maistream e i politicanti le hanno fatte finire
Ci sono foto che nella vita non si dimenticano mai, che ci accompagnano, che formano il nostro immaginario e segnano la nostra memoria. Di questa ricordo i volti dei bambini, nove o dieci bambini pigiati in una dispensa sotterranea, tra barattoli di conserve, marmellate, pomodori, peperoni e cetrioli sottaceto. Li avevano stipati in questa cantina, a cui si accedeva attraverso una piccola botola, per proteggerli dai bombardamenti. Alcuni erano orfani, tutti erano stati raccolti e ospitati da una famiglia che provava a salvarli.
Nella foto cinque di loro guardano verso l’alto, la bimba piccola con il cappello di jeans ha un’espressione che sembra mescolare stupore e paura, gli altri fissano con fiducia il fotografo. Sono nascosti sotto il fronte: sopra quella casa, in quel momento, passava il confine estremo di un’idea di Europa. Da un lato c’erano gli ucraini che volevano diventare europei, dall’altra quelli che guardavano a Mosca, in mezzo, intrappolati, gli innocenti che avevano la colpa di abitare nel posto sbagliato.Questa foto la pubblicai sulla “Stampa” lunedì 26 maggio 2014. Era stata scattata pochi giorni prima, ma il fotografo non c’era più. Era stato ucciso insieme al suo amico e compagno di viaggio, il dissidente russo Andrej Mironov, proprio su quel fronte. Colpiti da un colpo di mortaio nel pomeriggio di sabato 24. Il fotografo si chiamava Andrea Rocchelli, detto Andy, e aveva 30 anni.
Non seppi più nulla di lui, finché un giorno di inizio aprile del 2017 a Perugia mi si avvicinarono due persone. Un uomo e una donna, marito e moglie. Parlavano quasi sottovoce. Era evidente che avevano paura di disturbare, erano arrivati fin lì per amore. Per amore del loro figlio scomparso senza verità e senza giustizia. Erano Elisa Signori e Rino Rocchelli, i genitori di Andy. Erano venuti a seguire la presentazione di “Nove giorni al Cairo”, il documentario che con “Repubblica” avevamo dedicato al rapimento e all’omicidio di Giulio Regeni. Ero appena sceso dal palco della Sala dei Notari, dove si teneva il Festival internazionale di Giornalismo, quando mi chiesero se potevano raccontarmi di Andy.Mi spiegarono che erano a Perugia per presentare il lavoro del figlio e denunciare le circostanze non chiarite della sua morte. Nonostante il tono pacato si intuivano la frustrazione e il dolore per il fatto che l’inchiesta sull’omicidio non stesse andando da nessuna parte e la sensazione che Andy fosse stato dimenticato. Non mi chiesero nulla in particolare, volevano solo seminare memoria. Alcuni mesi dopo, all’inizio dell’estate, registrai la notizia che un ragazzo italo-ucraino era stato arrestato all’aeroporto di Bologna in relazione alla morte di Rocchelli. Poi più nulla.
Fino ad un pomeriggio di fine luglio dello scorso anno quando sono andato a prendere un caffè con Anna Dichiarante, una giornalista che avevo conosciuto a “Repubblica” durante la mia direzione. Mi voleva raccontare di un processo che aveva seguito a Pavia e che era appena arrivato a sentenza, un processo affollatissimo, teso, pieno di colpi di scena ma che non era mai arrivato sulle prime pagine dei giornali. Era il processo per la morte di Andy Rocchelli e Andrej Mironov. Quella sera, su un treno verso il mare, ho capito che quella storia mi si era impigliata nei pensieri, e che doveva essere raccontata fin dall’inizio.Ho cercato di capire perché fosse scivolata via in silenzio, tra le cose dimenticate e non urgenti. Dopo un po’ di ricerche mi sono fatto l’idea che, in questo frenetico ciclo di notizie, l’Ucraina e le sue storie avessero perso presto importanza in quel 2014 in cui l’Isis stava prendendo piede in Iraq e Siria e nasceva lo Stato Islamico. Per cominciare mi sono procurato “Evidence”, il libro con le foto di Andy, e ho cominciato a sfogliarlo per cercare di entrare in sintonia con il suo sguardo. C’erano le foto della rivolta di Maidan a Kiev, i ragazzi che vanno a combattere contro Gheddafi in Libia, la testimonianza delle violazioni dei diritti umani in luoghi dimenticati come il Kirghizistan e l’Inguscezia.
Sentivo l’urgenza di raccogliere più elementi possibile, di scavare dentro questa storia. Restava da capire quale fosse la forma più giusta. Mi sono ricordato di una chiacchierata romana con Carlo Annese, uno dei pionieri del podcast in Italia, in cui mi aveva sfidato a sperimentare l’idea di fare inchieste audio. L’ho chiamato e lui ha organizzato, ai primi di settembre, un incontro con Storytel, piattaforma svedese che anche in Italia produce podcast e audiolibri; è bastato poco per capire che valeva la pena provarci.Allora ho telefonato ad Anna e le ho detto che volevo raccontare la storia di Andy, ma a patto che mi aiutasse a raccogliere tutto il materiale e le testimonianze. Mi ha risposto soltanto: «Sapevo che se te l’avessi raccontata tu l’avresti fatta». Così abbiamo cominciato un lungo viaggio tra le carte, gli atti del processo e le voci di colleghi, amici, investigatori, che arriva in porto oggi con questa serie in quattro puntate che si chiama “La Volpe Scapigliata”. È stato il lavoro più lungo che abbia mai fatto, un giornalismo lento, durato più di otto mesi.Ho impiegato molte settimane a convincere Elisa e Rino Rocchelli a rompere il loro riserbo e a parlarmi di Andy, ma piano piano abbiamo costruito un rapporto di fiducia e amicizia che mi onora. Un pomeriggio Rino mi ha aperto il suo computer, dentro ci sono gli audio che Andy raccoglieva intervistando tutti quelli che fotografava. Elisa, che insegna Storia contemporanea all’Università di Pavia, mi ha spiegato meglio di chiunque altro perché quella foto della cantina mi era rimasta negli occhi: «Perché è la più rappresentativa del modo in cui Andrea si poneva nei confronti di chi voleva fotografare, e perché quello scatto presuppone un rapporto di confidenza e di fiducia. Bisogna osservare lo sguardo di questi bambini, nascosti in mezzo alle marmellate e ai sottaceti, si vede che passa qualcosa tra la macchina fotografica e quegli occhi, credo sia solidarietà e condivisione».
Avevo provato a contattare anche Mariachiara Ferrari, la compagna di Andy, che in questi anni ha sempre preferito stare un passo indietro e proteggere Nico, il loro bambino, che proprio nel giorno della morte del padre aveva compiuto tre anni. Un giorno mi ha scritto dicendomi che, se avessi avuto bisogno di aiuto, lei ci sarebbe stata, ma senza registratore. In una giornata tiepida di questo inverno ci siamo trovati sul Ticino e abbiamo camminato a lungo sul greto del fiume fino al tramonto, ha risposto a tutte le mie domande e mi ha spiegato perché gli amici scout chiamarono Andy “Volpe Scapigliata”.
«Una sera Andy mi ha chiesto: “Indovina il nome che mi avevano dato agli scout. È quello di un animale”. Io – racconta Mariachiara – ho risposto subito: volpe. Non ci poteva credere che avessi indovinato al primo colpo e cominciò a dire che lo sapevo già. Quando poi, con un colpo di fortuna, ho aggiunto scapigliata, la sua teoria che me lo avesse suggerito qualche suo vecchio amico divenne una certezza. La verità è che io non lo sapevo. Dissi volpe perché Andy ti dava un’idea di selvatico ma allo stesso tempo di curioso. Di una persona fedele a sé stessa che non scende a compromessi. Non gli avrei mai dato il nome di un animale domestico, lui non poteva che essere un animale del bosco.Scapigliato? Era arruffato, concentrato a seguire il suo fiuto. Ricordo la sua macchina quando ci siamo conosciuti: aveva una vecchia Uno grigia, sempre piena di cose che trovava in giro, di fogli e di rotoli di carta fotografica. Una volta era tornato con un telone di quelli che si usano per coprire i camion. Mi disse: “Teniamolo, chissà che un giorno non possa servire”. A casa ho ancora due vecchie poltroncine rosse di un cinema, venne a sapere che le buttavano via e andò a recuperarle. La sera si sedeva lì e io dicevo che quello era il suo trono. Riusciva a vedere negli oggetti e nelle persone, potenzialità che agli altri sfuggivano. Era questo il suo segreto».
Per il segno che c'è rimastonon ripeterci quanto ti spiacenon ci chiedere più come è andatatanto lo sai che è una storia sbagliata .
Ci sono storie che sono di tutti , che ci appartengono , storie di persone la cui la cui scomparsa resta ( o almeno dovrebbe ) nella nostra memoria . E di cui , in alcuni diventano : << Storia diversa per gente normale \ storia comune per gente speciale >> ma è nel bene ed nel male grazie ai media e alle arti , che conosciamo le loro vite e le loro storie , ci indigniamo e ci commuoviamo ogni volta che sentiamo ( ma anche quando ci ritorna in mente ) su come sono morte , la lotta per avere giustizia ( se l'hanno ottenuta o meno ) e verità ed le sentiamo nostre come se fossero una parte di noi . Ma ci sono , ed è questo il caso del mio post d'oggi , che invece scivolano via e finiscono ( salvo che qualcuno come il sito citato non le tiri fuori o le rispolveri ogni tanto dalla coltre dell'oblio e del tempo ) nel silenzio e nel dimenticatoio . Infatti succede che pochi , almeno fin quando non ci si fa un film o una fiction di successo , ne coltivino il ricordo .
Dopo l'assoluzione di Cutolo, dopo quarant'anni, l'assassinio del coraggioso medico-consigliere comunale resta ancora senza colpevoli FacebookTwitterEmailVKTelegram
Ottaviano (NA), 7 novembre 1980. Ore 6:45. Il trentaduenne Domenico Beneventano, medico chirurgo presso il San Gennaro di Napoli, sta uscendo dalla propria abitazione per recarsi in ospedale come tutte le mattine. Affacciata alla finestra dell’appartamento, la signora Dora osserva il proprio figlio incamminarsi verso l’automobile, una Simca 1000 di colore verde, parcheggiata nelle immediate vicinanze dell’edificio. Il medico non fa in tempo ad entrare nell’abitacolo che viene
immediatamente fermato da una voce. C’è qualcuno che lo sta chiamando: «Dottò…dottò…dottore!». Beneventano si gira verso una Fiat 128 di colore blu, ma l’uomo all’interno della vettura non ha più intenzione di parlare ed estrae una pistola facendo fuoco dal finestrino. Domenico Beneventano viene ammazzato con una rapida successione di pallottole sotto gli occhi lacrimanti della madre. La modalità dell’omicidio fa subito pensare ad un agguato di camorra.
UNA OPPOSIZIONE CHE DÀ MOLTO FASTIDIO
Ma perché uccidere un medico che con gli intrighi della malavita non ha mai avuto nulla a che fare? Il motivo è proprio questo. In quei loschi affari, quel giovane dottore, non ci è mai voluto entrare. Domenico Beneventano non era soltanto un medico, era anche consigliere comunale, proprio ad Ottaviano, storica roccaforte della camorra cutoliana e città natale di «don Raffaele ‘o professore». Candidato nella lista del PCI, quel dottore di origine lucana era divenuto per la prima volta consigliere nel 1975 e poi di nuovo nel 1980, in un periodo «di piombo» in cui la camorra spadroneggia con ogni mezzo ed è sempre alla continua ricerca di nuovi spiragli per potersi infiltrare negli affari della vita politica.
Beneventano è all’opposizione, un’opposizione che dà molto fastidio, specialmente agli affari della speculazione edilizia alle pendici del Vesuvio. Il business del cemento e degli appalti, nuova frontiera della malavita organizzata, a Ottaviano incontra un ostacolo tanto deciso quanto inaspettato. Beneventano denuncia il giro di affari che gravita attorno all’edilizia, a discapito dell’ambiente e dei cittadini, preludio di un processo che dopo il terremoto del 23 novembre 1980 diventerà inarrestabile.
LE RICORRENTI MINACCE E LA MORTE
La vita politica di Beneventano viene presto intimidita con ricorrenti minacce. Ma le antipatie della camorra il medico se le era guadagnate anche nel corso della sue attività negli ospedali, come quella volta in cui si rifiutò di fornire un alibi a un malavitoso che pretendeva un falso certificato di ricovero. Ne scaturirono inquietanti avvertimenti e il dottore fu trasferito in un’altra struttura. Consapevole dei rischi ai quali sta andando nuovamente incontro, Beneventano si procura un regolare porto d’armi e acquista una pistola per la legittima difesa. Ma quell’arma non la userà mai.
Nel 1987, il boss della Nuova camorra organizzata, Raffaele Cutolo, viene condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio, sentenza che verrà poi ribaltata in appello con l’assoluzione. Oggi, dopo quarant’anni, l’assassinio del coraggioso Domenico «Mimmo» Beneventano resta ancora senza colpevoli
ed proprio mentre finivo di fare copia e incolla dalla fonte partono le note finali dela canzone di sottofondo una storia sbagliata di De Andrè
Riporto quello che ho scritto per la pagina e l'account di fb , visto che molti nei commenti e in messanger mi reputano strano ne approfitto per rinnovare ed aggiornare le FAQ
trovate nei post continua qui nel blog oppure clicca sopra per poter continuare a leggere ) e nella sua appendice https://www.facebook.com/compagnidistrada/ ) non raccontiamo e non riportiamo le solite favole, ma storie vere, storie di persone, di paesi, di città ai margini dei media ufficiali o d'esse
strumentalizzate \ usate politicamente per scopi elettorali e di propaganda . Ma anche Storie che stanno sbiadendo nelle nebbie della memoria o che anche resistono al martellare costante degli avvenimenti quotidiani che cancella immediatamente la memoria del giorno precedente. Infatti molto spesso n on sappiamo più da dove veniamo, quale è stato il nostro passato e lentamente la nostra storia si cancella. Queste pagine parleranno di persone comuni che nel loro piccolo hanno contribuito a costruire la nostra società. Perché è vero la storia è fatta dai grandi personaggi, ma è altrettanto vero che la storia siamo noi con le nostre piccole o grandi scelte scelte.
Storie che stanno sbiadendo nelle nebbie della memoria. Non sappiamo più da dove veniamo, quale è stato il nostro passato e lentamente la nostra storia si cancella. La storia siamo noi con le nostre piccole o grandi scelte nel bene e nel male , con rimpianti e sensi di colpa .
N.b
stavolta non ho nessuna colonna sonora o musica consigliata , se non questa che mni ritorna all'orecchio e mi evoca ricordi d'infanzia
da proporre in quanto ci sono già le belle canzoni di : Cesare Cremonini , Tiziano Ferro , Lucio Dalla presenti nel filmato sotto riportato
Non è necessario essere onnipresenti sui media o in rete ( infatti la sua pagina ufficiale su fb non viene aggiornata dal 2 settembre 2014 precisamente da questa foto riportata sotto )
da http://www.repubblica.it/ del 13\2\2017 A 50 anni Roberto Baggio è fuori: dal gioco, dal calcio, da ogni falò delle vanità. Infatti secondo Ha smesso da oltre dieci anni di misurare il mondo con le righe del campo. Non rilascia interviste, non parla di calcio, non presenzia. Gli è riuscita la magia di scomparire dal palcoscenico, di evitare l'invenzione della nostalgia, niente più c'era una volta in America. Se n'è andato senza avere conti in sospeso con i ricordi, fedele all'idea che un addio è un pallone che non torna indietro. Via la luce, i crucci, e niente più finte. Eppure è stato il pre-Messi e il pre-Neymar, l'ultimo attaccante italiano Pallone d'oro ('93), e l'anno dopo poteva ripetersi (secondo dopo Stoichkov), l'unico azzurro ad aver segnato in tre mondiali diversi ('90, '94, '98), due figli in coincidenza: Valentina ('90), Mattia ('94), l'ultimo, Leonardo, nato invece nel 2005. Miglior marcatore (9 gol) con Rossi e Vieri. Selezionato in nazionale con cinque squadre diverse: Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna e Inter. Convocato da 4 ct: Vicini, Sacchi, Maldini e Zoff. Osteggiato e contestato da molti di più, spesso trattato da zoppo, da numero 10 dimezzato, banale portatore di male.
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Un diverso, un atipico, uno col codino, poco macho, e per di più buddista. Un coniglio bagnato, per l'avvocato Agnelli. Un nove e mezzo per Platini. Un asso rococò che mette il dribbling anche nel caffellatte, per Gianni Brera. Un involontario agitatore sociale, sempre per l'avvocato Agnelli. "Una volta scendevano in piazza per protestare contro la Fiat, oggi perché Baggio non vada alla Juve. Direi che il paese è migliorato". Questo prima che Baggio si rifiutasse in maglia bianconera di battere un calcio di rigore contro la Fiorentina, ma soprattutto contro la sua ex città Firenze, che per tenerlo era scesa in piazza, come una madre che non si lascia strappare il figlio, scontrandosi con la polizia, con le vecchiette che dalle terrazze di piazza d'Azeglio gettavano i loro vasi di gerani e di limoni contro gli agenti. Baggio per la città era un bene culturale, un quadro degli Uffizi, un Michelangelo moderno, fa niente se nato in Veneto, era comunque un fratello rinascimentale, pure la sua ricerca del tiro a giro sul secondo palo. Tanto che il questore definì la rivolta "una psicosi di folla", senza capire che il calcio nelle sue geometrie distribuisce sentimenti e che il cuore non sempre può essere dribblato.
Baggio è uscito dal campo il 16 maggio 2004, dopo sedici anni di sorrisi, ma anche di dolori e di ginocchia sfasciate, con una sola frase: "Ho dato tutto". E non è più rientrato se non un tentativo federale di farlo presidente del settore tecnico, incarico di facciata lasciato dopo tre anni. L'uomo sbagliato al posto sbagliato. Baggio non ha mai preteso, né comandato, né commentato. Soprattutto dopo la sua conversione buddista: "Tutto arriva dentro di me a mia insaputa". È rimasto un figlio della società contadina, un principino della zolla, uno che amava giocare a calcio, non parlarne, tutto quello che rotola attorno al pallone non gli interessa. Tv, conferenze, visibilità: no grazie. E nemmeno fare l'ambasciatore tra i fili d'erba. Non ha più rimesso gli scarpini. Non guarda più le partite, fa eccezione solo per la squadra argentina del Boca Juniors. Non ha mai voluto costruire un impero, gli bastava essere il cavaliere della passione, il Crociato del divertimento. Si è sottratto da quel "da quando Baggio non gioca più non è più domenica", come canta Cesare Cremonini. Però il calcio italiano anche a Sanremo è ancora quel suo rigore calciato alle stelle nello stadio di Pasadena nel '94, a undici metri dalla felicità, anche se non è detto che l'Italia senza quello sbaglio avrebbe
vinto il mondiale (prima di lui avevano fallito Massaro e Baresi). Come se quella grande illusione contasse ancora di più della grande impresa del 2006.
Nel 2010 a Hiroshima, votato dai premi Nobel, ha avuto il World Peace Award, primo caso di un calciatore che vince il titolo di Uomo di Pace per i suoi assist alla difesa dei diritti umani. A 50 anni la vita è fatta di altre partite. E si può segnare in altri modi. Conigli bagnati si asciugano e corrono felici.
Infatti egli è un calciatore (o vip se preferite ) modesto , anche troppo , riservato . che ha dato tutto ( vedere scheda al lato presa dalla sua voce di https://it.wikipedia.org/)
Roberto Baggio, sulla soglia dei suoi primi cinquant’anni, è buddista. Il secondo dei principi fondamentali dettati dal Buddha sostiene che il ciclo vitale di ciascun individuo e di ogni elemento terreno si risolve nei passaggi obbligati del nascere, crescere, decadere e scomparire. Roberto Baggio è scomparso. Non lui come individuo, naturalmente, ma la sua immagine di cartapesta che i Mangiafuoco del mondo del pallone gli avevano costruito addosso immaginando che, così facendo, avrebbero dato vita ad un bellissimo e affascinante “mostro” usabile e sfruttabile ogni oltre ogni legittimo confine temporale. Il mito. La leggenda. Il pifferaio magico. Illusi che avevano capito niente.
Roberto Baggio, volutamente e coscientemente, dopo essere nato e cresciuto eppoi aver consumato nel dolore fisico e morale la propria decadenza alla fine è scomparso esattamente come impone la regola cardine della sua religione che è anche filosofia oltreché legge immutabile dell’universo. (...) Con felicità e con serenità. Nessuna intervista. Nessuna comparsata televisiva. Nessuna interferenza a commento di un mondo professionale che pure gli appartenne per competenza e per qualità. Nessuna notizia da “vendere” alle copertine del suo presente, di quello di sua moglie e dei suoi figli. Nessuna attenzione alle cronache di quello che per lui è stato e sempre sarà soltanto un gioco. Una piccola e brevissima illusione, soltanto. Quando viene chiamato in Federazione per, dicono, ricoprire un ruolo importantissimo e utile all’educazione sportiva dei bambini. Una balla spaziale. Se ne accorge nel giro di tre mesi. Se ne va. Anzi, forse lì non c’era mai stato.(....)Lui che si guarda bene dal prendere incarichi ufficiali da “ambasciatore” il cui compito sarebbe quello di produrre denaro vendendo la sua immagine di icona del pallone. Poi in Argentina dove va a caccia senza uccidere e dove soddisfa le ultime voglie di calcio andando a vedere qualche partita del Boca che è la sua squadra del cuore. Neppure nel paese di Caldogno lo vedono più di tanto. Vive nella sua “facenda” veneta la sua nuova età del contadino a tempo pieno nel nome e nel rispetto dei suoi antenati che lavoravano la terra. Non è più il simbolo del rigore sbagliato a Pasadina e neppure di quello non calciato a Firenze. Non è più il “Nove e mezzo” di Platini o il “Coniglio bagnato” dell’Avvocato. Erano stereotipi, quelli. Sovrastrutture create da altri per lui il quale di tutta quella baraonda intorno non aveva mai provato il bisogno. Un prato, un pallone e una porta dove metterlo dentro. Anche soltanto due sacchi a fare da pali e la luna a illuminare l’erba. Questo e basta ha sempre voluto. Il resto gli è stato dato perché lui lo ha meritato. Non richiesto. Resterà nelle canzoni di Cremonini e di Ferro. Nelle fotografie degli archivi di tutto il mondo. Negli articoli scritti per narrare le sue avventure. Resterà il mito. Non Roberto Baggio che, scegliendo di non esserci più, ha dato l’esempio più clamorosamente bello e pulito a quella parte di mondo che pur di esserci ad ogni costo venderebbe l’anima al diavolo.
mi piace concludere questo articolo con una frase dello stesso baggio , lui che ha sbagliato il rigore decisivo ( secondo alcuni ) di Italia-Brasile finale mondiali 1994 « I rigori li sbagliano soltanto quelli che hanno il coraggio di tirarli. » Roberto Baggio