19.5.20

Andy Rocchelli, una storia da raccontare e da far uscire dalle nebbie

Fra le tante storie  lette  o sentite  ( video e  podcast  )  durante  questo periodo  eccovene  una  molto bella   . Essa descrive benissimo   il  tipo di quelle    di cui  ho parlato nel precedente  post  .
Lo  so che non è mia  , cioè raccontata  da me  ma d'altri . Ma   è  grazie  a persone  come   colui che   ha  fatto    l'articolo e   l'ha  raccolta    che   tali  vicende    rinascono     riemergono  dalle  nebbie   del tempo e  dall'oblio in cui  i media maistream  e i politicanti le  hanno   fatte  finire

da https://www.mariocalabresi.com/stories/


 Ci sono foto che nella vita non si dimenticano mai, che ci accompagnano, che formano il nostro immaginario e segnano la nostra memoria. Di questa ricordo i volti dei bambini, nove o dieci bambini pigiati in una dispensa sotterranea, tra barattoli di conserve, marmellate, pomodori, peperoni e cetrioli sottaceto. Li avevano stipati in questa cantina, a cui si accedeva attraverso una piccola botola, per proteggerli dai bombardamenti. Alcuni erano orfani, tutti erano stati raccolti e ospitati da una famiglia che provava a salvarli.





Ucraina, maggio 2014. Bambini rifugiati in una cantina per proteggersi dai bombardamenti a Sloviansk, durante il conflitto tra nazionalisti e separatisti filorussi (foto ©Andy Rocchelli/Cesura)

Nella foto cinque di loro guardano verso l’alto, la bimba piccola con il cappello di jeans ha un’espressione che sembra mescolare stupore e paura, gli altri fissano con fiducia il fotografo. Sono nascosti sotto il fronte: sopra quella casa, in quel momento, passava il confine estremo di un’idea di Europa. Da un lato c’erano gli ucraini che volevano diventare europei, dall’altra quelli che guardavano a Mosca, in mezzo, intrappolati, gli innocenti che avevano la colpa di abitare nel posto sbagliato.Questa foto la pubblicai sulla “Stampa” lunedì 26 maggio 2014. Era stata scattata pochi giorni prima, ma il fotografo non c’era più. Era stato ucciso insieme al suo amico e compagno di viaggio, il dissidente russo Andrej Mironov, proprio su quel fronte. Colpiti da un colpo di mortaio nel pomeriggio di sabato 24. Il fotografo si chiamava Andrea Rocchelli, detto Andy, e aveva 30 anni.






Andrea “Andy” Rocchelli, a destra, e Andrej Mironov nell’aprile del 2014 (foto ©Gabriele Micalizzi/Cesura)

Non seppi più nulla di lui, finché un giorno di inizio aprile del 2017 a Perugia mi si avvicinarono due persone. Un uomo e una donna, marito e moglie. Parlavano quasi sottovoce. Era evidente che avevano paura di disturbare, erano arrivati fin lì per amore. Per amore del loro figlio scomparso senza verità e senza giustizia. Erano Elisa Signori e Rino Rocchelli, i genitori di Andy. Erano venuti a seguire la presentazione di “Nove giorni al Cairo”, il documentario che con “Repubblica” avevamo dedicato al rapimento e all’omicidio di Giulio Regeni. Ero appena sceso dal palco della Sala dei Notari, dove si teneva il Festival internazionale di Giornalismo, quando mi chiesero se potevano raccontarmi di Andy.Mi spiegarono che erano a Perugia per presentare il lavoro del figlio e denunciare le circostanze non chiarite della sua morte. Nonostante il tono pacato si intuivano la frustrazione e il dolore per il fatto che l’inchiesta sull’omicidio non stesse andando da nessuna parte e la sensazione che Andy fosse stato dimenticato. Non mi chiesero nulla in particolare, volevano solo seminare memoria. Alcuni mesi dopo, all’inizio dell’estate, registrai la notizia che un ragazzo italo-ucraino era stato arrestato all’aeroporto di Bologna in relazione alla morte di Rocchelli. Poi più nulla.



Pavia, marzo 2020. Elisa Signori e Rino Rocchelli, i genitori di Andy (foto ©Alessandro Sala/Cesura)

Fino ad un pomeriggio di fine luglio dello scorso anno quando sono andato a prendere un caffè con Anna Dichiarante, una giornalista che avevo conosciuto a “Repubblica” durante la mia direzione. Mi voleva raccontare di un processo che aveva seguito a Pavia e che era appena arrivato a sentenza, un processo affollatissimo, teso, pieno di colpi di scena ma che non era mai arrivato sulle prime pagine dei giornali. Era il processo per la morte di Andy Rocchelli e Andrej Mironov. Quella sera, su un treno verso il mare, ho capito che quella storia mi si era impigliata nei pensieri, e che doveva essere raccontata fin dall’inizio.Ho cercato di capire perché fosse scivolata via in silenzio, tra le cose dimenticate e non urgenti. Dopo un po’ di ricerche mi sono fatto l’idea che, in questo frenetico ciclo di notizie, l’Ucraina e le sue storie avessero perso presto importanza in quel 2014 in cui l’Isis stava prendendo piede in Iraq e Siria e nasceva lo Stato Islamico. Per cominciare mi sono procurato “Evidence”, il libro con le foto di Andy, e ho cominciato a sfogliarlo per cercare di entrare in sintonia con il suo sguardo. C’erano le foto della rivolta di Maidan a Kiev, i ragazzi che vanno a combattere contro Gheddafi in Libia, la testimonianza delle violazioni dei diritti umani in luoghi dimenticati come il Kirghizistan e l’Inguscezia.


Ucraina, febbraio 2014. La rivolta di Maidan, a Kiev, con i manifestanti che contestano la mancata firma dell’accordo con l’Unione europea (foto ©Andy Rocchelli/Cesura)

Sentivo l’urgenza di raccogliere più elementi possibile, di scavare dentro questa storia. Restava da capire quale fosse la forma più giusta. Mi sono ricordato di una chiacchierata romana con Carlo Annese, uno dei pionieri del podcast in Italia, in cui mi aveva sfidato a sperimentare l’idea di fare inchieste audio. L’ho chiamato e lui ha organizzato, ai primi di settembre, un incontro con Storytel, piattaforma svedese che anche in Italia produce podcast e audiolibri; è bastato poco per capire che valeva la pena provarci.Allora ho telefonato ad Anna e le ho detto che volevo raccontare la storia di Andy, ma a patto che mi aiutasse a raccogliere tutto il materiale e le testimonianze. Mi ha risposto soltanto: «Sapevo che se te l’avessi raccontata tu l’avresti fatta». Così abbiamo cominciato un lungo viaggio tra le carte, gli atti del processo e le voci di colleghi, amici, investigatori, che arriva in porto oggi con questa serie in quattro puntate che si chiama “La Volpe Scapigliata”. È stato il lavoro più lungo che abbia mai fatto, un giornalismo lento, durato più di otto mesi.Ho impiegato molte settimane a convincere Elisa e Rino Rocchelli a rompere il loro riserbo e a parlarmi di Andy, ma piano piano abbiamo costruito un rapporto di fiducia e amicizia che mi onora. Un pomeriggio Rino mi ha aperto il suo computer, dentro ci sono gli audio che Andy raccoglieva intervistando tutti quelli che fotografava. Elisa, che insegna Storia contemporanea all’Università di Pavia, mi ha spiegato meglio di chiunque altro perché quella foto della cantina mi era rimasta negli occhi: «Perché è la più rappresentativa del modo in cui Andrea si poneva nei confronti di chi voleva fotografare, e perché quello scatto presuppone un rapporto di confidenza e di fiducia. Bisogna osservare lo sguardo di questi bambini, nascosti in mezzo alle marmellate e ai sottaceti, si vede che passa qualcosa tra la macchina fotografica e quegli occhi, credo sia solidarietà e condivisione».


Libia, marzo 2011. Dopo gli scontri tra i ribelli della Primavera araba e le truppe governative, molti cercano di scappare dal Paese ed entrare nella vicina Tunisia (foto ©Andy Rocchelli/Cesura)

Avevo provato a contattare anche Mariachiara Ferrari, la compagna di Andy, che in questi anni ha sempre preferito stare un passo indietro e proteggere Nico, il loro bambino, che proprio nel giorno della morte del padre aveva compiuto tre anni. Un giorno mi ha scritto dicendomi che, se avessi avuto bisogno di aiuto, lei ci sarebbe stata, ma senza registratore. In una giornata tiepida di questo inverno ci siamo trovati sul Ticino e abbiamo camminato a lungo sul greto del fiume fino al tramonto, ha risposto a tutte le mie domande e mi ha spiegato perché gli amici scout chiamarono Andy “Volpe Scapigliata”.


Pavia, febbraio 2020. Il tramonto sulle rive del fiume Ticino

«Una sera Andy mi ha chiesto: “Indovina il nome che mi avevano dato agli scout. È quello di un animale”. Io – racconta Mariachiara – ho risposto subito: volpe. Non ci poteva credere che avessi indovinato al primo colpo e cominciò a dire che lo sapevo già. Quando poi, con un colpo di fortuna, ho aggiunto scapigliata, la sua teoria che me lo avesse suggerito qualche suo vecchio amico divenne una certezza. La verità è che io non lo sapevo. Dissi volpe perché Andy ti dava un’idea di selvatico ma allo stesso tempo di curioso. Di una persona fedele a sé stessa che non scende a compromessi. Non gli avrei mai dato il nome di un animale domestico, lui non poteva che essere un animale del bosco.Scapigliato? Era arruffato, concentrato a seguire il suo fiuto. Ricordo la sua macchina quando ci siamo conosciuti: aveva una vecchia Uno grigia, sempre piena di cose che trovava in giro, di fogli e di rotoli di carta fotografica. Una volta era tornato con un telone di quelli che si usano per coprire i camion. Mi disse: “Teniamolo, chissà che un giorno non possa servire”. A casa ho ancora due vecchie poltroncine rosse di un cinema, venne a sapere che le buttavano via e andò a recuperarle. La sera si sedeva lì e io dicevo che quello era il suo trono. Riusciva a vedere negli oggetti e nelle persone, potenzialità che agli altri sfuggivano. Era questo il suo segreto».

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