Visualizzazione post con etichetta ingìfewrmieri nei reparti covid. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta ingìfewrmieri nei reparti covid. Mostra tutti i post

24.12.20

Storia di Anna, infermiera Covid, e della trincea dove 180 mila donne e uomini combattono in silenzio ogni giorno la più grave delle pandemie degli ultimi cento anni

Lo so che sarete stufi di leggere storie sul covid , e non vi biasimo . Ma è grazie a gente come loro se le sofferenze passano in secondo piano . Persone prima osannate come eroi ed adesso tratte di .,.. come rifiuto . dalle stele alle stalle insomma . Infatti : << (... ) All'inizio si è fatta molta retorica (i nostri angeli), poi è emersa addirittura qualche ostilità. Stiamo parlando di dipendenti pubblici, insultati e disprezzati sistematicamente quando fa comodo pensare che esistano solo le partite Iva e i lavoratori autonomi. Ci si dimentica troppo facilmente che sono loro che possono salvarci la vita. Allora, oltre ai ristori per bar e ristoranti, il governo e le regioni dimostrino concretamente la gratitudine degli italiani a queste persone che rischiano la loro vita ogni giorno.>>(  da  u  commento all'articolo     che  trovate  sotto 


da repubblica del 24\12\2020

Matricola 169381


DI CARLO BONINI (COORDINAMENTO EDITORIALE E TESTO), MICHELE BOCCI, COORDINAMENTO MULTIMEDIALE DI LAURA PERTICI,

Ore 5.35. Il buon giorno

La prima sveglia arriva con il cellulare e suona alle 5.10. Ma Anna si alza dopo la seconda, quella delle 5.35. Se va bene, il piccolo Davide, un anno, dorme ancora e lei ha tempo di mettere su il caffè, svuotare la lavastoviglie, preparare i vestiti per la scuola della figlia grande, Sara, e rimettere un po’ di ordine in casa. Senza fare troppo rumore, per regalare ancora un po’ di sonno al marito, operaio.
Alle 6.10, l’aria pizzica. E Anna si infila nella Opel Corsa azzurra con un brivido. Da Sant’Agostino, provincia di Ferrara, all’ospedale di Bentivoglio, Bologna, sono 26 chilometri di bassa padana. Alberi da frutto, cascine isolate, rettilinei deserti che si infilano nella nebbia.
“Avrei dormito di più nella vita se fossi andata avanti con la grafica pubblicitaria che ho studiato alle superiori. O, magari, se avessi deciso di iscrivermi a psicologia, come pensavo di fare appena diplomata. Ma mia zia e suo marito erano infermieri, e così ho voluto provarci anch’io. In fondo, si trattava comunque di stare a contatto con le persone, proprio come fa uno psicologo”.
L’Opel viaggia spedita. Anna conosce le strade a memoria, non fosse altro perché le percorre ormai da tredici anni, da quando ha trovato lavoro a Bentivoglio. È una guida spezzata, la sua. Fatta di scorciatoie strette che corrono accanto ai canali.
“Me la ricordo ancora mia nonna mentre scendeva in lacrime le scale di casa il giorno in cui con i miei genitori abbiamo lasciato la Sicilia e il nostro paesino in provincia di Catania, Scordia. Babbo aveva trovato un lavoro quassù. All’inizio è stata dura. Avevo 10 anni e avevo appena finito la quarta elementare. A soffrire di più però è stata mia mamma. Guardava il cielo grigio fuori dalla finestra e non capiva come fossimo finiti in questa terra. Ci ha messo un po’ ad adattarsi, ma alla fine ce l’ha fatta e ha cresciuto me e mio fratello. E penso sia soddisfatta delle persone che siamo diventate”.
Al centro della rotonda di Bentivoglio, c’è una scultura di rame: dodici mondine che vanno al lavoro in bicicletta. Fatica e condivisione. Un po’ come dentro i reparti del palazzone dei primi del Novecento che affaccia lì di fronte. Lo ha fondato un benefattore, il marchese Carlo Alberto Pizzardi. A quest’ora, trovare parcheggio non è un problema. Il cielo è ancora nero quando la portiera della Opel si chiude. “Ospedale consorziale”, annuncia la scritta all’ingresso. Anna Maria entra senza alzare lo sguardo. Passa il badge e si infila negli spogliatoi del piano interrato per cambiarsi e raccogliere i capelli.

Ore 6.50. Nel reparto



Al primo piano, sopra la porta, tre cartelli sembrano usciti da un altro tempo: “Ginecologia”, “Chirurgia”, “Geriatria”. Sì, il tempo in cui si cercava di far convivere più specialità in un’unica unità operativa, come succede spesso nei piccoli ospedali di provincia. Il Covid ha spazzato via tutto. Adesso, qui a Bentivoglio, si ha cura solo di chi ha il coronavirus e i letti annunciano un unico spazio, quello delle malattie infettive. Dietro la porta a vetri convivono due mondi: il “pulito” e lo “sporco”.
È una differenza che bisogna avere chiara. Pulito e Sporco. E mandare a mente. Perché i due mondi, che pure sono fisicamente adiacenti non devono neppure sfiorarsi. Aiutano a orientarsi i cartelli sui muri e le strisce di scotch nero e giallo in terra. Guai ad oltrepassarle. “Non vanno neanche calpestate”, avverte con una certa severità un’infermiera. Per chi si muove nel “Pulito” sono sufficienti camice e mascherina Ffp2.
Chi lavora nello “Sporco” deve entrare nella dimensione asettica della protezione integrale di ogni superficie del corpo. Essere di qua o di là è questione di mansioni. O di fortuna. Se sei un operatore sanitario e il tuo compito è servire il pasto, non puoi evitare lo “Sporco”. Se sei il primario, di solito aspetti il collega che fa le visite di qua dalla linea, nel “Pulito”.Gli infermieri si alternano a seconda della giornata. Oggi, ad Anna, che sta entrando in reparto con un pile azzurro sopra la sua divisa blu, toccherà lo “Sporco”. Per il primo dei tre turni con cui si ruota in trincea. La mattina, alle 7. Il pomeriggio, alle 13.20. E la notte, che comincia alle 19.45. È così ovunque. Per Anna come per gli altri 180mila infermieri Covid del nostro Paese. I fanti della nostra nuova linea del Piave. Negli ospedali, negli ambulatori, nelle residenze per anziani, o anche nelle case delle persone malate. Detestano la retorica dell’eroismo, sorridono del sostantivo “angeli”. Forse perché, come Anna, sanno che quando tutto questo finirà, ci saranno altri malati di cui prendersi cura, altre malattie da affrontare, sofferenze da accompagnare. Che pochi si ricorderanno di dire “grazie”. Che non ci saranno premi. Perché è il loro lavoro e loro lo hanno scelto.
Il reparto non è grande. Quaranta passi di lunghezza e due corridoi su cui affacciano le camere, 13 in tutto. Al loro ingresso, i carrelli con il materiale per le medicazioni e i bidoni per i rifiuti. I punti in cui togliersi le protezioni sono indicati da cartelli a muro, su cui appoggiare la mano quando ci si sfila la tuta dai piedi, prima di spruzzarsi e cospargersi di prodotti per disinfettarsi. Le camere sono tutte da due letti con bagno e nessun paziente può uscire. Molti non ce la farebbero comunque perché stanno male. Ma la regola vale anche per chi, dallo “Sporco” prova a fare capolino per immaginare quanto manca a superare il confine che lo separa dal “Pulito”.
È un mondo dell’assenza. Per chi cura e per chi è curato. L’assenza di chi non sia malato o infermiere. L’assenza di chi vive fuori da quelle mura e a cui è vietata ogni visita. Genitori, figli, fidanzate e fidanzati. Mogli, mariti. Amiche, amici. Anna ne parla all’imperfetto. Come appunto di presenze di un mondo che non esiste più. “E dire che quando ancora potevano entrare, ci lamentavamo. Qualche volta diventavano di intralcio durante la somministrazione dei farmaci, ci interrompevano continuamente per farci domande sui loro cari e ci distraevano. Adesso, osservando la solitudine dei pazienti, si stringe il cuore. Come quando un anziano telefona per sapere come sta la moglie. Si informa se ha mangiato e ha bevuto ma chiede di non farlo parlare. Ha paura che dalla sua voce si capisca quanto sta soffrendo senza di lei e non vuole farla preoccupare”.
 

Ore 7. Consegne

Preparare le terapie e somministrarle, annotare le cartelle cliniche, rifare le terapie a chi ne ha bisogno, organizzare i nuovi ricoveri e le dimissioni e dare le consegne a chi subentra. È questo il programma di oggi del turno di Anna e delle sue colleghe, oggi tutte donne. Va seguito con precisione. Come dice Anna, con “organizzazione e consapevolezza”.
Il box degli infermieri è il cuore del reparto. E per questo si trova al centro. È diviso in due stanze. Nella prima, ci sono i computer, gli armadietti dagli sportelli verdolini, le sedie per le riunioni, i fogli attaccati alle pareti con su scritte le indicazioni sui telefoni da chiamare e le procedure da seguire. Nella seconda è il laboratorio dove si preparano le terapie. Un luogo per iniziati: i cassetti pieni di farmaci, i carrelli con i contenitori destinati ai singoli pazienti, il materiale per bendaggi, fasciature, prelievi.
I medici arrivano più tardi e comunque hanno una loro stanza da un’altra parte del reparto, vicino all’ingresso. Più defilata. I mondi professionali collaborano, ma sono indipendenti. E la sensazione è che il reparto sia saldamente nelle mani degli infermieri durante tutto l’arco della giornata. Eseguono quello che dicono i dottori, certo. Ma hanno ampi margini di autonomia e, soprattutto, si fanno carico del rapporto con i pazienti.Nel box ci sono otto persone. Lo sguardo di chi smonta dalla notte è di persone sfinite. Anna è seduta su un panchetto. Prende appunti. I pazienti vengono indicati con i cognomi, che sono anche scritti su una lavagnetta. Più avanti, per non sbagliare, si passerà al numero di stanza e alla posizione. Così c’è il “2 finestra”, con la glicemia che fa troppo su e giù e che tollera poco la mascherina per l’ossigeno. Il “4 porta” che, invece, è stato agitato tutta la notte e ha parlato nel sonno. “Oggi la 11 finestra è un po’ abbattuta. Non è vivace come sempre, non ha nemmeno chiesto di farsi i capelli. Non è la stessa. Ha detto che non vuole la terapia perché si è stancata di prendere farmaci”. E invece come va il “7 porta”, ha mangiato? “Macché, diciamo che mangiucchia”. Ci sono tuttavia alcune parole chiave per intendersi rapidamente sulla condizione clinica dei pazienti Covid: “responsivo” e “non responsivo”. “Soporifero”, o “vigile”, “autonomo”, “orientato”. Ci sono malati giovani, pochi, e anziani, molti. C’è chi aspetta di morire. E chi se la caverà ma ha una paura da matti e chiama spesso perché gli manca l’aria. Un segnale da non sottovalutare mai perché “abbiamo dovuto mandare in terapia intensiva persone che si sono aggravate in un paio di giorni”.
Prese le consegne, Anna si sposta nella stanza dei farmaci. Sono le 7.35 ed è necessaria concentrazione. Preparare le terapie è un lavoro lungo che richiede attenzione. Oggi c’è una ragazza nuova, rientrata da poco dalla maternità. Si chiama Chiara e deve essere un po’ aiutata anche se è sveglia e ha esperienza in un reparto dove sono abituati a correre come in pronto soccorso. 
Gli armadi dei farmaci non hanno etichette che illustrino cosa contengono e non è facile orientarsi. Si lavora in coppia e si controlla sulla scheda di ciascun malato se le terapie sono quelle giuste. Poi si riempiono le vaschette di ogni paziente con flebo, pasticche, gocce, pomate e sulle confezioni si scrive il nome del medicinale o del ricoverato. Non si deve sbagliare.

Ore 8.30. Vestizione

La stanza della vestizione del reparto di Bentivoglio è piccola e piena di scatole. Dentro, tute bianche con cappuccio, gambali, visiere, cuffie per i capelli, doppie mascherine. Anna si muove lentamente, rispettando un rituale imparato nei corsi di formazione sulle regole anti contagio.



“Da quando c’è il coronavirus ho smesso di bere il tè a colazione – confida sorridendo alla collega che si prepara con lei – Così non mi scappa la pipì mentre sono qua dentro. Sarebbe un bel problema”. Nelle tute fa un caldo asfissiante.
“Sai che l’altro giorno Dalila è svenuta mentre era in turno con me – racconta l’altra infermiera che si sta preparando – Probabilmente non aveva mangiato e bevuto abbastanza. Si è accasciata, l’abbiamo dovuta portare fuori noi trascinandola all’interno della zona sporca. Abbiamo aspettato che si riprendesse prima di farla cambiare”. Anche la visiera trasparente è faticosa da portare. “È tremenda, fa sudare sulla fronte nel punto in cui appoggia la spugna”.

Ore 8.45. “Dieci finestra”

“Allora, buongiorno, come va? Ehi, c’è qualcuno?”. Prima stanza e prima paziente che non risponde. È anziana, immobile nel letto, confusa. Anna si affaccia dalla porta, guarda la collega e sorride. Lo farà ancora tante volte, fino alla fine del turno, di fronte a tutte le difficoltà e tensioni che si presenteranno. “Lei è così, non si perde d’animo. È sempre positiva”, confida Benedetta osservandola riprendere il lavoro. Bisogna insistere con la signora, un’anziana. “Come stai?” (qui si tende a dare del tu ai pazienti). “Ah, bene mi hai risposto. Ok, poi vediamo se mangi qualcosa, magari uno yogurt”, dice a voce alta. Fuori il cielo è grigio, “pantone Bologna”, lo chiama qualcuno per scherzarci su, mentre in reparto è arrivata la colazione.
Mentre Anna si avvicina al secondo paziente, suona un campanello in un’altra stanza. È un malato che ha iniziato a respirare male e chiede assistenza, il “10 finestra”. Bisogna sbrigarsi. Anna accelera il passo, accenna quasi una corsetta. “Certi malati peggiorano in fretta, così dobbiamo avvertire l’anestesista e farli portare in terapia intensiva perché la saturazione si abbassa troppo. Ne abbiamo visti tanti di quel tipo, è meglio sbrigarsi”. Fortunatamente questo non è il caso. I valori non vanno male, il respiratore dà il giusto aiuto. “Non è che ti sei solo un po’ spaventato?”, chiede Anna. “Dai, dai, sistemati per bene l’ossigeno che dopo ritorno”. Allarme rientrato, riparte il giro.



C’è un catetere da sistemare, va fatto un prelievo a una signora con le vene in pessime condizioni e sono necessari venti minuti di lavoro in due per venirne a capo. Altra stanza, altre cose da fare. Fissa la flebo, convinci quel signore a prendere la medicina e quell’altro ad andare in bagno prima che sia necessario il clistere. Il tempo passa, la temperatura dentro la tuta aumenta, la faccia è rossa ma si apre di tanto in tanto in un sorriso. “Dai, dai, che stiamo andando bene”, dice Anna facendosi passare l’ennesima flebo da Benedetta. E poi per ora non ci sono stati grossi imprevisti. “Sono quelli a mettermi di più sotto stress. Soprattutto quando ne arrivano più di uno insieme”.


Ore 9.05. Decesso

In un reparto, la morte è un fatto spesso atteso. A suo modo, naturale. Poco dopo le 9, un uomo anziano, affetto da varie patologie appena trasferito in condizioni gravi da un altro ospedale, se ne va per sempre. Anna non fa in tempo neanche a realizzare, perché sta lavorando nell’altro corridoio. Bisogna avvertire i parenti, chiamare l’obitorio, preparare il trasferimento della salma. Prima però le infermiere che hanno in carico la stanza stendono un lenzuolo. Serve a non rendere visibile il letto della persona deceduta al paziente ospitato accanto a lui finché non arriva la cassa dove comporre la salma.
Il resto dell’attività va avanti. L’assistenza agli altri malati non viene interrotta neanche per un momento. “Ci sono però morti che non dimentichi – racconterà Anna più tardi, una volta arrivata a casa – Come quella donna che se ne è andata pochi giorni fa nella stanza dove era ricoverata con il marito. Erano stati messi insieme per aiutarli, perché si sostenessero a vicenda. È stato lui ad avvertirci, a dire che probabilmente la moglie non c’era più perché aveva smesso di sentire il suo respiro. Non so, in quel momento ho pensato che forse non è sempre la cosa migliore tenere insieme i parenti dentro un ospedale”
La morte può essere un presagio. O un annuncio di fronte al quale mentire. “Capita che ci rimandino indietro i pazienti dalla terapia intensiva perché non possono trattarli, perché troppo fragili per essere intubati. E purtroppo, spesso, sono malati ancora coscienti, che parlano con noi tranquillamente del futuro e di quello che vorrebbero fare fuori da qui. È drammatico avere davanti una persona, una nonna che ti dice di non vedere l’ora di tornare a casa dai suoi nipotini, e sapere che l’hanno spostata da noi per accompagnarla verso la morte visto che in terapia intensiva non possono fare più niente per lei”.


9.30. I medici

Tra infermieri e medici non c’è competizione. Il lavoro è in parallelo. E lo si capisce anche visivamente, quando il primario Marco Masina e il dottor Stefano Gagliardi, un chirurgo prestato all’infettivologia per l’emergenza, entrano in reparto. Hanno anche loro il carrello con sopra un registro. Uno sta fuori, Masina, l’altro entra con le protezioni a visitare i malati. Qualche metro più in là, le infermiere. Li precedono nelle stanze e anche loro fanno avanti e indietro con le terapie. In certi casi dialogano, magari sul cambio di un farmaco per un malato o su un prelievo da eseguire velocemente. Il medico indica cosa fare ma accetta il consiglio dell’infermiera e chiede il suo parere.“Questa era la mia Geriatria – dice Masina – nel giro di pochi giorni, in autunno, è diventata un reparto Covid, così come praticamente tutto il resto dell’ospedale. Abbiamo di fronte un’unica patologia con le sue manifestazioni sempre uguali, anche se i pazienti poi possono soffrire di altre malattie che li rendono unici. Per questo è necessario leggere spesso i parametri come l’ossigenazione del sangue. Sono gli infermieri a rilevarli e sarebbe impossibile non lavorare in stretta collaborazione con loro”.
Masina racconta di quanto rapidamente quello di Bentivoglio sia diventato un ospedale Covid (salvo la maternità che è ancora aperta). “Non siamo più nel periodo in cui le dimissioni erano meno degli accessi ma ci vorrà ancora tempo per uscirne”, dice. Da quando è iniziata la pandemia Bentivoglio ha seguito 896 persone infettate dal coronavirus. La gran parte di queste, 669, sono pazienti della seconda ondata. La malattia ha colpito più duramente in autunno. E solo in questi mesi l’ospedale, che fa capo all’azienda sanitaria di Bologna, è stato dedicato tutto a curarla, chiudendo anche quelle attività destinate agli altri malati che erano rimaste in piedi tra marzo e l’inizio dell’estate.

11.15. Fuori dalla tuta, ma per poco

“Finalmente”. Anna è fradicia di sudore. Lentamente inizia a togliersi la tuta e le altre protezioni, nel tratto di corridoio destinato alla svestizione. Ci vuole tempo, bisogna evitare contatti con gli indumenti da eliminare. Ha quasi finito quando prende il disinfettante per le mani e lo spalma fino al gomito, poi la collega le spruzza quello spray sugli zoccoli di plastica. Anche se erano protette dai gambali è necessaria una passata di sicurezza.

“Tutto questo lavoro, questa attenzione alle regole… Ma il Covid l’ho preso lo stesso. Il 13 novembre ho avuto i primi sintomi”. Già, il reparto non è stato risparmiato dalla pandemia. Molti infermieri e anche medici e operatori socio sanitari tra la prima e la seconda ondata sono risultati positivi. Qualcuno è rimasto fuori per settimane e sono stati mandati rinforzi da altre strutture. In tempi di Covid ci si trova spesso a lavorare con colleghi che non si conoscono. “Quando ero in maternità guardavo la tv, parlavo con le mie compagne e avevo paura di rientrare perché temevo di prendere il virus e passarlo al mio bambino appena nato. Ho detto: appena ricomincio starò molto attenta. Niente da fare, l’ho preso lo stesso. Per fortuna non si è trattato di una forma grave. Ho avuto un po’ di raffreddore, e soprattutto non l'ho attaccato a mio figlio e nemmeno a mio marito. Il tampone positivo lo ha avuto solo la bimba, che ha 7 anni, e non è andata a scuola per un mese. Ho avvertito tutte le mamme sulla chat di Whatsapp e siamo rimaste a casa insieme per un po’ di tempo”.
Il virus non fa distinzione. La Fnopi, che è la federazione nazionale degli Ordini degli infermieri, ha contato 40mila professionisti contagiati come Anna. Si tratta del 22% del totale di quelli impegnati contro il Covid. Un numero altissimo, che ogni giorno cresce. Trecento nuovi casi positivi ogni 24 ore, secondo le stime Inail.
“Cosa ho pensato? Che siamo come tutti gli altri – dice Anna mentre indossa di nuovo il suo pile e si dirige verso il box – Più che per noi, che comunque siamo abbastanza giovani, abbiamo paura per i nostri cari. Ma questo non basta a evitare il contagio. Anche i miei genitori hanno preso il coronavirus. Mio padre è ancora in quarantena, spero che la Asl lo liberi presto”.
Dopo il cambio non c’è nemmeno tempo per un caffè, giusto un sorso d’acqua. I ritmi di lavoro sono alti. Si torna nella stanza dei farmaci a preparare le terapie. “Eh, mica abbiamo finito qui, a mezzogiorno si riprendono i parametri, si fa l’insulina e qualche farmaco”. Prima però c’è da scrivere. A Bentivoglio e in buona parte delle strutture dell’Emilia-Romagna non è ancora arrivata la cartella elettronica (ormai presente in altre Regioni) e una parte importante del lavoro degli infermieri consiste nel riempire i registri. Con la faccia ancora segnata da mascherina e cappuccio si afferra la penna e si segna tutto quello che è stato fatto a ogni paziente sulla sua cartella. “Bisogna documentare tutto, perché quello che non scrivi è quello che non fai. Poi va segnato se manca qualcosa. Ad esempio, capita che oggetti personali, come le dentiere, vadano perduti”.
In mezzo al trambusto, c’è una giovane infermiera che praticamente non molla mai il telefono. È Laura e si occupa dei trasferimenti, dei ricoveri, delle dimissioni e di chiamare i parenti a casa. “Senta, noi tra un paio di giorni dimetteremmo suo padre. Avete bisogno dell’assistenza a domicilio? Volete che avvii le pratiche per l’esenzione?”. Assicurarsi che i malati vengano seguiti anche dopo è fondamentale per un servizio sanitario che funziona.
“Siamo qui apposta, per rispondere ai bisogni delle persone, per affrontare anche problemi che potrebbero apparire piccoli – dice Anna – Ad esempio ci occupiamo dell’educazione sanitaria a domicilio, cerchiamo di essere presenti anche dopo. Quando gli anziani vanno a casa vengono addestrati alle terapie, si cercano di formare anche i familiari, si attivano se necessario i servizi sociali. Il nostro lavoro è bello quando ti rendi conto di essere utile alle persone non solo nei giorni in cui sono costrette a stare qui dentro”


12.30. Di nuovo nella tuta

Cibo e farmaci. Il lavoro da fare sembra non finire mai. Anna è di nuovo dentro. Convince “6 porta” a mangiare. Almeno qualcosa di morbido come una purea di patate, e intanto ricontrolla il dosaggio dell’insulina. È stanca ma non nervosa, al contrario di alcune colleghe che non ne hanno più. “Ah, certo. È a casa che poi mi arrabbio. E poi ormai siamo quasi alla fine del turno”. Questa è uno dei momenti critici nella vita del reparto, perché sarebbe l’ora delle visite, abolite in tutti gli ospedali italiani causa Covid. Ne sentono tutti la mancanza, operatori e pazienti. Il virus ha tenuto i malati distanti dai loro cari, un cambiamento epocale e dai risvolti psicologici pesanti e ancora da esplorare del tutto.
Benedetta Mosca si è fatta ritrarre dal tatuatore in tenuta da infermiera

Benedetta, qui dentro, è una delle più esperte. Ha anni di professione alle spalle e conosce bene le esigenze dei malati. Per questo è angosciata. “Vedere queste persone così, sole, è molto difficile. Stiamo vivendo un’esperienza devastante. Facciamo di tutto per aiutarle a comunicare con chi sta fuori. Portiamo i tablet e i cellulari agli anziani che non li sanno usare e facciamo le videochiamate ai loro familiari. È sempre toccante vedere chi sta male mentre cerca di tranquillizzare chi è a casa”.
A volte le infermiere fanno da tramite, prendono loro le telefonate. Come quella del padre che ha appena scoperto che il figlio è tornato positivo dopo un paio di tamponi negativi. Probabilmente a Natale non potranno stare insieme. Va invece meglio a uno dei più giovani ricoverati che tutti chiamano per cognome, Mosca. È un quarantenne che si affaccia dalla stanza con la flebo ancora attaccata. È contento, ringrazia, si prende le prescrizioni per la terapia da portare a casa. Ha ancora la tosse ma comunque è negativo e le sue condizioni sono buone. Lui le feste le potrà trascorrere con i suoi parenti e ha parole di ringraziamento per chi si è occupato di lui. Alle 13.16 Anna finalmente si sveste per la seconda volta. Adesso è davvero stanchissima. “Ma non è finita, ci sono da passare le consegne alle colleghe”.
Il rito si ripete. Ci si incontra tutti dentro la stanza dei computer e si ricominciano a discutere i casi. Si parla di nuovo di “4 porta”, “11 finestra” e di tutti gli altri. Uno a uno i pazienti vengono inquadrati e descritti. Anna ascolta e pensa già a quello che troverà a casa. Chissà se suo marito è riuscito a lasciarle il pranzo. “Intanto va bene se sono ancora tutti vivi dopo tutto questo tempo da soli”, scherza. Saluta le colleghe, entra in ascensore, va a cambiarsi e esce nel parcheggio. Il cielo non è più coperto ma di ore di luce prima che torni a fare buio ne sono rimaste poche.
 

Anna Fratullo a fine turno sta per passare le consegne alle colleghe del pomeriggio


14.30. Mamma!

La casa è in una palazzina bianca di una zona residenziale del paese. Anna abita al primo piano. Parcheggia l’auto nel cortile e sale l’unica rampa di scale. “Mamma!”. Un solo urlo di bambina. Secco. Tutti gli sguardi che si voltano verso la porta. Sì, è tornata mamma. Sara, 7 anni, è a gattoni sul divano. Davide siede per terra con dietro il padre, che lo tiene sotto controllo. Davide ha bisogno di stare un po’ in braccio. Sara, invece, vuole raccontare qualcosa di solo suo. Un segreto. Il marito Daniele, 48 anni, è stravolto dalla mattinata passata insieme ai figli. “Abbiamo giocato tanto”, sintetizza. Oggi è sabato ed era libero dal lavoro nell’azienda che collauda macchine per il lavaggio a secco.
“Se non ci fosse mia mamma durante la settimana sarebbe un bel problema, non so come farei – dice Anna – Quando io parto all’alba, lei arriva prima che mio marito esca per portare la bimba a scuola e andare in azienda. È ancora giovane, ha 60 anni, è in gamba. La madre di mio marito invece ha più di novant’anni e ha cresciuto sei figli e un numero imprecisato di nipoti. Sta bene e vorrebbe tenere anche lei Davide ma non ce la sentiamo. È un impegno troppo pesante”. Davide è vivace. Saltella di qua e di là. Tocca tutto, anche lo stereo del padre, un po’ affranto dal trattamento che quei ditini riservano alle sue cose.


Si mangia. Anna non sembra aver sofferto la fame in mattinata e anche adesso non è vorace. Va sul leggero: due toast con il prosciutto (“cavolo, abbiamo finito il formaggio”) e un bicchiere d’acqua. “Il vino lo bevo stasera”. Lei e il marito in questo periodo hanno il cruccio della casa, dove abitano dal 2007. Vorrebbero cambiarla, trovarne una un po’ più grande a un piano terra e con il giardino. L’appartamento sarà 90 metri quadri, la stanza d’ingresso è anche salotto e cucina. Il problema sono le due camere da letto. “Troppo poche. Per i bimbi una non basta. Maschio e femmina, quando lei crescerà non lo vorrà tra i piedi. Sarà difficile farli stare insieme ancora per molto”. In effetti già adesso fuori dalla porta ci sono due cartelli con il nome Sara e dentro i giochi appartengono tutti a lei. Niente fa pensare al piccoletto, che dorme ancora nel lettino nella stanza dei genitori.
“Con il mio lavoro guadagno 1.600 euro al mese. Ho visto che la paga con il secondo figlio è un po’ salita ma non ho la prospettiva di grosse progressioni – dice Anna – La mia caposala dice sempre che prende un paio di centinaia di euro in più per avere tutte le responsabilità dell’organizzazione. Ma questo è il lavoro che mi piace e mi dà soddisfazione”. Il rapporto con i vicini è buono, forse anche perché siamo in un paese. Non ci sono stati episodi di intolleranza nei confronti di Anna per il lavoro che fa, come invece è successo altrove ad alcuni suoi colleghi. Niente cartelli sgradevoli, niente commenti sottovoce mentre passa.
“Quando mi sono ammalata di Covid nessuno ha detto niente, anzi si sono offerti di darci una mano. Qui non c’è il clima di sospetto per chi fa il mio lavoro che hanno dovuto subire altri. Sono cose che ho visto solo in tv”. Interviene Daniele. “Anzi. Qualcuno approfitta del fatto che Anna sappia fare le punture, quando ha bisogno la chiama. La sua presenza li tranquillizza”.

Damiana Barsotti, infermiera del reparto di malattie infettive dell'ospedale San Luca di Lucca, lo scorso aprile ha trovato questo biglietto nella cassetta delle lettere

Le città non piacciono molto a Daniele. Preferisce starsene nel suo paese, dove fa parte dell’associazione di volontariato dei donatori del sangue. Pure quando si parla di cibo non ha voglia di viaggiare. “Lei no, lei ogni tanto mi propone quei ristoranti etnici ma a me non piacciono, sono più sulla cucina tradizionale, da trattoria”. Il bambino si è svegliato e reclama la mamma. Si riparte con giochi.

 19.30. Serata tigelle

Farina, strutto, lievito e acqua. È serata di tigelle e salumi. “Non cucino spesso, non ho molto tempo. Però quando mi ci metto sono abbastanza brava ed è divertente”. L’impasto è pronto e va steso e tagliato. Per cucinare i piatti tipici bisogna prima guardare come li fanno gli altri e poi provarci un po’ da soli.“Anche a fare l’infermiera non si impara soltanto frequentando l’università. Ci vuole pratica, osservazione dei colleghi. Si cresce soprattutto facendo e può volerci molto tempo. Ad esempio ci ho messo un bel po’ a capire come affrontare i prelievi”. In salotto è appesa la pergamena della laurea in infermieristica. La data è 28 aprile 2005, a quel tempo Anna non poteva immaginare come sarebbe stato il lavoro. “Duro, ma stimolante. L’ho detto, mi piace aiutare le persone. Tutto parte dal contatto con il malato, dal desiderio di soddisfare un bisogno primario come la ricerca della salute. Siamo utili in un momento di grande necessità. Poi mi piace il confronto con i colleghi e il lavoro di équipe, che è una cosa fondamentale quando la mia professione viene svolta in ospedale”.


In casa di un’infermiera non si discute tanto di virus più o meno letale, di curve epidemiche e rimedi farmacologici. Le sfide televisive tra epidemiologi (veri o presunti), virologi, infettivologi e anestesisti, le polemiche, le uscite bizzarre e i richiami a rispettare il metodo scientifico sono come un rumore di fondo, distante, di cui spesso si fa a meno. “Beh, qualche volta i programmi tv nei quali si parla della pandemia li guardo. Non tantissimo perché alla lunga mi mettono addosso l’ansia. E io quando ero a casa pensavo soprattutto a rientrare al lavoro nel modo più sereno possibile”.
Anna ha ripreso a lavorare dopo la maternità alla fine della prima ondata. “Quando è arrivata la seconda sono rimasta un po’ delusa perché non ci hanno fatto molta formazione. Ci hanno comunicato da una settimana all’altra che avrebbe aperto il reparto Covid e ci hanno spiegato come vestirci e svestirci. Tutto il resto lo abbiamo imparato sul campo in questi mesi, dalle terapie a come si fanno le dimissioni dei malati”.
 

22.30 Buona notte

Domani, Anna fa la notte, entrerà alle 19.30. “È il turno in cui possono passare ore durante le quali non si è molto impegnati. Però poi arriva improvvisamente la scarica di adrenalina per un problema grave e resti sotto pressione fino alla mattina. Il giorno dopo di solito torno a casa verso le 9 e mi metto a dormire fino al primo pomeriggio”. 



Visto che domattina è libera ne approfitterà per comprare i regali. Sara ha chiesto a Babbo Natale una Barbie snodabile e il Monopoli. “Al piccolo prendo un orsacchiotto che si muove tutto. Mio marito? Non mi dice cosa desidera e vado sempre in crisi. Magari un capo di abbigliamento. Non mi butto sulla tecnologia perché non mi va mai bene in quel campo. Io invece ho chiesto il mio profumo preferito”.


concludo condividendo     un altro commento

10 ore fa
Pier Luigi Furlanetto

il nostro paese va avanti per il lavoro di queste persone che semplicemente fanno il loro lavoro. Semplicemente dice tutto, è una parola importante...Chi nega la realtà non solo della scienza, ma questa realtà così semplicemente narrata andrebbe condannato a passare una giornata vicino a un infermiere, non vicino a un virologo. Chi rifiuterà di vaccinarsi dovrebbe essere condannato a pagare per le cure che questi infermieri gli daranno.

«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

  corriere  della sera   tramite  msn.it  \  bing    Rahma Nur insegna italiano, storia e inglese alla scuola elementare Fabrizio De André d...