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23.8.25

Sassari Susanna Sechi racconta la vita nella sua bottega in viale Italia «Così resisto ai colossi da più di sessant’anni»., L’impresa Fabio, il barista sassarese coi muscoli di ferro: al traguardo dell’Ironman con i Quattro mori

la  nuova  sardegna  23\8\2025


«Così resisto ai colossi da più di sessant’anni»Susanna Sechi racconta la vita nella sua bottega in viale Italia
                           di Carolina Bastiani

Susanna Sechi racconta la vita nella sua bottega in viale Italia
22 agosto 2025 20:294 MINUTI DI LETTURA




Sassari A muoversi tra bancone, ceste e scaffali pieni, al civico 50 di viale Italia, c’è Susanna Sechi, titolare del piccolo “Frutta e verdura”, che sulla strada si affaccia con un’esposizione di pere. «Basta così signora Mari’? Se lascia il prezzemolo in questa bustina in frigo si conserva meglio». La posizione centralissima del negozio sicuramente ha aiutato, ma il fatto che si trovi lì dal 1960 non può essere un caso. Dietro c'è cura, capacità di adattarsi, cortesia e tanto sacrificio. Dall'aspetto un po’ vintage, l’immagine che lascia non è quella di un mondo lontano e sbiadito, ma di un luogo vitale, che è riuscito a competere con i grandi supermercati, senza farsi travolgere dai cambiamenti dei consumi, che hanno allontanato e pare stiano riavvicinando le persone ai negozi di quartiere. Negozi piccoli ma forniti di prodotti freschi di qualità, dove si compra meno e più spesso, anche per ridurre gli sprechi. Ma dove si scambiano anche confidenze e opinioni. Proprio come da Susanna Sechi. La sua presenza è confortante non solo per gli anziani, ma anche per gli universitari, che lo frequentano numerosi. Così come per chi, di passaggio tra i tanti studi medici della zona, si ricorda che a casa non ha niente per il pranzo. E infatti, il via vai è continuo, persino ora che Sassari è quasi deserta.
«Io ho sessant'anni e lavoro qui da 27 – racconta la signora Sechi – ma in questo negozio ci sono cresciuta. Mia madre da piccola mi teneva dentro a un cesto». Il “Frutta e verdura” è stato aperto oltre sessantacinque anni fa dal padre originario di Nulvi e dalla madre di Gadoni, quando viale Italia era ancora una periferia. E di quel periodo conserva quasi tutto, tranne l’ingresso che allora era in legno. «Questi palazzi ci sono cresciuti intorno – continua – qui era aperta campagna». Da allora di cemento ne è stato colato e insieme alla città è cambiata anche l’attività. «Quando lo gestivano i miei – dice – non c’era così tanta merce. Loro tenevano frutta, verdura, acqua e un po’ di scatolame e vino, mentre io ho aggiunto diverse cose, anche ascoltando i clienti. E poi ho messo gli scaffali». E così tra susine, pere, fichi e uva di produzione propria – in inverno ci sono limoni e arance – si trovano biscotti, sughi pronti, bibite, frutta secca e legumi. Di quelli sfusi, da comprare all’etto. «Da “pronto soccorso” qual era, dove si acquistava solo quello che mancava è diventato un posto dove si riesce a fare la spesa».
E forse il segreto della sua longevità sta nella capacità di rinnovarsi. «Ma dipende anche da come ti comporti», puntualizza Susanna Sechi. Nel suo negozietto, infatti, sono ancora vive quelle relazioni sociali che forse ormai resistono solo nei piccoli paesini. Così, mentre riempie le buste con mezzo chilo di taccole, sei pesche e un po’ di pane fresco, scambia quattro chiacchiere con i clienti. Qualcuno si lamenta della politica, altri le raccontano i fatti propri. E viceversa. È un vero e proprio punto di riferimento per il quartiere. «Mi conoscono tutti – dice – in tanti mi hanno visto crescere. Non ho neanche bisogno di mettere il servizio di fermoposta, la gente si fida e fa arrivare i pacchi qui, come a casa».
Eppure, Susanna Sechi non se la sentirebbe di lasciare l’attività ai suoi figli. Ma non perché si fatichi a tirare avanti. «Ricordo che i miei genitori ebbero qualche difficoltà solo quando, tanti anni fa, in via Amendola aprì uno dei primi supermercati, che causò dei fastidi anche ad altri negozi qui intorno. Ce n’erano tanti prima». Si riferisce all’apertura di Multineddu, proprio dove ora c’è un altro supermercato della grande distribuzione. «Al di là di normali alti e bassi, però, noi abbiamo sempre lavorato». Semplicemente, dunque, Susanna non vorrebbe che i suoi figli facciano i suoi stessi sacrifici. «Non è vita, non ho conosciuto riposo, nemmeno con la testa – dice – Tutte le mattine mi alzo prestissimo per andare al mercato a Predda Niedda a comprare i prodotti e poi rimango qui fino a sera, sei giorni su sette, quasi tutto l'anno. Per loro vorrei qualcosa di diverso». E a chi le chiede quando farà le ferie, ricordandole che è agosto, risponde: «Tra sette anni, quando andrò in pensione».


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idem 

L’impresa
Fabio, il barista sassarese coi muscoli di ferro: al traguardo dell’Ironman con i Quattro mori

                                     di Luca Fiori
Il 43enne si è fatto valere in Svezia tra 2000 super atleti di tutto il mondo


Sassari 
Quando ha alzato la bandiera dei “Quattro Mori” sul traguardo di Kalmar in Svezia, il vento che lo aveva tormentato per ore finalmente si è inchinato e lo ha lasciato in pace. Lì, in mezzo ad atleti provenienti da tutto il mondo, c’era un solo sardo. E quel sardo era lui: Fabio Casu, 43 anni, barista di Sassari, marito, padre e Ironman. Non il favorito, non il professionista. Ma l’uomo che ha trasformato ogni pausa pranzo, ogni mattina rubata al sonno, in un mattone di questa impresa sportiva, che pochissimi sassaresi prima di lui possono dire con orgoglio di aver concluso.




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«È stato il terzo Ironman della mia vita, forse il più duro, ma anche il più bello», ha scritto Fabio sui social. «È stata un’impresa sfidarmi di nuovo. La mente si ricordava tutto, ma il corpo no - racconta al tavolino del suo bar, il Caffè Centoundici in viale Umberto – e quindi ho dovuto fare tutto da zero. Otto duri
mesi di preparazione per arrivare su quel tappeto rosso a 43 anni. Ho usato tutto per riprenderlo: la forza, le gambe, la testa e poi il cuore. Tutto ciò merito di mia moglie Silvia che mi è stata vicinissima in questa dura preparazione. La mia forza. Ringrazio tutti gli amici che mi sono stati vicino in questo fantastico viaggio indimenticabile».



L’Ironman non è una gara qualunque: 3,8 chilometri di nuoto, 180 di bici, 42 di corsa, la distanza della maratona. Un viaggio estremo che mette alla prova corpo e mente. Fabio lo ha affrontato per la terza volta, dopo Cervia (2017) e Barcellona (2019), scegliendo questa volta Kalmar, in Svezia. E il Nord non gli ha risparmiato nulla: nella frazione ciclistica il vento ha trasformato ogni chilometro in una battaglia.



«Il mio obiettivo era il personal best», racconta. «Ma con quelle condizioni era impossibile. Ho chiuso in undici ore e trentasette minuti». Non il tempo sognato, ma un traguardo che pesa come il ferro. Perché un Ironman non si misura solo con il cronometro: si misura con la forza di non mollare mai.Fabio quella forza l’ha costruita con costanza, tra il lavoro al bar gli allenamenti. Dodici ore dietro il bancone ogni giorno, e poi dieci, dodici ore di allenamento a settimana. «Mi ritaglio due ore a pranzo, poi il sabato e la domenica mattina – spiega Fabio – non è facile, ma quando hai una passione vera il tempo lo trovi. Cosa mangio? Due mesi prima della gara, tolgo sale, alcol e dolci e aumento frutta, riso e proteine con pochi grassi. Una birretta? Sì una ogni tanto me la concedo».

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Sposato da tredici anni, padre di un adolescente che nuota da quando aveva tre anni, Fabio porta con sè la famiglia in ogni passo: «Durante la corsa pensi a tutto. Alle persone che ami, a chi ti aspetta al traguardo, ai sacrifici fatti per arrivare lì. Sono queste cose che ti fanno resistere».La bici è la sua arma preferita: «Sono nato in campagna, a La Landrigga. Da bambino passavo le giornate in sella». Ma la più dura è sempre la corsa, quella che arriva quando sei già stremato. A Kalmar ha affrontato il vento, la fatica e la solitudine. E quando il traguardo è apparso, ha tirato fuori la bandiera dei Quattro Mori: «Ero consapevole di essere l’unico sardo in gara. Quella bandiera è identità, orgoglio e sacrificio».Ora Fabio pensa alle prossime sfide: a fine settembre l’“Escape from Asinara”, a ottobre il Challenge Forte Village, che affronterà per la settima volta. Il barista fa tutto con le sue forze, anche economiche. Non ha sponsor, ma ha qualcosa di più: la determinazione di chi ogni giorno serve un caffè con lo stesso rispetto con cui affronta l’oceano e la strada. E se vi chiederete che sapore ha un espresso preparato da un Ironman, passate da lui al bar in viale Umberto 111, per vedere da vicino anche i suoi muscoli di ferro.




15.8.22

Cristina nuti wonder woman all'italiana

CRISTINA NUTI

Il dolore alla gamba. La fatica a camminare. La diagnosi di sclerosi multipla. «Ci sono giorni migliori e altri in cui mi sento un carretto». Be’, questo carretto ha fatto un Ironman. Grazie (anche) ad Alex Zanardi

  settimanale  Oggi   Fiamma  Tinelli 


La prima volta che Cristina Nuti si è chiesta dove fosse finita la sua gamba sinistra era l’estate del 2008. Aveva 36 anni, era in vacanza sul Mar Rosso, mentre faceva il bagno si è accorta che dall’anca alla caviglia non sentiva nulla. Solo un formicolio. E, sotto, il dolore. «Mi sono preoccupata, ma pensavo

fosse un’ernia, un nervo schiacciato». Una volta tornata in Italia, la diagnosi le è piombata addosso mentre era seduta davanti a un neurochirurgo: sclerosi multipla recidivante-remittente. Traduzione: oggi cammini, domani non si sa. Nessuno può prevederlo. Il 3 luglio Cristina - milanese, marketing manager - ha completato il suo primo Ironman, l’Everest del Triathlon: 3,8 km a nuoto, 180 in bicicletta, una maratona di 42 km. «È stata dura, in confronto agli altri sono un carretto, ma ce l’ho fatta».La soddisfazione è tanta, ma non è questo il punto. Il punto è che scoprirsi malata, dice, ha cambiato il suo modo di guardare alla vita.I primi tempi sono stati duri. I medici le dicevano di non affaticarsi. «Mi spiegarono che la sclerosi multipla è una malattia autoimmune, subdola, che danneggia il sistema nervoso centrale e può determinare una disabilità progressiva. Le parole mi rimbombavano nella testa». “Disabilità”. “Progressiva”. Dopo una settimana in ospedale, Cristina è salita su un tapis roulant per mettere alla prova i muscoli. Inciampava ogni due passi, «un incubo». Per anni, in ufficio della sua malattia non ha detto niente. «Non mi piacciono gli sguardi di compassione, i “poverina”. Volevo dimostrare a me stessa di essere quella di sempre». E poi, quella di Cristina è una disabilità invisibile. Come lo spieghi che ci sono momenti in cui la testa va a mille ma il corpo non ce la fa? È come vivere nella Terra di mezzo: alle spalle c’è quella che eri, che si metteva i tacchi. Davanti allo specchio, una che soffre di dolore cronico e ogni tanto fatica a stare in equilibrio.

«Ce la caveremo», la incoraggiava sua mamma. E comunque, Cristina ha la testa dura. Ha due lauree (di cui una presa lavorando), ha cambiato vita, casa, lavoro, ha già ricominciato daccapo tante volte. Così, un giorno si è messa a studiare. Ha letto tutto quello che c’è sulla sua malattia, la genesi, la prognosi, i possibili sintomi più neri (elenco non esaustivo: tremori, disturbi alla vista, dolore parossistico, problemi intestinali, vescicali, alterazioni cognitive, spasticità). Sto male, ma c’è chi soffre più di me, si è detta. E ha deciso di mettersi alla prova.

All’inizio erano corsette da dilettanti, con un gruppo di amiche. Un chilometro, due, con le gambe che ogni tanto vanno, ogni tanto no. Poi ha cominciato con le gare. Ma la svolta è arrivata con Obiettivo 3, l’associazione fondata da Alex Zanardi per l’avviamento allo sport di atleti con disabilità. «Mi avevano invitata a un loro evento, c’era anche Alex. Mi ha abbracciata emi ha detto: “Grazie di essere con noi”. Mi sono sentita a casa». Sono stati i ragazzi di Zanardi a convincerla che non esiste una disabilità più

importante di un’altra. Che non c’è bisogno di dimostrare niente a nessuno, che ognuno ha la sua fatica, che non esiste una classifica della sfortuna. Ogni persona con disabilità fa quello che può, come può, «se ci stai provando hai già vinto». Da lì in poi, Cristina ci ha messo l’anima. In due anni ha corso nove maratone. La più bella è stata quella di New York, con i grattacieli che le sfilavano accanto. Quella di Roma non finiva mai, ma lei si è detta: piuttosto cammino, ma non mollo. Per farcela - anche quando il dolore picchia - ha elaborato due strategie, tutte di testa. La prima: «Mai pensare al traguardo, alla gara intera. Il prossimo ristoro è a 5 chilometri? L’obiettivo è quello, poi vediamo». La seconda: «Ogni tappa è dedicata a un amico. Penso a lui, a lei, rivedo i momenti passati insieme, ne immagino altri». Funziona. Quando qualcuno le ha proposto il Triathlon (nuoto più bici più corsa), Cristina s’è messa a ridere: fino a tre anni fa non sapeva nuotare. Ma mica si è fermata. È andata in piscina e ha detto all’istruttore: «Guardi che io sono una che se mette la testa sott’acqua vede i mostri marini». E si è tuffata. Per l’Ironman di Klagenfurt si è preparata per mesi. Un’ora e mezza di allenamento al giorno, di più nel weekend. La traversata del lago è durata due ore, il giro in bici sette, la maratona cinque. Dei primati, a Cristina non frega nulla. «Io sono fortunata, ci sono disabili che faticano ad arrivare dal divano al bagno: è il loro Ironman, anche loro vincono». La paura resta. Che il domani sia diverso, immobile. Quella che è cambiata è la testa. «Il mio prossimo traguardo è lavorare per l’inclusione. Far capire a tutti che la diversità non ha confini, solo nuovi blocchi di partenza». È la lezione di Alex. «E io lo so, lo sento, che lui tifa per noi».

Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

   Dopo  la  morte  nei  giorno scorsi  all'età  di  80 anni   di  Maurizio Fercioni ( foto sotto  a  sinistra )  considerato il primo t...