CRISTINA NUTI
Il dolore alla gamba. La fatica a camminare. La diagnosi di sclerosi multipla. «Ci sono giorni migliori e altri in cui mi sento un carretto». Be’, questo carretto ha fatto un Ironman. Grazie (anche) ad Alex Zanardi
fosse un’ernia, un nervo schiacciato». Una volta tornata in Italia, la diagnosi le è piombata addosso mentre era seduta davanti a un neurochirurgo: sclerosi multipla recidivante-remittente. Traduzione: oggi cammini, domani non si sa. Nessuno può prevederlo. Il 3 luglio Cristina - milanese, marketing manager - ha completato il suo primo Ironman, l’Everest del Triathlon: 3,8 km a nuoto, 180 in bicicletta, una maratona di 42 km. «È stata dura, in confronto agli altri sono un carretto, ma ce l’ho fatta».La soddisfazione è tanta, ma non è questo il punto. Il punto è che scoprirsi malata, dice, ha cambiato il suo modo di guardare alla vita.I primi tempi sono stati duri. I medici le dicevano di non affaticarsi. «Mi spiegarono che la sclerosi multipla è una malattia autoimmune, subdola, che danneggia il sistema nervoso centrale e può determinare una disabilità progressiva. Le parole mi rimbombavano nella testa». “Disabilità”. “Progressiva”. Dopo una settimana in ospedale, Cristina è salita su un tapis roulant per mettere alla prova i muscoli. Inciampava ogni due passi, «un incubo». Per anni, in ufficio della sua malattia non ha detto niente. «Non mi piacciono gli sguardi di compassione, i “poverina”. Volevo dimostrare a me stessa di essere quella di sempre». E poi, quella di Cristina è una disabilità invisibile. Come lo spieghi che ci sono momenti in cui la testa va a mille ma il corpo non ce la fa? È come vivere nella Terra di mezzo: alle spalle c’è quella che eri, che si metteva i tacchi. Davanti allo specchio, una che soffre di dolore cronico e ogni tanto fatica a stare in equilibrio.importante di un’altra. Che non c’è bisogno di dimostrare niente a nessuno, che ognuno ha la sua fatica, che non esiste una classifica della sfortuna. Ogni persona con disabilità fa quello che può, come può, «se ci stai provando hai già vinto». Da lì in poi, Cristina ci ha messo l’anima. In due anni ha corso nove maratone. La più bella è stata quella di New York, con i grattacieli che le sfilavano accanto. Quella di Roma non finiva mai, ma lei si è detta: piuttosto cammino, ma non mollo. Per farcela - anche quando il dolore picchia - ha elaborato due strategie, tutte di testa. La prima: «Mai pensare al traguardo, alla gara intera. Il prossimo ristoro è a 5 chilometri? L’obiettivo è quello, poi vediamo». La seconda: «Ogni tappa è dedicata a un amico. Penso a lui, a lei, rivedo i momenti passati insieme, ne immagino altri». Funziona. Quando qualcuno le ha proposto il Triathlon (nuoto più bici più corsa), Cristina s’è messa a ridere: fino a tre anni fa non sapeva nuotare. Ma mica si è fermata. È andata in piscina e ha detto all’istruttore: «Guardi che io sono una che se mette la testa sott’acqua vede i mostri marini». E si è tuffata. Per l’Ironman di Klagenfurt si è preparata per mesi. Un’ora e mezza di allenamento al giorno, di più nel weekend. La traversata del lago è durata due ore, il giro in bici sette, la maratona cinque. Dei primati, a Cristina non frega nulla. «Io sono fortunata, ci sono disabili che faticano ad arrivare dal divano al bagno: è il loro Ironman, anche loro vincono». La paura resta. Che il domani sia diverso, immobile. Quella che è cambiata è la testa. «Il mio prossimo traguardo è lavorare per l’inclusione. Far capire a tutti che la diversità non ha confini, solo nuovi blocchi di partenza». È la lezione di Alex. «E io lo so, lo sento, che lui tifa per noi».
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