15.8.22

Patrizia Guerra: " Anch'io ero una bulla ma ora da mamma combatto i prepotenti




 DA repubblica  

Patrizia Guerra: " Anch'io ero una bulla ma ora da mamma combatto i prepotenti"
dalla nostra inviata Alessandra Ziniti 


Ancona
Il sacco rosso appeso nella palestra stranamente deserta. «Che succede, non ci alleniamo oggi?». Il suo maestro che la fissa dritto negli occhi e sibila: «O affronti quello che hai dentro adesso e lo
sconfiggiamo, oppure ti giri e te ne vai». Quel giorno, prendendo a pugni il sacco con tutta la rabbia che aveva in corpo, cambiò per sempre la vita di Patrizia Guerra. Perché questa donna coraggiosa e decisa che ad Ancona ha deciso di sfidare a viso aperto le baby gang che terrorizzano la città e che per ben tre volte hanno picchiato suo figlio, prima di essere una “mamma-coraggio” come tutti la chiamano, è stata prima bullizzata e poi, a sua volta, bulla. E oggi Patrizia, a 43 anni, è diventata simbolo della difesa del diritto dei ragazzi a crescere liberi senza subire violenze.



E chi l’avrebbe detto che anche lei ha un passato da bulla?

«Prima bullizzata e poi bulla. Ed è certamente questa mia storia che mi ha consentito di non sottovalutare mai il dramma che ancora sta vivendo mio figlio e tutti i ragazzi come lui. Tanti, troppi. E che spesso restano in silenzio, senza denunciare, senza ribellarsi, per paura o anche solo perché nessuno li ascolta».

È questo che è successo a lei?

«Sì, nel paese dove vivevo da bambina, Monte Sant’Angelo in Puglia, mi avevano preso di mira per la mia timidezza. Ero alle scuole medie: mi portavano via la merenda, mi rinchiudevano in bagno, mi rubavano le matite, mi prendevano in giro, mi davano schiaffi. Quanto basta, a quell’età, a farti crollare l’autostima, a farti sentire debole, inferiore. I miei genitori non erano molto presenti a casa, mia madre faceva la pilota di auto, mio padre lavorava tutto il giorno. E non c’era nessuno che poteva ascoltarmi».

Da vittima a carnefice il passo è lungo. Come è accaduto?

«Un giorno stavo seduta su una panchina a piangere quando mi avvicinò un signore. Mi propose di andare nella sua palestra di karate. Lui voleva propormi un’attività che mi impegnasse, io andai perché pensavo che sarei diventata più forte e avrei potuto vendicarmi. E così avvenne: picchiavo tutti, femmine e maschi. Mi chiamavano persino per le spedizioni punitive. Fino a quando il maestro lo scoprì…»

Il famoso giorno del sacco rosso.

«Sì, aveva saputo che avevo picchiato delle ragazze e mi affrontò in quel modo facendomi trovare la palestra deserta e mettendomi davanti ad una scelta. Quel giorno ho picchiato il sacco per un’ora, tirando fuori tutta la rabbia che avevo in corpo. È stata l’ora più lunga e significativa della mia vita. Quel mio maestro, che oggi ha 80 anni , di ragazzi come me ne ha salvati tanti. Gli devo tutto e questo mi ha fatto capire quanto può valere nella vita di tutti noi l’incontro con la persona giusta. Certo, trent’anni fa era un bullismo diverso, si faceva pace, io con quelli a cui ho dato botte sono rimasta amica. Oggi questi qui non sanno neanche cosa sia la pace, sono criminali, ti lasciano steso per terra e non vogliono cambiare. Ma non possiamo rimanere a guardare».

Siamo sedute al tavolino di un bar di piazza Roma, nel cuore di Ancona. “Questi qui” di cui parla Patrizia ci passano davanti a frotte: sono italiani e stranieri, si danno il cinque, si radunano sopra le scale che conducono ai bagni pubblici, proprio lì dove è scattato il primo dei tre agguati al figlio di Patrizia, nel 2019, l’ultimo a dicembre scorso. Tutti adesso qui sanno chi è questa donna volitiva, cintura nera, 2° dan, che ha anche deciso di portare ad Ancona la divisa dei City Angels, l’associazione di volontari nata a Milano.

Patrizia, come sta suo figlio?

«Si sta riprendendo, ma non posso dire che stia bene. Paura, attacchi di panico. A dicembre, dopo l’ultima aggressione, ho dovuto licenziarmi dalla scuola dove ero stata appena assunta. Dovevo stargli vicina, senza di me non riusciva a muovere un passo. Aveva terrore anche della mia battaglia contro l’omertà dei genitori che non denunciano e l’indifferenza degli adulti che si girano dall’altra parte. Intollerabile».

È per questo che ha deciso di scendere in campo a difesa di tutti i ragazzi vittime di bullismo?

« Si, non potevo permettere che mi portassero via mio figlio. E instillandogli questa paura me l’avrebbero portato via. Ero davanti allo stesso bivio di tanti genitori: o minimizzi e giustifichi il problema o lo affronti e io ho scelto la seconda strada».

Ma perché hanno preso di mira suo figlio?

«Non c’è nessuna ragione particolare. Per questi criminali in erba è quasi un rito di iniziazione. Devono prendere di mira il primo che passa e massacrarlo. Quando è successo la prima volta mio figlio aveva 14 anni e stava passeggiando con degli amici, quando lo hanno accerchiato in dieci aggredendolo. Io mi trovavo nei pressi per caso quando ho visto la rissa e mi sono avvicinata. Poi ho capito che si trattava di lui, mi sono gettata nella mischia, ho bloccato il braccio di quello che lo stava picchiando, li ho messi in fuga. C’erano decine di persone che passavano, nessuno è intervenuto».

Avete denunciato subito?

«Sì, anche se lui non voleva perché aveva paura. E invece li abbiamo denunciati, identificati, li hanno presi tutti, sempre, processati, condannati. Nel frattempo però hanno minacciato anche me, ci salivano in casa, mi sono ritrovata anche con un coltello puntato alla gola. Ma non mi sono mai fermata e alla fine lui mi ha detto “grazie”. Nonostante la paura vado avanti perché la battaglia non è finita, basta guardarsi intorno».

La sua è anche una battaglia per fare rete, per convincere gli altri genitori a scendere in campo. Ci sta riuscendo?

«Pian pianino, ma sa che anche le mamme dei bulli mi vengano a cercare? È successo con la mamma di un giovane tunisino che ha aggredito mio figlio. Spesso anche questi genitori hanno bisogno di aiuto. E a quelli che restano a guardare dico: “Guardate che potrebbe capitare anche a vostro figlio”. E insomma adesso anche le istituzioni cominciano a darci ascolto. E anche il Papa a cui avevo scritto ci ha risposto con una lettera di incoraggiamento, invitandoci tutti ad andare avanti e a non avere paura. Per mio figlio è stata una grande iniezione di fiducia».

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