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20.2.24

perchè cavalco la tigre e parlo di storia e di argomenti divisivi o anticaglie come dicono alcuni . 40 della strage di natale 23\12\1984-23\12\2024 strage rapido 904

 

 fatto 
Strage del Rapido 904 o strage di Natale è il nome attribuito a un attentato dinamitardo avvenuto il 23 dicembre 1984 nella Grande Galleria dell'Appennino, subito dopo la stazione di Vernio, ai danni del treno rapido n. 904, proveniente da Napoli e diretto a Milano[. . [...]  da  Strage del Rapido 904 - Wikipedia

 dalla  newsletters   di  Altre/Storie di https://mariocalabresi.com/


Quarant’anni fa l’attentato al Rapido 904 spezzava vite e cambiava destini. Anche quello della famiglia Taglialatela, dimezzata dall’esplosione. Nella settimana in cui la Procura di Firenze è tornata a indagare sui responsabili della bomba, Gianluca Taglialatela racconta la sua storia di sopravvissuto e il suo bisogno di verità



Il 1984 era stato un anno felice per la famiglia Taglialatela, vivevano a Ischia e non avevano pensieri o problemi. Papà Gioacchino la mattina lavorava in Comune e il pomeriggio faceva il geometra; mamma Rosaria aiutava suo padre nel ristorante di famiglia; Gianluca, che era in terza media, appena poteva correva a giocare a tennis e Federica, che aveva solo 12 anni, era quella che le maestre chiamavano “una bambina modello”, educata, sorridente, bravissima a scuola. Per Natale avevano deciso di lasciare l’Isola per andare a sciare a Livigno, ma pur avendo passato giornate a telefonare a tutti gli alberghi, non avevano trovato posto. Così avevano deciso di andare a passare le feste dai parenti che abitavano a Milano, gli zii che erano scappati al Nord dopo il terrore del terremoto del 1980. A Milano avrebbero festeggiato anche i 14 anni di Gianluca che li compiva il giorno della Vigilia. Il regalo però glielo avevano già dato a Ischia: una nuova racchetta da tennis. La teneva stretta quando alle 12:55 del 23 dicembre 1984 il Rapido 904 partì dal binario 11 della stazione di Napoli.


Alcune fotografie della famiglia Taglialatela


Appena saliti si erano sistemati nel primo scompartimento della carrozza di seconda classe, ma era tutto bagnato e puzzava, allora decisero di cambiare e si spostarono di due scompartimenti. Gianluca si era portato la radiolina e fino all’arrivo a Roma ascoltò la telecronaca di Juventus-Napoli. Aveva vinto 2-0 la Juve allenata da Trapattoni, il gol del raddoppio lo aveva segnato Michel Platini. Era il primo anno di Maradona al Napoli e nonostante le grandi speranze la squadra ancora non era decollata.
Il treno era pienissimo e si riempì ancora di più a Roma, c’era gente seduta sulle valigie e per terra, in corridoio. I Taglialatela si misero a giocare a carte.
«Quando il treno si è fermato alla stazione di Firenze – ha raccontato la signora Rosaria - io sono uscita dallo scompartimento per fumare una sigaretta e mio marito è sceso per comprare un pacco di biscotti ai ragazzi. Nel corridoio non c’era più nessuno, il treno si era svuotato, mi sono messa al finestrino a osservare la gente che scendeva, poi ho visto un signore che appoggiava due borsoni scuri nella reticella portabagagli del corridoio. Io ero di fronte al mio scompartimento, c’erano i miei figli e una ragazza che mangiava una mela. Guardavo quell’uomo robusto, aveva un cappotto cammello e un basco sulla testa, e non capivo perché mettesse le sue borse all’esterno dello scompartimento e non dentro. Poi è arrivato mio marito, siamo entrati dentro, abbiamo dato i biscotti ai ragazzi e il treno è ripartito verso Bologna. Ci siamo rimessi a giocare a carte e dopo dieci minuti, un quarto d’ora, mentre eravamo in galleria, è successo quello che è successo».


La carrozza del Rapido 904 squarciata dalla bomba ©Luciano Nadalini / Mappedimemoria.it


Quello che è successo è che alle 19:08, mentre il Rapido 904 percorreva la Grande galleria dell’Appennino, ci fu una terribile esplosione che uccise 16 persone e ne ferì 267. Un attentato voluto dalla mafia, nel momento in cui Tommaso Buscetta aveva cominciato a parlare con il giudice Giovanni Falcone.
«Si parlava, si rideva, e in una frazione di secondo tutto è cambiato. Sono stato investito dal calore, dai detriti, scaraventato lontano. Ricordo il buio.
Come nei film c’è stato un momento di silenzio totale, poi gemiti, urla, richieste di soccorso. Siamo stati tanto tempo là sotto, un paio d’ore, io ero bloccato e ustionato dall’esplosivo. Avevo perso il senso del tempo. Federica era di fronte a me, non la vedevo e non l’avrei mai più vista, ma sentivo i suoi capelli con la mano. Erano bruciati».
Gianluca Taglialatela oggi ha 53 anni, vive a Milano dove ha una pizzeria di fronte all’Arco della Pace. È rimasto solo lui di quella famiglia felice. Fino allo scorso anno c’era anche mamma Rosaria, ma è mancata ad aprile, a 82 anni.
Rosaria è stata testimone nel processo che condannò all’ergastolo Pippo Calò, il cassiere della mafia, e fino alla fine della sua vita ha chiesto di conoscere tutta la verità, convinta che molte cose non fossero chiare. Proprio questa settimana si è saputo che, quarant’anni dopo, la Procura di Firenze è tornata ad indagare sull’ipotesi – già emersa allora – che nella strage ci fossero complicità da parte di elementi dell’estrema destra neofascista ed esponenti dei servizi segreti. Gianluca ha letto della nuova inchiesta dai giornali e ancora una volta è tornato a sperare: «Abbiamo sempre pensato che fosse una strage nera e di mafia, la verità che abbiamo è parziale, è bene che qualcuno abbia ancora voglia di scavare».
Anche se la sua vita non potrà cambiare. «Ero un bambino cresciuto in un’isola felice e poi in un istante, il giorno prima di compiere quattordici anni, tutto finisce, tutto si tronca. Tante volte ho pensato al caso tragico che ci aveva messo su quel treno e in quella carrozza, le probabilità erano meno di quelle di vincere al Lotto. Poi penso che se non avessimo cambiato scompartimento io non sarei qui a ricordare: in quello bagnato da cui ce ne siamo andati non si è salvato nessuno».


L’esplosione della bomba sul Rapido 904 uccise 16 persone e ne ferì 267 ©Luciano Nadalini / Mappedimemoria.it


I mafiosi, che avevano azionato il comando della bomba quando era in galleria per massimizzare l’effetto dell’esplosione, puntavano ad una strage ancora più grande. In quel momento il Rapido 904 avrebbe dovuto incrociare il treno che arrivava da Parigi, ma non successe perché era in ritardo.
«ll primo ricordo della mia seconda vita è il risveglio sotto la lampada del tavolo operatorio dove mi stavano dando dei punti in faccia. Ricordo queste luci negli occhi. Poi tornai più volte nella sala operatoria perché le lamiere mi avevano tagliato l’avambraccio, ma un’equipe pazzesca del Rizzoli di Bologna riuscì a rimetterlo insieme. Papà e mamma vennero ricoverati all’Ospedale Maggiore e dimessi dopo un mese. Venivano a trovarmi dei parenti, ma nessuno mi diceva nulla, non sapevo che mia sorella non ci fosse più, non mi dissero dei suoi funerali. Piano piano cominciai a capire le cose, anche se non mi facevano vedere la televisione. Ho scoperto solo molto tempo dopo che Federica, che aveva 17 mesi meno di me, era morta. Aveva sbattuto lo sterno contro il tavolinetto su cui giocavamo a carte e quello l’aveva uccisa».
Gianluca ricorda ogni secondo, ogni faccia e ogni nome di quel ricovero durato ben sei mesi: «Ricordo ancora la caposala Erminia: io stavo bene all’ospedale perché mi coccolavano e mi facevano sentire al sicuro. Non volevo uscire più. Non volevo tornare nel mondo di fuori». Il mondo di fuori gli avrebbe fatto ancora più male, due anni dopo: per i postumi dell’esplosione, sarebbe morto anche suo padre. Della famiglia felice erano rimasti solo in due, ma si rimboccarono le maniche: Gianluca a 17 anni lasciò la scuola per lavorare come cameriere.


Il Parco Pineta degli Atleti, alle spalle della casa della famiglia Taglialatela a Ischia, dove Federica e Gianluca giocavano da bambini


«Ma non ho mai pensato di essere una vittima e nel mio dramma mi reputo anche fortunato, ho quattro figli, un bel lavoro e sono arrivato a 54 anni. È un altro il problema: mi porto dietro un terribile senso di colpa di essere sopravvissuto. Ancora oggi non riesco a parlare di mia sorella senza commuovermi, e una delle mie figlie porta il suo nome».
A estrarre Gianluca dalle lamiere del treno fu un giovane volontario arrivato da Bologna, di nome Stefano: «Pensa che ogni Natale, da trentanove anni, mi chiama per gli auguri. Gli sono infinitamente grato di avermi tirato fuori da quell’incubo».
La nuova esistenza di Gianluca trovò una forma quando lo zio gli chiese di prendere nuovamente il treno per Milano: «Erano passati esattamente dieci anni, avevo messo un po’ di soldi da parte facendo il cameriere e poi il barman di notte tra Ischia e Napoli, e lo zio mi convinse ad investire i miei risparmi nella “pizza del futuro”. Mi feci coraggio e ricominciai dalla città in cui non eravamo mai arrivati». Gianluca si accende quando parla della pizza sottile e digeribile che fa, da allora, nel suo locale che si chiama “Taglialà”. È soddisfatto della sua vita.
«Devo tantissimo a mia madre, una donna d’altri tempi. È riuscita ad avere una forza incredibile, aveva perso la figlia e il marito ma non l’ho mai vista piangere. Era piena di schegge di vetro dappertutto, che le sono uscite per anni dalla pelle, e rimase gravemente ferita all’occhio sinistro, ma è stata capace di vivere e mi ha lasciato libero di viaggiare e di andare nel mondo. Non voleva che rimanessimo chiusi in casa a piangere. A metà degli anni Novanta cominciò una relazione con un uomo di Roma e insieme aprirono una scuola di ballo. Lei, che amava ballare da sempre, si era messa a studiare e aveva preso un diploma per insegnare il liscio. Quando quella storia finì tornò a Ischia dove per anni ha gestito un piccolo albergo di dieci camere sul mare».
Parliamo a lungo, ma di Federica Gianluca non riesce a dire quasi nulla. Alla fine del nostro incontro mi suggerisce di chiamare la loro professoressa di matematica e scienze delle medie, si chiama Sandra Malatesta e vive ancora ad Ischia. «Lei, da allora, porta avanti il ricordo di Federica con tutti i bambini dell’Isola. Ha un amore infinito per mia sorella».


Federica Taglialatela © Fondazione Pol.i.s. / Noninvano.org


La professoressa Sandra, che ha insegnato per 43 anni, non si è fatta pregare, mi ha raccontato con infinita dolcezza di quella sua alunna, e poi mi ha mandato un piccolo scritto che riporto qui: «Federica frequentava la seconda media, sezione O, della scuola Scotti di Ischia. Io la conoscevo fin da quando aveva due anni perché ero andata ad abitare, da fresca sposa, nello stesso condominio. Federica e Gianluca venivano spesso a giocare a casa mia e poi me la ritrovai in classe in prima media. Un giorno di quel mese di dicembre 1984, nell'intervallo, Federica ci disse che sarebbe andata con la famiglia a Milano per le vacanze di Natale a trovare gli zii. Non lo disse con entusiasmo. Era scocciata, voleva restare a Ischia a giocare a tombola con le amichette del palazzo. I compagni la presero in giro dicendole che era fortunata. Il 22 dicembre, ultimo giorno di scuola prima delle vacanze, entrando in classe per le due ultime ore, notai la cattedra piena di rose e cioccolatini. Mi dissero che Federica il giorno prima aveva voluto organizzare una festa e regalare fiori e dolci a tutti i professori. Fui sorpresa e le sorrisi. Era una ragazzina bella e allegra. Sapeva fare le imitazioni e spesso la mettevamo in piedi su un banco e lei cominciava. L'ultima ora facemmo una festa mettendo i banchi contro le pareti e con il mangiadischi ascoltammo musica e ballammo, ascoltammo soprattutto Terra Promessa di Eros Ramazzotti, il suo idolo. Ci salutammo e lei mi disse che aveva cucito dei brillantini sulla gamba dei jeans così non sarebbe sembrata un maschietto, visto che aveva tagliato i capelli corti corti. Il 24 mattina andai con mia madre al mercato del pesce e vidi tanti capannelli di persone che parlavano tra di loro. Mamma chiese cosa fosse successo. Ci raccontarono che era scoppiata una bomba su un rapido partito dal binario 11 della stazione di Napoli e diretto a Milano e che a bordo c’era anche una famiglia di Ischia. Mi sentii svenire e dissi a mia madre: “È morta Federica”.
Cominciò uno dei giorni più brutti della mia vita. Federica non si trovava, di lei non si aveva nessuna notizia. Nel pomeriggio la Protezione Civile diede a me e alla professoressa di italiano Susi Pacera il numero dell'ospedale di Bologna. Chiamammo e ci passarono l’obitorio, ci dissero che era rimasto solo un ragazzino con i capelli corti da riconoscere. Io dissi soltanto di guardare se avesse dei brillantini sui jeans. Dopo poco dissero di sì.
La bara con Federica arrivò alla chiesa di Portosalvo il 28 dicembre e sopra c'era l'orsacchiotto che aveva sullo zaino di scuola. Io mi avvicinai e le promisi che finché sarei vissuta avrei parlato di lei, ogni anno e in ogni classe. Non ho mai smesso di farlo».


19.12.21

morire di lavoro © Daniela Tuscano

Non soltanto Filippo Falotico, Roberto Peretto e Marco Pozzetti (nella prima foto sotto a destra ), deceduti due giorni fa sotto il peso d'una gru . Ma anche Roberto Usai, 22 anni, Dante Berto, 53, Vittorio Tomassone, 59, Luigi Aprile, 51, Pierino Oronzo, 55 e Adriano Balloi, 60. Tutti in meno d'un mese, gli ultimi quattro uccisi in un giorno solo.
Uccisi, sì. In maniera atroce e primitiva: ustionati, precipitati da altezze improbabili, stritolati da escavatrici. Assassinati. Le chiamiamo vittime del lavoro, ma il lavoro non miete vittime. Si è vittime per i peccati altrui, peccati che gridano al cielo. Omicidio volontario, oppressione dei poveri, frode degli operai: ci sono quasi tutti, contemplati dal Catechismo di Pio X. Noi ci siamo soffermati esclusivamente sul secondo, il "peccato impuro contro natura", tralasciando gli altri. Questi altri.
IL lavoro dà vita e dignità. L'ha santificato il falegname Giuseppe, vi ha preso parte il piccolo Gesù. Ma se "rende liberi" dalla vita, se schiavizza e abbrutisce, non è lavoro. Non possiamo tacere di fronte a questi morti. A questi omicidi del profitto. Li abbiamo già troppo trascurati.
La Diaconia "S. Maria Egiziaca" rende omaggio a questi morti e alle loro famiglie. Ignoriamo se fossero credenti o no, ma sicuramente, per questi operai, Natale non sarebbe stata una "festa stressante" come ipotizzato da certe eurocrati di Bruxelles. L'aspettavano per avere pace. Natale è il giorno della famiglia. L'aspettavano per restituirsi a sé stessi.
Così non avverrà. Natale arriva in mezzo alle stragi. Arriva comunque, ma il cielo continua a gridare, e ne saremo tutti responsabili. Sorridenti e tranquilli come gli operai newyorchesi di 90 anni fa. Che in realtà erano per la maggior parte italiani e irlandesi. E chi se non loro avrebbe rischiato la vita con tanta socratica serenità?
Non so se Marco, Filippo e Roberto provassero gli stessi sentimenti, la convinzione di stare lì, dove li avevano messi, perché non c'era alternativa o non conveniva più cercarla. E poi poteva darsi che ce la facessero. Ancora pochi giorni e arriva Natale. Finalmente a casa. Questo solo conta, per questo tutto si sopporta, la perdita dei diritti, la mancanza di sicurezza, la solidarietà dileguata. L'Italia è una repubblica affondata sul lavoro, anzi schiacciata, perché tu barcollavi in alto, funambolo tuo malgrado, e la morte si è inerpicata più su di te, e ti è piombata addosso da una gru spezzata. Dinosauro d'acciaio, Titanic del post-capitalismo. La classe operaia va al massacro perché divenuta reperto di cronaca, tradita da una sinistra svenduta al radicalismo pop. E non ha più voce. Non l'ha avuta nemmeno per gridare. Marco, Filippo e Roberto, facce normali quindi antiche, se ne sono andati come #luanadorazio, come #paolaclemente che nell'ultima foto da viva aveva sbozzato perfino un sorriso. Ma sono allegrie di naufragi. In questa preistoria tecnologica o la va o la spacca, e tanti saluti.
© Daniela Tuscano

26.11.19

La maledizione di Piazza Fontana. L'indagine interrotta. I testimoni dimenticati. La guerra tra i magistrati di Guido Salvini,Andrea Sceresini mio inervista a Anderea Scerensini

di cosa stiamo parlando

Piazza Fontana, 50 anni dopo   Il 12 dicembre 1969 la madre di tutte le stragi

da https://milano.corriere.it/foto-gallery/cronaca/








12 Dicembre 1969, ore 16:37, una bomba esplode nella Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano uccidendo 16 persone e ferendone altre 88. È l’attentato che segna l’inizio del terrorismo politico in Italia. Le indagini si orientano inizialmente verso la pista anarchica e portano all’arresto e all’incriminazione di Pietro Valpreda, ma nel corso dell’inchiesta emerge la matrice nera. Al termine di un iter processuale durato circa 35 anni e sette processi in varie città d’Italia, tutti gli accusati dell’eccidio saranno sempre assolti in sede giudiziaria, alcuni verranno condannati per altre stragi, altri invece godranno della prescrizione evitando la pena. Nel 2005 la Corte di Cassazione concluderà sostenendo che la strage di piazza Fontana fu realizzata da «un gruppo eversivo costituito a Padova, nell’alveo di Ordine Nuovo» e «capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura», non più processabili in quanto «irrevocabilmente assolti dalla Corte d’assise d’appello di Bari» per questo stesso reato. Al termine il processo del 3 maggio 2005 ai parenti delle vittime verranno anche addebitate le spese processuali.


Vista  la mia passione  , per la storia (   o meglio  la  l'altra storia  )   del nostro  paese    degli anni  60\90  in particolare  , nata  dopo la lettura  ( mi pare lo trovai  come inserto   per  i  25  anni   dalla strage   su   quello che  fu   il settimanale  avvenimenti  ) del libretto strage di stato , e  che  mi  ha  portato  al   leggere  (e divorare    visto il  periodo   di   convalescenza  i libri di    Bendetta  Tobagi e  Enrico Deaglio  )   ad  intervistare   ed ordinarmi   dopo  d'essa   in libreria    :  
La maledizione di Piazza Fontana. L'indagine interrotta. I testimoni dimenticati. La guerra tra i magistrati di Guido Salvini,Andrea Sceresini
La maledizione di Piazza Fontana. L'indagine interrotta. I testimoni dimenticati. La guerra tra i magistrati - Guido Salvini,Andrea Sceresini - copertina

Ad   incuriosirmi   oltre  alle  varie anticipazioni    è    quanto   scritto    sulla  4  di copertina 


Chi era il giovanissimo neofascista che quel pomeriggio d’inverno sarebbe entrato in azione alla
Banca nazionale dell’agricoltura? Cosa aveva da raccontare la “fonte Turco” del Sid, insabbiata in tutta fretta per ordine dei vertici dei servizi segreti? Cosa lega il suicidio di un ex legionario nel Sud della Francia con la morte in Angola di un ricco imprenditore padovano? Ma soprattutto: perché i magistrati non sono stati in grado di compiere fino in fondo il loro dovere ?

Le   cui  risposte  che    <<  sono ovviamente nel libro  >>



Lo so che   prima  d'intervistare     gli autori   di un libro  , sopratutto  quando  è un libro  importante  ,  dovrei leggerlo  prima  . Ma : 1)  in tempi in cui  ci sono pochi €  .,  2)   in cui i trasporti  fra  le  isole (  in questo caso la mia  sardegna  )    e  il resto   della penisola  \  continente   , ed  nella mia addirittura  la difficoltà   nel spostarsi  da  zona  a  zona  con i mezzi pubblici  ., 3 ) la  scarsa presenza  alle presentazioni  nell'isola   (  salvo   festival letterari   importanti  , vedi  quello di Gavoi  )   degli autori nazionali   ,  fanno  si  che   l'unico  modo  per    conoscere  e   poi decidere  se     leggerlo   sia  appunto (  oltre    a  leggere interviste   sui  media    agli autori  )    sia      fare  domande   agli   autori     durante le presentazioni  o  come  ho fatto altre  volte     qui  sul  blog   l'intervistare    agli autori  stessi  prima  (  o  se  hai tempo     e  letto  già  qualcosa      recensirlo   o   fare   domande in contemporanea  ) della lettura     .  
Ora  non potendo   intervistare il magistrato Guido Salvini    sono riuscito ad  intervistare  il coautore  il giornalista
Andrea Sceresini è nato a Sondrio nel 1983. Giornalista freelance, è autore di molte inchieste e reportage di guerra per «La Stampa», «Il Foglio», «Il Fatto Quotidiano» e «l’Espresso».
Tra i suoi libri: Io sono l'impostore. Storia dell'uomo che ci ha fregati tutti (Il Saggiatore 2017), Piazza Fontana. Noi sapevamo. (Mimesis 2017), Internazionale nera. La vera storia della più misteriosa organizzazione terroristica europea (Chiarelettere 2017), La seconda vita di Majorana (Chiarelettere 2016), Mai avere paura. Vita di un legionario non pentito (Chiarelettere 2016), Ucraina. La guerra che non c'è (Baldini e Castoldi 2015), L' avvocato del diavolo. I segreti di Berlusconi e di Forza Italia nel racconto inedito di un testimone d'eccezione (Chiarelettere 2014), Le case della libertà (Aliberti 2011), Il signor Billionaire. Ascesa, segreti, misteri e «coincidenze» (Aliberti 2011).
Ha vinto il premio Dig (ex Ilaria Alpi) nel 2016. Ha inoltre vinto i premi Igor Man e van Bonfanti per le sue corrispondenze dall’Ucraina. Ha realizzato reportage e documentari per la Rai, Mediaset, la tv svizzera e Sky; attualmente lavora per LA7.


  1)  come  siete arrivati  al filmato   tom Ponzi  . tramite i capitano giraudo  oppure  dal nuovo testimone , chiamato l’Antiquario  ? 2) le bobine  del video poi sono state ritrovate  o meno  ? 
 3) nel sottotitolo del libro c'è un'espressione inesatta: "la guerra tra i magistrati". in realtà, la guerra l'hanno fatta al solo Salvini   qual'è la  verità ?
4)  secondo i fautori della    doppia bomba  affermano  che  il  problema      della  guerra    tra magistrati  è   dovuta  al  fatto che perché. Perché aveva trovato con Digilio la seconda bomba. quando altro affermano   che Non è scritto da nessuna parte che Il giudice Salvini abbia accettato la tesi delle doppie bombe... . Ora  chiedo come stanno realmente le  cose  ?
5)  alcun dicono   che  la contro inchiesta  strage  di stato  abbia  ricevuto  imbeccata    chi da Giovanni ventura in quanto la casa editrice  che lo pubblico fosse sua  o  a  lui riconducibile  o   che  a capo del colettivo  ci fosse luo   (  ma    a  me  sembra  una panzana ) chi dai servizi  inglesi  o  alcuni   rami o esponenti dei servizi segreti italiani. Ed  uindi all'inerno d'essi   si parla  di rivalità   .  che ne pensate ?
6) che ne  pensi  dell'interpretazione  di Giovanni Fasanella  sullo speciale  di panorama sui 50  anni di pazza fontana  in   da la  sua versione sul perchè  a  50 anni   distanza non abbiamo ancora una verità soddisfacente, nè sul piano giudiziario nè su quello storico  ( su quest'ultimo   secondo me  c'è già al 90 %  )  ?
paolo morando, prima di piazza fontana, laterza, 2019, piazza fontana, 12 dicembre 1969, storia contemporanea, storia d'italia, attualità, recensioni, strategia della tensione 7) chiacchierando con l'amico paolo Morando , che  intervisterò prossimamente  anche  lui  , autore di Prima di Piazza Fontana. La prova generale,   libro fondamentale per  capire  la tecnica     di depistaggio e di capro espiatorio     che  sarà poi usata   per  piazza  fontana     con tutto  quello che 
  per caso mi è venuta in mente quest'ultima domanda ritiene che con i nuovi elementi portati dal suo libro si possa procedere all'apertura di una nuova inchiesta nei confronti di quello che ha chiamato "il Paracadutista", che avrebbe materialmente collocato la bomba e al cui nome si può facilmente risalire ?

Allora, le risposte alle due domande sono in buona parte contenute nel libro, che a questo punto ti consiglio nuovamente di leggere.
Nello specifico:
1- Tramite l'Antiquario, il come è spiegato nel libro.
2- Non sono state trovate. Il Sid ha cercato di recuperare in Svizzera gli archivi di Ponzi, dove certamente erano conservate anche le bobine. Ci è riuscita la magistratura italiana, ancora negli anni Settanta, ma nel frattempo - come raccontato nel libro - parte del materiale era stato sottratto dallo stesso Ponzi. Che fine abbiano fatto le bobine resta un mistero.
3 - Certo, l'hanno fatta a Salvini. Anche questo è ben spiegato nel libro.
4- Nessuna seconda bomba. Digilio non ha mai parlato di due bombe. Il perché degli attacchi a Salvini è ben spiegato nel libro. 
5- In "La strage di stato" si punta il dito contro Avanguardia Nazionale, mentre i principali responsabili del 12/12, come oggi ben sappiamo, sono quelli di Ordine Nuovo. Anche io ho letto alcune cose a tal riguardo, in particolare in "Bombe a inchiostro" di Aldo Giannuli, ma onestamente non ho mai approfondito l'argomento.
6- Onestamente non ho letto il pezzo di Fasanella. Personalmente - ma anche questo c'è nel libro - ritengo che le cause del mancato raggiungimento della verità giudiziaria (quella storico-giornalistica mi pare ampiamente appurata) sia dovuto: a) ai depistaggi degli anni Settanta b) alla cattiva volontà di parte della magistratura in tempi più recenti (ma anche questo è spiegato nel libro: leggilo!)
7) Secondo me assolutamente sì. Quantomeno dovrebbe essere sentito dalla magistratura


 Allora  lo comprerai o leggerai   in biblioteca  ?  . Lo comprerò'  perchè  è  un libro  fondamentale  per  capire   piazza  fontana  e  la strategia della  tensione   che  ha   attraversato   ed  lasciato una traccia  talmente    profonda    da non riuscire  a chiudere quel periodo  che ancora  divide     ( e  viene  usato  strumentalmente  da  una determinata parte politica\  culturale   )     ed  lasciarselo alle  spalle     . E lo confronterò con  quello  di Paolo  Cucchiarelli 

20.12.16

dubbi sul vile attentato ai mercatino di natale a Berlino

Visto che Oggi è il giorno del dolore, del silenzio, del rispetto, della solidarietà per i 12 morti, i 48 feriti e le loro famiglie vittime dello spaventoso attentato terroristico ( confermato ora ufficialmente dal ministro dell'interno tedesco  ) di Berlino nel corso di un mercatino di Natale. I partecipanti al mercatino sono stati vigliaccamente investiti da un TIR nero, simile a quello della strage di Nizza Apro visto che come credo seguirà sui social un caccia all'islamico e ai profughi ed immigrati con queste strofe 




Attenti bimbi, attenti bimbi
Correte via
Lo straniero pazzo sta arrivando
Correte via
Ha capelli sporchi
E questo strano odore
Di chissà quali mondi
E chissà quali storie
( ....)
 

  • Modena City Ramblers
  •  
  •  Lo straniero pazzo



  • e con queste due canzoni : ( la prima in sottofondo ) gli altri siamo noi - Umberto tozzi  e  da fratello a fratello - anna oxa franco fasano e fausto leali

    ora    concordo  sia  a  Caldo  

    "Buongiorno" a chi è stanco di folli attentati terroristici, di gesti disumani di chi si ritiene umano ma non lo è più, a chi è stanco di vedere pazzi fanatici che uccidono nel nome di Dio. Quel Dio che ha tanti nomi ma è sempre Uno ed anche oggi assiste sgomento alle follie umane di esseri che si comportano in modo disumano.
    "Buongiorno" a chi è stanco di tante, troppe vite innocenti stroncate freddamente, con cinismo, nel nome di un Dio che tace inorridito per quel che vede fare in Suo nome.
    Buongiorno “a chi crede nel sole, anche quando non splende; a chi crede nell'amore anche quando non lo sente; a chi credo in Dio, anche quando tace…”
    Buongiorno a chi non ne può più delle guerre e del terrorismo, pensando ai bambini, donne, anziani barbaramente massacrati ogni giorno ad Aleppo in Siria, a Berlino, in ogni parte del mondo...…Basta! Davvero....
    (Agostino Degas)



    sia  a freddo   
    C'è qualcuno che vuole spingere l'Europa in guerra ma non sono sicura sia l'islam

    perchè come dice anche



    Doina Stropiccioli Ogni giorno è di dolore e silenzio. Ma non di rispetto, perché non si scrive Ogni giorno del genocidio in Siria... la Germania è qui, dietro l'angolo e fa più impressione quel che è accaduto. Per quelle poche persone morte post di solidarietà e silenzio... per tutte le altre migliaia...?

    Ma  soprattutto   qualcuno deve  aver e interesse a  destabilizzare  (  la serie  di orfani in particolare   quella   della  juric  insegna )  per  rafforzarsi al  potere  e  bloccare  il cambiamento   visto che  : 1)  viste le minacce   e  gli annunci  di probabili attentati   non  si  èp presa nessuna   cautela    sul servizio d'ordine  .,  2)  come mai  non c'erano  barriere    o  forze dell'ordine  ? 3)  come hanno fatto a  trovarlo  subito   dopo poche ore  facenbdo  un bliz  in uncentro   profughi  dove  s'era  nascosto l'attentatore  ?
    quindo solo i nazisti ed i malpancisti possono pensare che sia un attentato di matrice islamica ! 


    perc

    30.11.14

    21 NOVEMBRE 1864 ORA I BAMBINI DORMONO SUL FONDO DEL SAND CREEK

    dall' amico   \  compagno di  viaggio 

     http://leonardopisani.blogspot.it/2014/11/21-novembre-1864-ora-i-bambini-dormono.html 

    Si sono presi i nostri cuori sotto una coperta scura
    sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
    fu un generale di vent'anni
    occhi turchini e giacca uguale
    fu un generale di vent'anni
    figlio di un temporale

    ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek
     
     
     
    Così cantava il grande Fabrizio De Andrè nella stupenda e commovente Fiume Sand Creek scritta con Massimo Bubola ricordando uno dei più ignobili massacri perpetrati dalle giacche blu dell’esercito degli Stati Uniti di America, successo all’alba del 29 novembre 1864. Un massacro inutile ordinato dal Il colonnello John Chivington. Ad una soldataglia reclutata pochi mesi prima con l’intento di uccidere quanti più indiani possibili.
     

    Capo Cheyenne
     Le cifre del massacro furono subito ridimensionate, parlando di poche decine di morti, quasi tutti guerrieri; in realtà non si conoscono ma sono centinaia e per la maggior parte donne, anziani e bambini. All’accampamento del Sand Creek vi erano tribù che volevano la pace con “i Lunghi Coltelli”  ovvero  Cheyenne  Pentola Nera, Antilope Bianca e Copricapo di Guerra  e gli Arapaho di Mano Sinistra. Nessuna sentinella nel campo, una bandiera americana innalzata in segno di pace. Ma all’alba del 29 novembre 1864 “la colonna dei soldati giunse al campo Cheyenne e Arapaho sul Sand Creek, ottenendo una completa sorpresa: a parte i guardiani del recinto dei cavalli, i nativi non avevano messo nessuna sentinella a protezione del campo, tanto erano fiduciosi sul fatto di non avere nulla da temere  L'accampamento era situato in un'ansa a ferro di cavallo del Sand Creek, a nord di un piccolo torrente in quel momento in secca: la tribù di Pentola Nera era accampata al centro, con a ovest i Cheyenne dei capi Antilope Bianca e Copricapo di Guerra e a est, un poco più discosti, gli Arapaho di Mano Sinistra. La maggior parte dei maschi adulti era lontano più a est, a caccia delle mandrie di bisonti nella zona dello Smoky Hill, e circa i due terzi dei 600 nativi presenti nel campo erano donne o bambini; Robert Bent stimò che i guerrieri fossero circa 35, cui sommare un'altra trentina di uomini anziani ativi furono svegliati dal rumore dei cavalli della massa dei soldati che galoppava verso il campo; la confusione si sparse rapidamente per l'accampamento mentre donne e bambini uscivano urlando dalle tende e i pochi guerrieri disponibili correvano a prendere le armi. Edmund Guerrier fu svegliato dalle urla delle donne: uscì dalla tenda e si diresse verso l'alloggio del mercante John Smith, anche lui accampato con i Cheyenne insieme a sua moglie nativa, a suo figlio meticcio Jack e al soldato David Louderback. Quest'ultimo propose di andare incontro ai soldati avanzanti, ma non appena il piccolo gruppo uscì dalla tenda di Smith i cavalleggeri aprirono il fuoco con carabine e pistole: il gruppo fece dietro front e corse a riparasi dietro la tenda, dove furono raggiunti anche da Charlie Bent.
    pentola nera
    Pentola Nera aveva fatto innalzare accanto al suo tipi un alto palo di legno a cui aveva fissato una grossa bandiera degli Stati Uniti d'America, un dono di quando aveva firmato il trattato di Fort Wise: non appena i soldati si avvicinarono al campo, il vecchio capo urlò alla sua gente di radunarsi sotto alla bandiera e in poco tempo svariate centinaia di donne e bambini si ammassarono intorno al palo,mentre tutt'intorno i soldati facevano fuoco indiscriminatamente
    disegno del massacro fatto da un sopravvissuto
    Ai primi spari il capo Antilope Bianca, un vecchio di 75 anni, si mosse a passo svelto verso i soldati; James Beckwourth, che cavalcava a fianco di Chivington, testimoniò che il capo, disarmato e con le mani in alto, si avvicinò urlando «Fermi! Fermi!» in inglese perfettamente udibile, finché non fu abbattuto a colpi di fucile da parte dei soldati. Il corpo rimase abbandonato sul letto asciutto del torrente: come riferì poi Robert Bent, alcuni soldati vi si avvicinarono e lo mutilarono con i loro coltelli, tagliandogli il naso, le orecchie e i testicoli per farne dei trofei Risalendo il letto asciutto del torrente, anche gli Arapaho del campo vicino corsero a rifugiarsi sotto la bandiera di Pentola Nera; il capo Mano Sinistra si fermò di fronte ai soldati con le braccia incrociate, dicendo che non avrebbe combattuto contro di loro perché erano amici: fu colpito da una pallottola di fucile, ma riuscì poi a mettersi in salvo. 
    il Colonnello Chivington
    Robert Bent descrisse lo scontro come «una carneficina indiscriminata di uomini, donne e bambini»Bent vide un gruppo di trenta o quaranta donne rifugiarsi in un anfratto: una bambina di circa sei anni fu mandata fuori con una bandiera bianca, ma questa fu subito colpita e uccisa dal fuoco dei soldati; tutte le donne ammassate nell'anfratto furono poi passate per le armi senza che potessero opporre resistenza . Tutti i corpi dei nativi uccisi che Robert Bent vide erano stati scalpati e molti mutilati dai soldati una circostanza confermata anche dalla testimonianza del tenente James Connor: i soldati tagliarono le dita delle mani dei morti per impossessarsi di anelli e altri gioielli, oppure asportarono nasi, orecchie e organi sessuali di uomini e donne per farne dei trofei da esporre sui cappelli o sulle selle dei cavalli; nei giorni successivi al massacro molti soldati furono poi visti mettere in mostra questi loro trofei nei saloon della zona di Denver.
    Non venne dato nessun quartiere ai nativi feriti, né ai bambini. Robert Bent vide un soldato avvicinarsi a una donna stesa a terra, colpita a una gamba, e spezzarle entrambe le braccia a colpi di spada, lasciandola poi lì a morire dissanguata; sempre Bent riferì di una bambina di cinque anni che, nascosta in un banco di sabbia, fu scoperta da due soldati: questi le spararono a distanza ravvicinata con le loro pistole e poi ne trascinarono il corpo fuori dalla sabbia prendendolo per un bracci. Sia Bent che il capitano Soule videro il corpo di una donna incinta, lasciato sventrato e con il feto abbandonato accanto; Bent riferì di aver visto i corpi di numerosi neonati uccisi con le loro madri, mentre il tenente Connor seppe di un bambino di pochi mesi gettato nella cassetta del fieno di un carro e poi abbandonato a morire sulla strada durante il rientro della colonna al forte.
    L'attacco non fu molto coordinato poiché molti soldati erano scarsamente disciplinati e ubriachi dopo le bevute fatte durante la marcia di avvicinamento; parecchi nativi riuscirono quindi a fuggire dal luogo del massacro: quando divenne chiaro che la bandiera alzata da Pentola Nera non era un rifugio sicuro, vari gruppi di nativi fuggirono attraverso il basso corso del Sand Creek cercando rifugio sulla sponda opposta, dirigendo poi a est verso i campi degli Cheyenne andati a caccia sullo Smoky Hill; diversi di loro furono uccisi dal fuoco degli obici da montagna dei soldati che sparavano dalla riva sud del fiume Pentola Nera si salvò nascondendosi in un burrone, anche se sua moglie fu gravemente ferita; numerosi nativi si nascosero scavando buche e trincee nella riva sabbiosa del torrente in secca, resistendo poi fino a notte: tra questi vi fu George Bent, rimasto separato dal fratello Charlie fin dalle prime fasi dello scontro e ferito al fianco da una pallottola di fucile.
    Conclusasi la sparatoria la colonna di Chivington fece rapidamente rientro a Fort Lyon; prima di lasciare l'area i soldati presero i cavalli dei nativi e incendiarono le tende del campo. I soldati portarono con sé sette prigionieri: la moglie Cheyenne del commerciante John Smith, la moglie nativa di un colono che risiedeva a Fort Lyon con i suoi tre bambini e i due meticci Jack Smith e Charlie Bent. Beckwourth riuscì a salvare la vita a Charlie nascondendolo su un carro insieme a un ufficiale rimasto ferito e facendolo poi rilasciare, ma Jack fu ucciso da un soldato che infilò la canna della sua pistola in un buco della tenda dove il prigioniero era detenuto.
    guerrieri Arapaho
    Il numero esatto delle vittime del massacro di Sand Creek non è chiaro. Nel suo rapporto reso alla commissione d'inchiesta dopo i fatti, il colonnello Chivington indicò la cifra di 500 o 600 nativi morti, sostenendo che la quasi totalità delle vittime erano guerrieri e che il numero di donne e bambini rimasti uccisi era molto basso . Le cifre date da Chivington furono largamente sottodimensionate da altri testimoni oculari degli eventi: il commerciante John Smith parlò di 70 od 80 morti tra gli indiani, di cui solo 20 o 30 erano guerrieri; George Bent, in una lettera al giornalista e attivista per i diritti dei nativi dell'America del Nord Samuel F. Tappan del 15 marzo 1889, parlò di un totale di 137 vittime, di cui 28 uomini e 109 donne e bambini il maggiore Scott Anthony parlò di «non più di» 125 vittime tra i nativi, mentre il tenente Joseph Cramer stimò tra le 125 e le 175 vittime totali. Diversi autori riportano per i nativi la cifra di 133 morti: 28 uomini e 105 tra donne e bambini.
    La tribù di Pentola Nera, i Wutapai, soffrì le perdite più pesanti; perì quasi metà della tribù degli Hevhaitaniu, compresi i suoi capi Lupo Giallo e Grande Uomo, e cifre simili riportarono gli Oivimana del capo Copricapo di Guerra (rimasto ucciso) e gli Hisiometanio di Antilope Bianca. Tra le vittime vi era anche il capo Occhio Solo, perito insieme a gran parte della sua tribù, mentre i clan degli Heviqxnipahis e dei Suhtai ebbero pochi morti; delle dieci tende del campo Arapaho di Mano Sinistra (circa 50 o 60 persone), solo una manciata sfuggì indenne all'attacco dei soldati. Nessun membro dei Soldati Cane Cheyenne era presente al campo sul Sand Creek.
    l'anglo-cheyenne Edmond Guerrier, testimone oculare del massacro 
    La reazione dei seppur pochi guerrieri presenti nel campo provocò vittime anche tra i soldati attaccanti: John Smith parlò di 10 soldati uccisi e altri 38 feriti, mentre il rapporto ufficiale di Chivington indicò 9 morti e 38 feriti. Le stime sul numero dei caduti tra i soldati arrivarono poi a un totale di 24 morti e 52 feriti: il 1st Colorado Cavalry ebbe 4 morti e 21 feriti, il 3rd Colorado Cavalry 20 tra morti in azione e per le ferite riportate e 31 altri feriti. Alcune fonti attribuiscono molte delle vittime tra i soldati al fuoco amico, a causa della scarsa disciplina dei loro compagni e della caotica conduzione dell'assalto, circostanza però non confermata da altri autori. (fonte wiki) 
    donna Arapaho
    Il massacro fu oggetto di due diverse indagini,  nel gennaio 1865 gli eventi di Sand Creek arrivarono quindi all'attenzione dello United States Congress Joint Committee on the Conduct of the War, un comitato investigativo del Congresso degli Stati Uniti d'America  che diede questo giudizio:
    « Per quanto riguarda il Colonnello Chivington, questo comitato può difficilmente trovare dei termini adeguati che descrivano la sua condotta. Indossando l'uniforme degli Stati Uniti, che dovrebbe rappresentare un emblema di giustizia e di umanità; occupando l'importante posizione di comandante di un distretto militare, che gli ha concesso l'onore di governare tutto ciò che rientra nei suoi poteri, ha deliberatamente organizzato ed eseguito un folle e vile massacro in cui numerose sono state le vittime della sua crudeltà. Egli conoscendo chiaramente la cordialità del loro carattere, avendo egli stesso in un certo senso tentato di porre le vittime in una condizione di fittizia sicurezza, ha sfruttato l'assenza di alcun tipo di difesa e la loro convinzione di sentirsi sicuri per potere gratificare la peggiore passione che abbia mai attraversato il cuore di un uomo.

    Qualunque peso tutto questo abbia avuto sul Colonnello Chivington, la verità è che ha sorpreso e assassinato, a sangue freddo, inaspettatamente uomini, donne e bambini, i quali avevano tutte le ragioni per credere di essere sotto la protezione delle autorità statunitensi, e poi ritornando a Denver si è vantato dell'azione coraggiosa che lui e gli uomini sotto il suo comando hanno eseguito.
    accampamento Arapaho
    In conclusione questo comitato è dell'opinione che al fine di vendicare la causa di giustizia e mantenere l'onore della nazione, pronte e rigorose misure debbano essere adottate per rimuovere chiunque avesse così vilipeso il governo presso cui sono impiegati, e di punire, adeguatamente al crimine commesso, coloro che sono colpevoli di questi atti brutali e codardi. » Ma non vi furono conseguenze, tutti colpevoli, tutti innocenti….

    Si sono presi il nostro cuore sotto una coperta scura
    sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
    fu un generale di vent'anni
    occhi turchini e giacca uguale
    fu un generale di vent'anni
    figlio di un temporale

    c'è un dollaro d'argento sul fondo del Sand Creek

    I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte
    e quella musica distante diventò sempre più forte
    chiusi gli occhi per tre volte
    mi ritrovai ancora lì
    chiesi a mio nonno è solo un sogno
    mio nonno disse sì

    a volte i pesci cantano sul fondo del Sand Creek

    Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso
    il lampo in un orecchio e nell'altro il paradiso
    le lacrime più piccole
    le lacrime più grosse
    quando l'albero della neve
    fiorì di stelle rosse

    ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek

    Quando il sole alzò la testa oltre le spalle della notte
    c'eran solo cani e fumo e tende capovolte
    tirai una freccia in cielo
    per farlo respirare
    tirai una freccia al vento
    per farlo sanguinare

    la terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek

    Si sono presi i nostri cuori sotto una coperta scura
    sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
    fu un generale di vent'anni
    occhi turchini e giacca uguale
    fu un generale di vent'anni
    figlio di un temporale

    ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek

    emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

    Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...