I media nazionali parlando degli Alfieri della Repubblica si sono dimenticati o hanno fatto passare in secondo piano questa notizia co un iccolo trafiletto in cronaca o in edizioni locali notizie come qqueste . Lo so che dovrebbe essere una storia normale , ma in un paese in cui i ragazzi d'origine straniera , nati e che crescono qui , no hanno ancora pieni diritti , fa si che tale storia sia
: « [...] Storia diversa per gente normale \ storia comune per gente speciale [...] » ( cit De Andreiana ) . Infatti enti bambini della attuale VB della scuola elementare Parini di Torino, tutti con background migratorio, sono stati nominati Alfieri della Repubblica con una targa dal Presidente Sergio Mattarella .
Leggo tale notizia da msn.it mi pare corriere della sera edizione torino l'articolo che sotto riporto
La candidatura è partita dalle loro stesse maestre, colpite dalla solidarietà che si era creata in classe nei confronti di un compagno con una grave disabilità. «So che il riconoscimento di Alfiere è individuale, ma nel percorso di crescita che queste bambine e bambini realizzano ogni giorno, come futuri cittadini italiani e del mondo, non posso sceglierne uno solo», ha scritto l’insegnante di sostegno Giorgia Rossino, segnalando la sua classe al Quirinale. «Io li guardo non solo con l’amore di una maestra, ma con la speranza nel futuro che loro possono regalare, nonostante tutti gli orrori che molti di loro sono costretti a sopportare». La notizia della nomina è trapelata nei giorni scorsi, diventata ufficiale con il comunicato della Presidenza della Repubblica. «È una storia eccezionale, unica, per le condizioni di questo bambino – commenta Massimo Cellerino, preside dell’Ic Torino II -, ma al contempo è anche esemplificativa del lavoro che le maestre fanno ogni giorno in questo istituto comprensivo per accogliere la diversità in ogni sua forma, che sia linguistica, culturale o fisica». Una storia che il Quirinale ha voluto premiare «per aver dato valore alla pluralità». Accanto ai 29 riconoscimenti per comportamenti individuali, il Presidente Mattarella ha conferito alla VB una delle 4 targhe per premiare azioni collettive di giovani e giovanissimi, anch’esse espressione dei valori di solidarietà, inclusione e accoglienza. «I bambini della VB provengono da ogni parte del mondo: Marocco, Egitto, Bangladesh, Senegal, Perù e Cina. Ciascuno di loro, pur avendo alle spalle vissuti talvolta complicati, si prende cura con amore e dedizione di un compagno di classe con disabilità», è scritto nella motivazione ufficiale. «Tutti hanno imparato a usare il puntatore oculare con cui lui comunica, tutti sanno cosa può e cosa non può mangiare o bere il compagno. Nei corridoi si scatenano con la sedia a rotelle spronandolo con il loro affetto genuino e proteggendolo da sguardi o parole indiscreti. A scuola stanno imparando una delle lezioni più preziose: il valore della diversità e della pluralità». L’Ic Torino II ha in media il 75% di alunni «nuovi italiani», con punte tra l’80 e il 90% nel plesso Parini di corso Giulio Cesare in zona Aurora. «I nostri alunni sono dei piccoli grandi eroi perché senza le stesse possibilità di altri compiono giornalmente, insieme ai loro genitori, piccoli grandi miracoli», commentano le maestre ancora frastornate dal riconoscimento. «A scuola coltiviamo l’educazione civica tutti i giorni, non solo parlando ma dando l’esempio di civiltà, democrazia, partecipazione e rispetto per l’essere umano di qualunque colore sia».
dopo il post su L'Heysel ed il ricordo di chi c'era sia come giocatore sia come tifoso , ecco un altra storia che unisce sport e disabilità. La storia dell'ex campione di motocross Bryan Toccaceli ora paralizzato dal collo in giù .Ma che ha mantenuto intatta la passione e efa il coache per Valentino
L'ex campione di motocross Toccaceli
Cosa sta ascoltando?
«Cremonini, il nuovo cd. Mi piace molto, sto facendo un ripasso generale delle ultime canzoni perché a giugno andrò al concerto. Non ero mai riuscito a trovare il biglietto, per noi persone con disabilità ce ne sono sempre pochi».
Bryan Toccaceli abbassa il volume per farsi sentire meglio. Lo fa senza alzarsi e senza muovere un braccio o un dito. Non può, il suo corpo è completamente paralizzato dal collo in giù, è così da quando aveva 23 anni: «Ne sono passati già sette dall’incidente, mi sembra ieri. Era l’1 maggio, il giorno prima del mio compleanno».
Campione di motocross, poi cosa è successo?
«Ero passato all’enduro, la domenica avrei avuto la prima gara del campionato italiano. Quel giorno era festa e la mattina andai ad allenarmi insieme ai miei amici. Succede che la moto si spegne. La spingiamo fuori dal bosco, la porto a casa, la smonto e cambio tutto quello che potevo cambiare. Era saltato un fusibile, lo sostituisco».
E poi?
«Faccio qualche giro di prova intorno a casa, la moto andava bene. Vado al crossodromo di Baldasserona per capire se avrebbe risposto bene ai salti e alle vibrazioni. Arrivo alla pista, faccio un paio di giri. Sembra tutto a posto. "cavolo, stamani non mi sono allenato. Già che ci sono faccio qualche manche", mi dico. Rientro, faccio il primo giro. Ma a metà del secondo, durante un salto, la moto si spegne di nuovo. Improvvisamente».
Da lì cosa ricorda?
«Una volta a terra non riuscivo più a respirare. Mi sono agitato molto, un amico si avvicinò prendendomi la mano. "Stringila, stanno arrivando i soccorsi”. Ci provavo, ma non riuscivo. Da lì il buio».
Quando riapre gli occhi?
«Cinque giorni dopo, al Bufalini di Cesena. Mi avevano sedato, avevo avuto degli arresti cardiaci. Poi due operazioni e i problemi di respirazione. Per i dottori sarei dovuto restare per sempre attaccato all'ossigeno, ma mi imposi. "Non lo voglio più". E oggi è solo un ricordo».
Quando ha realizzato che non si sarebbe più mosso?
«All’inizio pensavo si trattasse di una frattura che si sarebbe risistemata. In fin dei conti avevo diversi amici sulla sedia a rotelle. "Loro le braccia le muovono, guidano le macchine, fanno tante altre cose”, pensavo. Spronavo i dottori ad aumentare le ore di palestra illudendomi che sarebbe servito a qualcosa. Loro hanno cercato di farmelo capire giorno dopo giorno: "Bryan, hai una lesione completa del midollo”. Muovo solo un po’ le spalle, ogni tanto mi chiedo. "Perché a me? Perché così tanto?"».
«In molti sono venuti a trovarmi e anche lui si era informato per farlo in modo segreto, così da evitare la calca. Ma decideva un orario e dopo mezz’ora lo sapeva già tutto l’ospedale. Quindi organizzò un grande pranzo a casa sua».
Oggi lavora per lui.
«Nel 2021 mi chiamò. "Ti andrebbe di diventare il coach della VR46 Academy?". Lo andavo a vedere spesso quando coi suoi allievi girava al Ranch di Tavullia. Sono tutti appassionati di motocross e il mio compito consiste nell’aiutarli nell’impostazione di guida e non solo. Ma ne hanno poco bisogno, si vede che sono dei professionisti. Hanno una maniacalità nel setup della moto fuori dal normale. Anche alla PlayStation».
Alla PlayStation?
«Col primo joystick usavo il mento, poi ne ho ordinato uno più avanzato dall'America e con la bocca cambio le marce. Poi invece dei tasti uso il fiato: soffio per una cosa, doppio soffio per un'altra e così via. Sfido Valentino, Pasini e Mauro Sanchini ad IRacing, un simulatore di guida. Girano forte, è tosta. Ogni tanto faccio da tappo, ma non mi faccio passare».
Cosa le manca della vita di prima?
«Le moto erano diventate una pugnalata, oggi le guardo con più leggerezza. Mi sentivo osservato, ma ci ho fatto l’abitudine. Il dipendere da altri mi fa arrabbiare. “Mi puoi grattare il naso?”, all’inizio lo chiedevo solo ai miei genitori. Se avevo bisogno di bere un sorso d’acqua ed ero solo coi miei amici, piuttosto restavo a secco».
Ha ereditato la passione per i motori da suo padre. Si è mai sentito in colpa per quello che è successo?
«Il fatto che abbia reagito bene fin da subito lo ha aiutato. E poi chi sceglie di correre sa sempre che quando scende in pista potrebbe essere l’ultima volta».
E lei si sente mai in colpa nei confronti dei suoi genitori?
«Ho stravolto la loro vita. Potevano fare viaggi, andare in vacanza. Invece devono restare a casa per me e io a questa cosa ci penso, non c’è niente da fare. Mia mamma faceva la cuoca nelle scuole, poi è stata quattro anni con me grazie alle ferie solidali di colleghi e amici. Ora è tornata a lavorare, mentre papà – gommista – è andato in pensione».
Il 2 maggio farà 30 anni.
«Ogni 1 maggio mi incupisco, guardo le lancette dell’orologio e con la testa torno al momento dell’incidente. Ma i miei amici bussano, entrano in casa e mi portano via di peso. "Tanto non puoi opporre resistenza", scherzano. Da poco siamo stati a un addio al celibato a Barcellona, è stato il mio primo viaggio sulla sedia a rotelle».
E l’amore?
«Ci credo ancora ma non ne sento la mancanza. Una volta pensavo di dover avere tutto per essere felice, oggi anche una chiacchierata a casa mi fa stare bene».
È vero che ama i bambini?
«Sogno di aprire una scuola per giovani piloti, mi sono anche informato per prendere il patentino da istruttore. Prima dell’incidente avevo già avuto un’esperienza simile, quando li vedevo agitati prima delle gare mi piaceva tranquillizzarli. Purtroppo il mio incidente ha spaventato un po’ tutti, in molti hanno venduto le loro moto».
E suo figlio lo metterebbe su una moto?
«Sì, perché mi ha fatto vivere emozioni bellissime».
«Handicap» viene sostituito da «condizione di disabilità» in tutti i documenti ufficiali. Termini come «persona handicappata», «portatore di handicap», «persona affetta da disabilità», «disabile» e «diversamente abile» vengono unificati in «persona con disabilità». Le espressioni «con connotazione di gravità» e «in situazione di gravità» sono sostituite da «con necessità di sostegno elevato o molto elevato». Infine, «disabile grave» diventa «persona con necessità di sostegno intensivo». Perché usare «persona con disabilità» invece di «disabile»
Perché usare l’espressione «persona con disabilità» invece di «disabile» o «handicappato»? La differenza principale sta nel fatto che, nel primo caso, si mette al centro la persona, mentre negli altri due si rischia di ridurre l’individuo alla sua disabilità. L’obiettivo di queste modifiche linguistiche è quindi di spostare l’attenzione sulla persona, piuttosto che sulla sua condizione, per evitare che venga etichettata unicamente in base alla disabilità. Si tratta di un approccio che promuove un linguaggio che rispetta e valorizza la dignità e la complessità di ogni individuo. Sebbene la modifica del linguaggio possa sembrare un cambiamento puramente formale, in realtà riflette una visione più moderna e inclusiva della società, che ora sta trovando spazio anche negli ambienti istituzionali. Un cambio di rotta del governo? Si tratta di una mossa apparentemente dissonante nella linea adottata finora dalla maggioranza di governo, che alle sollecitazioni sulla necessità di utilizzare un linguaggio più inclusivo, ha più volte risposto in modo respingente. La premier stessa ha scelto di farsi chiamare «Il presidente», rifiutando l’utilizzo di «la presidente». La scorsa estate, il senatore della Lega Manfredi Potenti ha presentato un disegno di legge per vietare l’uso di termini femminili come «sindaca», «questora», «avvocatessa» e «rettrice» negli atti pubblici, sostenendo che il maschile universale dovesse prevalere in tutti i contesti ufficiali, pena sanzioni. E, solo pochi giorni fa, Meloni ha dichiarato: «Alcune femministe credono che la parità di genere si realizzi declinando titoli al femminile». Eppure, quando si parla di disabilità, il governo sceglie una strada diversa, più soft e meno controversa. Forse un cambio di rotta o, più probabilmente, una mossa dettata dal fatto che il tema della disabilità è percepito come meno divisivo e, ad esempio, meno polarizzante rispetto alla questione di genere. In altre parole, parlare di linguaggio inclusivo per le persone con disabilità non solleva le stesse tensioni politiche e culturali che, invece, si accendono quando si discute della parità di genere. La disabilità continua ad essere erroneamente vista come una questione semplicemente di rispetto, mentre il tema della parità di genere sfida direttamente gli equilibri di potere esistenti. Sorge dunque spontaneo chiedersi se questo intervento faccia parte di un reale cambiamento di paradigma, o se si tratti semplicemente di un tentativo di presentarsi come inclusivi su un tema che, al momento, non scotta come altri.
Anche se come ho spiegato dal titolo lo reputo assurdo che ci voglia una legge dello stato per tale cambiamenti , fare un circolare era meglio . Ciò non toglie, che la revisione della terminologia sui temi della disabilità rappresenti un passo avanti e un segno di civiltà anche se formale
Si chiama Lolelì ed è la realizzazione di un sogno perseguito con ostinazione e coraggio. Il sogno diAmelia Montedoro, di sua figlia Lorenae del fratello minore Manuele.
Amelia è ingegnere dei materiali, lavora in un’azienda metalmeccanica, Manuele fa il quarto anno del liceo scientifico ed è uno sportivo, Lorena ha 20 anni, si è diplomata quest’anno in pasticceria al Beccari con 100/100 e il plauso della commissione. Ed è autistica.
«Quando in terza media è arrivato il momento di capire il futuro che avrebbe avuto – racconta Amelia - ricordo la frase che mi è stata detta dagli specialisti dopo la diagnosi di disabilità cognitiva:dovete individuare i talenti dei vostri figli e su quelli costruire la loro vita. Mia figlia è metodica, ama le sequenze: cosa poteva esserci di meglio dellapasticceria, un’arte matematica, precisa. E così è nata l’idea: aprire un laboratorio di pasticceria per lei». In realtà Amelia ha fatto molto di più: ha rilevato una ex ferramenta in Borgo Vittoria, al n. 50 di via Bibiana, l’ha presa in affitto, l’ha ristrutturata completamente creando un grande laboratorio di pasticceria e uno spazio bar-ristorazione. Con l’associazione cui fa riferimento, la Onlus Associazione di Idee,ha selezionato altri ragazzi e ragazze con autismo, e anche ragazzi e ragazze normodotati, che ha regolarmente assunto, per il laboratorio e per la sala. È così ieri ha inaugurato Lolelì, unione dei loro nomi: Lo come Lorena, Le per Manuele, Lì per Amelie, alla francese. Detto così, sembra tutto facile.In realtà è stata un’impresa epica, Amelia dopo il lavoro si è buttata per mesi, ogni giorno, nella ristrutturazione, ha fatto colloqui, ha organizzato gli spazi… Qualche aiuto dalle istituzioni?Ha bussato a tutte le porte, niente.Adesso pare che appoggiandosi all’Associazione di Idee possa accedere a un bando regionale che le consentirà di avere qualche aiuto e di poter inserire come stagisti i «fragili» (lei avendo partita IVA non ne aveva diritto). Ha fatto tutto da sola insomma, con i figli e con i ragazzi e le ragazze che ora qui possono immaginare il loro futuro.Il bar-pasticceria (la pasticceria è il core-business di tutto il progetto) sarà aperta tutti i giorni tranne il martedì dalle 7 di mattina alle 19.30.Colazione con croissanteries tutte prodotte internamente- Lorena come coadiuvante - e prossimamente, dolci regionali: «Questo è un quartiere di immigrazione, soprattutto dal Sud, e vogliano riproporre dolci dei luoghi di origine».A pranzo insalate, panini, focacce e la sera l’aperitivo, spritz, i classici, anche no alcool, con taglieri, stuzzichini. Un posto dove ci si sente a casa e dove l’inclusione è la regola. Per Lorena e i suoi compagni e compagne , il futuro.
Domani s'arono ufficialmente le paraolimpiadi . Altre due settimane di sport emozionante e storie \ annedotti particolari ed avvincenti ci aspettano oltre che si strumentalizzazioni politiche \ culturali e polemiche ( vedere il post precedente )
Ntando Mahlangu, sprinter sudafricano con protesi gambali. Foto: Everett Collection
Infatti Le Paralimpiadi sono piene di storie ispiratrici e straordinarie. Ecco alcune delle più celebri:
Bebe Vio: La schermitrice italiana Bebe Vio, che ha perso braccia e gambe a causa di una meningite fulminante, ha vinto l’oro nel fioretto individuale alle Paralimpiadi di Rio 2016 e Tokyo 2020. La sua storia è un esempio di coraggio e forza di volontà
Queste ed altre storie mostrano come lo sport possa essere un potente strumento di riscatto e rinascita.
I Giochi Paralimpici di Parigi 2024 inizieranno il 28 Agosto e termineranno l’8 Settembre a Parigi, nelle sedi dei Giochi Olimpici 2024, conclusi due settimane fa. In questi giorni, alcuni dei più importanti atleti paralimpici del mondo hanno dichiarato che non “parteciperanno” ai Giochi Paralimpici di Parigi 2024, nell’ambito di una nuova campagna del Comitato Paralimpico Internazionale (IPC) volta a sfidare i pregiudizi linguistici.
Nell’ambito della strategia sociale, i paralimpici, hanno postato una serie di grafiche su Instagram, la prima delle quali dichiara:
“Non parteciperò ai Giochi Paralimpici di Parigi 2024”. Scorrendo la serie di immagini verso sinistra, i follower del social network hanno scoperto che l’atleta ha invece dichiarato: “Gareggerò”, ricordando che i paralimpici sono stati spesso elogiati per il solo fatto di partecipare allo sport, non per le loro abilità sportive o per la loro feroce voglia di vincere.
Ellie Cole, nuotatrice italina in Phoenix Rising, doc di Netflix.
In esse ci saranno trecentocinquantamila ore di diretta, con un'audience stimata in oltre quattro miliardi di spettatori in tutto il mondo. Quelle di Parigi 2024 - al via il prossimo 28 agosto - saranno le prime Paralimpiadi con copertura televisiva totale. Seimila i giornalisti accreditati. Centocinquantamila gli euro pagati dalla Rai per aggiudicarsi la messa in onda. Non male per una rassegna sportiva considerata giovane (è l'edizione numero 17, mentre le Olimpiadi, dell'era moderna sono a quota 33). Le prime gare in diretta tv furono trasmesse negli Usa da Atlanta 1996. In Italia, con Torino 2006. «Rai 2 diventerà rete paralimpica per tutta la durata dei Giochi, permettendoci di entrare davvero nelle case degli italiani e mostrare che lo sport può farsi grimaldello per una rivoluzione culturale» esulta il presidente del Cip (Comitato italiano paralimpico) Luca Pancalli, «dove si guarda alle persone disabili per quello che hanno e che possono restituire alla società, non per ciò che hanno perso». Complice il ritorno in Europa, dopo anni tra Asia e Sudamerica, il fuso orario non sarà più un problema. paralimpiadi 2 Ellie Cole, nuotatrice italina in Phoenix Rising, doc di Netflix. Saranno 22 le discipline in gara a Parigi 2024, suddivise in 549 eventi paralimpici tra il 28 agosto e l'8 settembre. Le Paralimpiadi, figlie della guerra Agli albori c'erano un inglese - nato tedesco, in un luogo che oggi è polacco - e un italiano. Detta così può sembrare una barzelletta, invece le Paralimpiadi sono figlie della guerra. Che, quando non porta morte, porta disabilità. Il primo, Ludwig Guttmann, è un neurologo ebreo originario della Slesia. Non tollera che i soldati diventati paraplegici al fronte siano abbandonati a morire. Tra i due conflitti mondiali emigra in Gran Bretagna, avvia un centro di ricerca sulle lesioni al midollo spinale (nell'ospedale di Stoke Mandeville, vicino Londra) e capisce che ai suoi pazienti la riabilitazione non basta. Ci vogliono stimoli, divertimento, competizione per tornare a vivere. Nel 1948 - mentre Londra ospita la 14esima edizione delle Olimpiadi - Guttmann a Stoke Mandeville organizza i primi Giochi per persone con disabilità. Una sola disciplina: il tiro con l'arco. Sedici gli atleti in gara, tutti inglesi. E l'italiano? È Antonio Maglio, un medico dell'Inail che condivide la visione di Guttmann e invita i Giochi di Stoke Mandeville, nel frattempo estesi a delegazioni estere, a una trasferta romana. È il 1960, l'anno d'esordio dei Beatles e di John Fitzgerald Kennedy alla Casa Bianca. Nella capitale italiana si sono appena concluse le 17esime Olimpiadi. Lo stadio dell'Acqua Acetosa vede sfilare 400 atleti, tutti in sedia a rotelle, venuti da oltre 20 Paesi per sfidarsi in quelli che passeranno alla storia come i primi Giochi paralimpici (anche se per arrivare ufficialmente al nome Paralimpiadi - cioè le Olimpiadi in parallelo, quelle accanto - bisognerà aspettare il 1984). È un evento sportivo globale, in divenire. E in crescita costante. Play the Games Special Olympics Italia 2024: la presentazione Si è tenuta oggi a Roma, nella Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, la conferenza stampa di presentazione dei Play the Games Special Olympics Italia 2024. Giunti alla sesta edizione, rappresentano un unico grande appuntamento con lo sport inclusivo e multidisciplinare. Strutturati in più appuntamenti e dislocati in diverse regioni, assumono a tutti gli effetti il valore dei Giochi Nazionali Estivi. 14 discipline sportive - tra cui nuoto, pallavolo, karate, tennis, bowling, equitazione - 23 giorni di gare e 7 grandi eventi: sono questi i numeri che contraddistinguono questa lunga rassegna che farà vivere giorni indimenticabili all’insegna dello sport e dell’amicizia. Tutti i ragazzi e le ragazze presenti alla conferenza stampa hanno indossato una T-Shirt con la scritta “La nostra Scuola è inclusiva”, sottolineando la necessità di favorire una cultura del rispetto alla quale educare soprattutto i giovani, promuovendo una conoscenza della persona che vada oltre la disabilità. Per il programma, clicca qui. Discipline e atleti attesi quest'anno Quest'anno a Parigi 2024 gli atleti attesi sono 4.400, da 184 Paesi; 549 eventi nelle 22 discipline estive in programma. C'è il sitting volley (cioè la pallavolo da seduti), il calcio a cinque per ciechi, il calcio a sette «un lato» (pensato per giocatori con paralisi cerebrali), il goalball o pallarete. Ci sono gli sport che portano l'aggettivo «paralimpico» dopo il nome: atletica, boccia, canoa, canottaggio, ciclismo (su strada e su pista), equitazione, judo, nuoto, pesistica, tennistavolo, tiro a segno, tiro con l'arco, triathlon, vela. E poi ancora quelli da praticare solo in sedia a rotelle: basket, rugby, scherma e tennis. Le tipologie di disabilità ammesse oggi includono deficit fisici, visivi e intellettivi. Ogni disciplina ha le sue regole, ma tutti gli atleti paralimpici vengono valutati da una commissione medico-sportiva che - tenendo conto di patologie, «abilità residue» e specialità sportive - li smista in «classi» funzionali. Nelle gare individuali la classe di appartenenza stabilisce a quali eventi si può partecipare e chi sono gli avversari. In caso di giochi di squadra, invece, la somma dei punti associati alla classe di ogni giocatore in campo per un team non deve superare una certa soglia. Così si cerca di garantire equità e competizione. Campioni sempre più carismatici - come Bebe Vio, Simone Barlaam, Martina Caironi - hanno alzato gli standard competitivi e la popolarità: in Italia, dal 2000 il numero di persone con handicap che praticano sport o attività fisica è aumentato del 20 per cento (arrivando a circa 50mila su un milione di disabili tra i sei e i 40 anni) e coinvolge tremila associazioni e società sportive riconosciute dal Cip. paralimpiadi 3 Tatyana McFadden, Usa, velocista e maratoneta. Saranno 4.400 gli ateleti paralimpici a Parigi. Prossimo appuntamento: le Paralimpiadi invernali Milano-Cortina 2026. «Qui non cerchiamo di creare campioni, ma cittadini» Style magazine logo Novità, curiosità e approfondimenti. Per essere sempre aggiornato attraverso il punto di vista di chi la moda la vive dall’interno.Tra gli sport più diffusi c'è il nuoto. «Perché fa bene, lo sanno tutti», scherza Pancalli (che in vasca si è guadagnato 15 medaglie paralimpiche in quattro edizioni dei Giochi, tra New York 1984 e Atlanta 1996) «e perché cominciare è facile». Poi il basket, perché «dove c'è una palla, c'è gioco» e l'atletica, soprattutto tra chi ha subìto un'amputazione. Carrozzine e protesi da gara possono costare parecchio, pesare sulle famiglie e scoraggiare chi passa all'agonismo. Così come l'accessibilità degli impianti, la carenza di personale; per atleti autistici, paraplegici, non vedenti, amputati servono allenatori specializzati. Formazione, elasticità, disponibilità all'accoglienza: il vero, grande successo delle Paralimpiadi consiste nell'evidenziare «che i disabili agiscono, possono fare, non sono soggetti passivi a cui indirizzare assistenzialismo», sottolinea ancora il Presidente del Cip, Pancalli. Ora che diversi paralimpici sono entrati nelle forze dell'ordine come agenti in servizio, il messaggio è ancora più chiaro, sottolinea: «Se a bambine e bambini disabili dai gli strumenti per diventare atleti, magari non li stai trasformando in campioni, ma di sicuro in cittadini a tutti gli effetti».
La campagna è stata creata per stimolare una conversazione sul linguaggio utilizzato per descrivere i paralimpici, rispetto agli atleti che gareggiano senza disabilità.
Si basa sul film “Paralympic Dream” dell’IPC, che ha stuzzicato il pubblico con l’idea che i Giochi Paralimpici siano un idillio di armonia sportiva, per poi dare un assaggio dell’impressionante atletismo e dell’agguerrita competizione che ci sarà in realtà.
Craig Spence, Chief Brand and Communications Officer dell’IPC, ha dichiarato:
I paralimpici sono stati spesso descritti dai media come ‘partecipanti’ e non come ‘concorrenti’. In occasione dei Giochi Paralimpici di Parigi 2024, è giunto il momento di mettere le cose in chiaro.
Dopo anni di allenamento e dedizione, 4.400 tra i migliori paralimpici del mondo si dirigeranno nella capitale francese per competere ai massimi livelli. In tutti i 22 sport, ci aspettiamo una competizione intensa e i più grandi Giochi Paralimpici di sempre in termini di prestazioni sportive.
Il linguaggio gioca un ruolo fondamentale nella percezione delle persone, soprattutto quando si tratta di persone con disabilità e paralimpici. È importante che il linguaggio sia corretto ed è per questo che abbiamo lanciato questa campagna per suscitare interesse sull’argomento in vista dei Giochi Paralimpici di Parigi 2024.
IL LINGUAGGIO CONTA
Le narrazioni utilizzate ed i termini usati dai media per coprire i Giochi Paralimpici modellano la percezione della disabilità.
Il linguaggio giusto può dare forza alle persone con disabilità e creare opportunità, mentre quello sbagliato può perpetuare stereotipi e idee sbagliate.
Il Comitato Internazionale Paralimpico ha messo a punto un vademecum su come coprire l’evento sportivo.
La storia di chi deve vivere con corpo che sin dall'infanzia deve fare i conti con le barriere imposte da una città costruita a misure standard e funzionali
Non è stato facile e non è facile vivere in mondo di giganti, giganti relativi, al cospetto di un corpo che
sin dall'infanzia deve fare i conti con le barriere imposte da una città costruita a misure standard e funzionali, con barriere architettoniche dove i cosiddetti “nani” non sono neanche menzionati. Per uscire fuori dal circo, il circo bisogna affrontarlo, smettere di essere oggetto di studio o derisione e educare agli altri, ai margini, a quelli come Lei, che solo alla soglia dei sessant'anni hanno rivendicato il diritto ad essere se stesse, e ad un mondo dove bisogna essere perfetti a tutti i costi. Essere nani e essere se stessi, essere nani e rivendicare il diritto ed il dovere ad essere felici, e a non essere bersaglio e non essere escluso, e soprattutto trovare i propri spazi in un mondo standardizzato a certe altezze o bassezze. “Una volta ho visto delle signore che ridevano al mio passaggio sono tornata indietro e le ho detto ma lo sapete cosa significa vivere con la gente che ti ride alle spalle?" Da quel giorno Maddalena, non ha più taciuto o subito, ed ora porta avanti con dignità la sua statura a tutti i livelli
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Chi è Clémentine Delait, la donna con la barba che sfidò il mondo e non volle diventare un fenomeno da baraccone
Questa donna incredibile trasformò il suo problema ormonale in una fonte di guadagno, ma in modo libero, audace. E ora la sua storia diventa un film, "Rosalie", dal 30 maggio nelle sale
E' una storia incredibile quella che vogliamo raccontarvi. Siamo alla fine dell'800 e una adolescente di nome Clementina Delait accusa un grave disturbo ormonale. All'epoca ovviamente non c'erano cure efficace. L'unica soluzione era il rasoio. E sì perché a Clementina iniziò a crescere la barba come a un uomo. Siamo in un’epoca in cui i cosiddetti “fenomeni da baraccone” non solo erano molto richiesti per gli spettacoli al circo, ma erano anche l'unica a volte fonte di guadagno per gli stessi uomini o donne "mostri" che così potevano sostentarsi. Anche Clementina trasformò questo suo problema in una fonte di guadagno, ma in modo libero, audace. Assolutamente coraggioso per chiunque. Figuriamoci per una donna. La storia della donna con la barba che al cinema si chiamerà Rosalie Clémentine Delait nasce in Francia il 5 marzo 1865 e la sua vita non è stata semplice perché nell'età della pubertà ha dovuto affrontare la crescita della barba come fosse un ragazzo. Durante la gioventù ovviamente questa particolare condizione la faceva sentire a disagio. Infatti per tutta la prima parte della vita si è rasata meticolosamente ogni giorno. A un certo punto però ha deciso di abbracciare la sua diversità e di trasformarla in un simbolo di forza. La sua storia è la più straordinaria storia di auto accettazione. La decisione di lasciare crescere la barba è stato il modo con cui si è emancipata, come a dire: "Basta io sono questa, accettatemi come sono". Già all'epoca la sua storia e scelta di autodeterminazione hanno attirato l'attenzione dei media e del pubblico. Perché Clémentine Delait inventò un diritto che ancora oggi fa fatica a imporsi: quello di essere di essere se stesse. Pensate agli interventi di chirurgia estetica a cui le donne si sottopongono per assomigliare a un unico modello di bellezza imposto dalla società maschile. Agli uomini non viene chiesto di avere le labbra carnose o il naso alla francese. L'uomo può essere bello in tutti i modi che vuole. Le donne più di un secolo dopo Clementine, ancora no. (Se vuoi approfondire leggi la storia dei peli in questo articolo). Per questo la sua esperienza- che oggi ispira un film in uscita in Italia il 30 maggio- è diventata un simbolo della lotta contro i pregiudizi di genere. Clémentine senza saperlo ancora ha promosso un concetto di identità di genere libero dagli stereotipi. Essere insomma uomini o donna non per come è il nostro corpo ma solo per la nostra esperienza interiore. Le venne chiesto di entrare in un circo in cambio di una somma di denaro enorme ma lei rifiutò, preferì mostrare la sua semplicità nella sua vita di tutti i giorni lavorando alla sua locanda. Arrivavano da tutta la Francia per vederla e alla fine si arricchì comunque ma senza, appunto, trasformarsi in una mostruosa attrazione. L'attrice che la interpreta La bravissima attrice Nadia Tereszkiewica in una intervista ha dichiarato che la: "Prima volta che mi sono guardata allo specchio nemmeno ricordo che cosa ho provato. Di sicuro non era vergogna. Quella è arrivata dopo, sul set. Un’onda violenta di imbarazzo, e di paura del giudizio degli altri. Improvvisamente stavo male nel mio corpo. Era una sensazione inquietante". Ogni mattina per tutto il tempo di riprese del film si è sottoposta a quattro ore di trucco per diventare Rosalie. Alla regista, l'attrice chiedeva: "Lasciami piangere, le dicevo. Ho bisogno che Rosalie pianga". Ma a certo punto, come accadde a Rosalie, che nella realtà si chiamava Clementina, Nadia ha cominciato ad accettare la barba: "La sfoggiavo in mensa". Di Tereszkiewicz sentiremo molto parlare, a soli 24 anni è in grado di interpretare personaggi come questo molto complessi, tra le più talentuose della sua generazione, ha già vinto il César nel 2023 come attrice rivelazione grazie alla parte di Stella in Forever Young - Les Amandiers di Valeria Bruni Tedeschi. "Mi assegnano sempre ruoli che mi portano fuori dagli schemi: la pazza, la moglie che uccide tutti i suoi mariti, la babysitter a metà tra Lolita e Mary Poppins che ribalta i codici estetici. E la donna barbuta, certo". Trama del film: nella Francia rurale del 1870, Rosalie sposa Benoît, gestore di un caffè pieno di debiti. Lei omette di confessargli il suo segreto radendosi regolarmente. Ma la verità viene a galla. La donna diventa una creatura da disprezzare, poi da esibire, infine da amare.
lo so che dovrei smettere di mitizzare le persone con handicap ed considerarle come tutte le altre persone ( cosa che per me lo sono già ) come suggerito da ( vedere il caso ... ehm.... la storia di Giulia Ghiretti,Campionessa paralimpica con un palmares di 27 medaglie internazionali, un record del mondo nei 50 farfalla in vasca corta e un titolo mondiale nei 100 metri rana e ci cui ho parlato nel 58 della rubrica diario di bordo ) . Ma fin quando in italia l'handicap in particolare la sindrome di down e simili ( autismo , iper attività , ecc ) sono visti con stereotipi e luoghi comuni i principali descritti in : MI GIRANO LE RUOTE ( sotto a sinistra la copertina ) di Angela Gambirasio - Voltalacarta Narrativa non fictionASIN B0136H67NM cartaceo 11,90€ | Ibs ., ebook 2,99€ | Amazon
Io sono handicappata: questa è l’unica cosa sulla quale tutti concordano. Beh, magari poi i normodotati mi definirebbero “disabile” o “diversamente abile” più che handicappata, ma le definizioni politicamente corrette non hanno mai cambiato la sostanza. Al di là di questo, io ho idee diverse dagli altri su come condurre una vita da una sedia a rotelle. Da sempre medici, giornalisti tuttologi e buona parte della società provano a spiegarmi come dovrei definirmi, comportarmi e vivere, insomma, quello che ci si aspetta da gente come me. Mi attribuiscono la sessualità di un angelo, pensano che stia chiusa in casa a lacrimare sulle mie sciagure o magari a pregare affinché qualcuno, lassù, ponga fine a una vita irrimediabilmente infelice. Beh… ho sempre deluso le aspettative altrui, soprattutto quelle schifose. Così ho deciso di raccontarvi la tragicomica realtà di una come me, che vive tra barriere architettoniche e mentali. Come faccio ad andare avanti pur non potendo camminare? Semplice: rotolo!
Ma davanti a tali storie come questa riportata sotto non riesco a a considerare ( e è per questo che ho perso molte amicizie con persone disabili o sono in pessimi rapporti con loro ) le loro vicende con una perifrasi da una storia sbagliata di De andrè vioè : storie speciali per gente normale storie normali per gente speciale
Giada Canino, 18enne con sindrome di down di Calolziocorte in provincia di Lecco, è una campionessa italiana e regionale di danza paralimpica. La sua passione è da sempre ballare e sui suoi profili social è solita pubblicare video in cui si esibisce.È stata spesso presa di mira da molti bulli ed haters, i quali hanno scritto sotto ai video frasi come “sembri ubriaca” o “non sai ballare”, e altri insulti. Ma la 18enne non si è mai arresa e da poco è stata convocata dalla Federazione italiana, come riporta il “Corriere della Sera”: rappresenterà il nostro Paese ai Giochi mondiali invernali Special Olympics 2025, nella danza sportiva, più specificatamente nella categoria hip hop, che si svolgeranno dal 6 al 17 marzo.La Federazione ha convocato in totale altri otto ballerini che si sfideranno contro più di 1000 danzatori provenienti da 103 Paesi in tutto il mondo. Ecco cosa ha raccontato Giada dopo aver saputo della convocazione: “Quando è arrivata, quasi non riuscivo a crederci. Mi impegnerò al massimo, orgogliosa di rappresentare il mio Paese, ma il ringraziamento più grande va ai miei genitori per tutto quello che fanno per me”.
Dagli allenamenti alla convocazione per i Mondiali Invernali 2025
Giada Canino ha iniziato a ballare fin da piccola e ha iniziato a praticare hip hop a livello agonistico nel 2018. Tesserata per la società Rosy Dance di Villongo, in provincia di Bergamo, assieme a Giada sono stati convocati altri due ballerini e amici con cui si allena, Andrea Tomasoni e Stefano Brevi. Ecco il messaggio della convocazione per i Giochi mondiali invernali 2025 inviata dal comitato Special Olympics Italia, come riporta “LeccoToday”:
Carissimi, siamo veramente felici di comunicarvi la convocazione dell’atleta Giada Canino, appartenente al team Rosy Dance in qualità di atleta titolare nella disciplina della danza sportiva per i prossimi Giochi Mondiali Invernali di Torino. Siamo certi che un così grande evento segnerà il coronamento del percorso svolto in questi anni dall’atleta e sarà fonte di grande soddisfazione per la sua famiglia e per tutto il suo team.
La danza, una passione che le scorre nel sangue fin da quando è piccola. Così decide di riprendersi mentre balla alcune coreografie e di pubblicarle, poi, su TikTok. Ma la reazione degli utenti non è quella che aveva immaginato. Molte persone hanno iniziato a giudicarla per il modo in cui danzava, ma lei non si è mai arresa e ha continuato a portare avanti il suo sogno. E adesso rappresenterà l'Italia nella danza sportiva, categoria hip hop, ai mondiali invernali Special Olympics 2025. Questa è la rivincita di Giada Canino, una ragazza di Lecco di 18 anni con la sindrome di Down, che ha raccontato la sua storia al Corriere della Sera: «Sui social mi hanno presa in giro per come ballavo, vomitandomi addosso una valanga di insulti. Dicevano che sembravo ubriaca. Ora rappresenterò l’Italia ai Giochi mondiali invernali Special Olympics 2025, nella danza sportiva, categoria hip hop. E lo farò con grande orgoglio».
La storia di Giada
Ha scoperto la sua passione per la danza da piccola, quando ha iniziato a imitare le Veline in tv. Da quel momento ha iniziato a prendere lezioni di danza, arrivando a prendere lezioni a livello agonistico. Degli allenamenti che sono riusciti a farla diventare campionessa regionale e italiana di danza paraolimpiaca. Poi ha aperto un profilo di TikTok, che adesso conta più di 23mila follower. Una notorietà che l'ha portata a essere presente in un filmato insieme ai giocatori del Milan (la sua squadra del cuore) e a esserci anche al Memoriale della Shoah con il ministro Piantedosi, la senatrice Liliana Segre e il capo della polizia Pisani, durante l’evento organizzato dall’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori. Insomma, Giada con il suo
I Giochi mondiali Special Olympics 2025
I Giochi mondiali Special Olympics si terranno il prossimo anno, dal 6 al 17 marzo a Torino. Per prepararsi a inizio settembre parteciperà agli allenamenti con la squadra Nazionale, ai quali parteciperà insieme ad altri due ballerini della squadra paralimpica della Rosy Dance di Villongo: Stefano Brevi e Andrea Tomasoni. «Sono miei amici, sarà meraviglioso condividere questa esperienza con loro - ha dichiarato la ballerina - quando è arrivata la convocazione della Federazione quasi non riuscivamo a crederci».
"Ciò che conta è trovare il coraggio di rialzarsi e andare avanti, non importa quante volte la vita ci abbatterà. "
Charles Bukowski
Avendo sostenuto non ricordo con precisione quale causa umanitaria del giornale ho ricevuto un abbonamento gratuito ad avvenire.it da cui ho tratto queste due storie piene di speranze e voglia di rincominciare come quella che sto afffrontando e di cui ho una delle rara volte, parlato nel n 56 di questa rubrica : << dopo aver attraversato la tempesta e ritornata la paura ma sono riuscito ad affrontarla con consapevolezza>> forse perche come la protagonista ( e per altri motivi personali ed familiari ) del primo articolo ho difficoltà a esternare le mie emozioni .
La prima storia è quella di Giulia Ghiretti,Campionessa paralimpica con un palmares di 27 medaglie internazionali, un record del mondo nei 50 farfalla in vasca corta e un titolo mondiale nei 100 metri rana, con il quale si presenterà a settembre a Parigi nei XVI Giochi paralimpici estivi sotto le insegne della Polizia di Stato, Giulia Ghiretti si racconta ad Avvenire: « Le persone disabili vanno trattate come tutte le altre. Uguale. Non mi va che mi mettano su un piedistallo, o che esaltino i miei risultati in quanto disabile». 27 medaglie e un record del mondo in vasca corta. Sarà a Parigi, ma anche in tante scuole a raccontare la paralisi dopo una caduta e la rinascita
la
Non smette mai di sorridere, Giulia. Ogni risata scuote la massa di capelli ricci, nel verde del cortile della sua casa in una frazione di Parma che è già
campagna. « Non potrei mai vivere in città – dice -. Questo è il mio mondo». Un mondo apparentemente confinato nella villetta in cui vive con la famiglia, a fianco del casale agricolo in cui abita la nonna.
Solo apparentemente, però. Campionessa paralimpica con un palmares di 27 medaglie internazionali, un record del mondo nei 50 farfalla in vasca corta e un titolo mondiale nei 100 metri rana, con il quale si presenterà a settembre a Parigi nei XVI Giochi paralimpici estivi sotto le insegne della Polizia di Stato, Giulia Ghiretti vive tra aerei da prendere, gare da affrontare, allenamenti quotidiani da onorare. E poi gli incontri nelle scuole, che negli ultimi anni si sono moltiplicati. Perché lei ha la sua storia da raccontare: quella di una ragazza di 16 anni, giovane atleta promettente, che in un giorno di gennaio del 2010, durante il primo allenamento dopo le feste di Natale e poco prima dei Mondiali a cui era attesa, prende letteralmente il volo sul tappeto elastico, la sua specialità, atterra di schiena e si frantuma una vertebra. Intervento, mesi di terapia. La certezza che non tornerà mai più a camminare. La carrozzina che diventa il suo “fine pena mai” (anche se lei questa espressione non la sottoscrive, perché la sedia con le ruote non l'ha mai vissuta come una prigione). E poi la scelta di tornare a fare agonismo. In piscina, però, dove si sente libera. Da allora è stato un crescendo: oltre 60 titoli italiani, un primato mondiale, titoli europei e iridati, due argenti e un bronzo tra i Giochi di Rio e Tokyo.
Giulia, la tua vicenda è diventata anche un libroSono sempre io(Piemme, 208 pagine). Quando hai pensato di volerlo scrivere?
Non ho mai voluto! Mi ha convinto Andrea (Del Bue, giornalista e amico del cuore di Giulia, firma con lei il libro, ndr). Non mi piace parlare di me. La svolta è stata con il Covid: chiusi in casa, ne abbiamo avuto il tempo.
Lo scorso febbraiohai compiuto 30 anni. Che effetto ti ha fatto?
Traumatico. Mi sembra di non aver realizzato nulla. Di essere un po’ in ritardo.
In ritardo? Hai completato la laurea magistrale in ingegneria biomedica al Politecnico di Milano, hai vinto decine di medaglie tra Olimpiadi e competizioni mondiali...
Sì, è vero. Però dentro di me, la mia vita personale, intima, mi sento in ritardo.
Da anni giri per le scuole a testimoniare che la disabilità non limita la vita. Cosa ti piace di più dell’incontro con i bambini e i ragazzi?
Mi piace la loro spontaneità. Mi chiedono cose come: entri in acqua con la carrozzina? Perché ti metti i pantaloni se non senti le gambe? Non potresti tagliarti le gambe e metterti le protesi? I bambini non avvertono barriere. A loro cerco di trasmettere l’idea che i disabili possono fare le stesse cose dei normodotati, in modi diversi. L’importante è avere la curiosità di conoscere chi è diverso da te, così ti fa meno paura. La disabilità spaventa, sì, ma solo perché non la si conosce.
Il titolo del tuo libro è "Sono sempre io":Giulia, davvero sei rimasta la stessa che eri prima dell’incidente?
Sì, e sai perché? Perché non ho abbandonato i miei sogni. Anzi, ne ho fatti di nuovi. Per me è un sogno tutto ciò che è successo in questi anni: le Olimpiadi, i Mondiali, conoscere il presidente della Repubblica, presentare la candidatura di Parma come città italiana della Cultura… A volte penso: cos’ho fatto per meritarmi tutto questo?
Diciamo che hai trasformato la disabilità di forza. Non è poco. Pensi che grazie ai tuoi incontri nelle scuole chi ti ascolta cambi lo sguardo?
Sì, un po’. Vedo che si instaura un clima di confidenza e sono spesso i ragazzi a chiedermi come è giusto comportarsi con chi è nella mia condizione.
Per esempio, cosa non bisogna fare?
Be’, le carezze sulla testa, gli abbracci non richiesti. In generale, è semplice: le persone disabili vanno trattate come tutte le altre. Uguale. Non mi va che mi mettano su un piedistallo, o che esaltino i miei risultati in quanto disabile. Quelli che ti dicono: che brava, ma come fai... Per quanto mi riguarda, amo conservare una mia normalità.
Non ho mai abbandonato i miei sogni
Sento una responsabilità verso gli altri
Da questa carrozzina posso costruire qualcosa
Forse è questo il senso di quello che mi è successo
Dopo l’incidente hai scelto di dedicarti al nuoto paralimpico.Perché?
L’acqua è libertà. In piscina per la prima volta dopo l’incidente ho avuto piena consapevolezza del mio corpo. Fuori dall’acqua sto sempre appoggiata a qualcosa, le mie gambe pesano molto ma non ne ho la percezione. In acqua non conta più nulla, le gambe seguono docilmente i movimenti del corpo.
Senti mai di avere dei limiti?
I limiti sono fisici. Un gradino, una scala, per me sono oggettivamente altrettanti limiti, perché da sola non li posso oltrepassare. I limiti sono tutti fuori da me, o in certe mentalità che escludono i disabili. Per il resto, più che limiti io dico che esistono obiettivi.
Nel libro scrivi che quando sogni te stessa, ti vedi in piedi.Che sensazione provi?
È difficile da spiegare: sono in piedi, però magari in un punto dove c'è la ghiaia e faccio fatica a muovermi. È una situazione irreale eppure vera: oggi con la carrozzina sulla ghiaia non mi muovo.
Pensi mai che un giorno, grazie ai progressi della scienza, della medicina e della tecnologia, potrai tornare a camminare?
Quando mi sono fatta male mi dicevano che in un decennio ci sarebbero state strabilianti novità. Ne sono trascorsi 14. Uso l’esoscheletro per la fisioterapia, ma non c’è paragone con la mobilità che mi garantisce la mia carrozzina.
Nel tuo libro scrivi anche che non sai dire ti voglio bene, nemmeno a tua sorella a cui sei legatissima. Come mai?
Perché non riesco a esternare i miei sentimenti. Mi considero una persona molto riservata, a volte posso sembrare fredda e lontana. Ma a me gli abbracci piacciono tantissimo, ci sono dei momenti in cui ho bisogno del calore umano. Però ecco, i gesti sono una cosa, le parole un’altra.
Amore?
Storie sentimentali ne ho avute, ma non è facile, mi accorgo che la disabilità fa paura. Io voglio un amore come un film, ma è difficile... Poi più cresci più diventi esigente. Lo dicevo all’inizio no, che mi sento in ritardo?
Sei cresciuta in oratorio, ma poi ti sei allontanata. Cosa è successo?
Dopo l’incidente andavo a Messa e le persone venivano intorno a me, mi accerchiavano e mi sono sentita a disagio. Era il loro modo per farmi sentire la vicinanza, ma alla fine scappavo via prima che la funzione finisse. Adesso per me essere credente è voler bene e accogliere gli altri.
A fine estate parteciperai alle Paralimpiadi di Parigi, ci arriverai da campionessa in carica. Comela vedi?
Sarà molto difficile. Ho il terrore delle due atlete cinesi con le quali mi sfiderò, perché non sai cosa fanno durante l’anno, non le conosci, spuntano fuori solo alle Olimpiadi.
Insomma, nuoterai per difendereil tuo titolo?
Ora sulla carta ho il primo tempo, però so che alcune delle mie avversarie sono molto più veloci di me. Quindi, no, non mi sento una inseguita ma ancora una inseguitrice.
Che cosa ti ha regalato fare il tuo record personale nei 100 rana in finale a un Mondiale?
Una gioia indescrivibile. Ma non per il record in sé, quanto per l'idea di avere ogni volta la possibilità di superare i miei limiti. E poi, la scarica di adrenalina...
C’è una donna a cui ti ispiri?
Mia mamma. Su certe cose siamo molto simili. L’intuizione, ad esempio. Capire i bisogni degli altri senza nemmeno che li esprimano. La praticità: sa sempre cosa bisogna fare. Dopo l’incidente a un certo punto ha detto: be’ io adesso dormo due ore perché da domani ci saranno un sacco di cose da fare.
Com’è stata la tua adolescenza?
Io l’adolescenza è come se non la avessi vissuta. A 16 anni ho avuto l’incidente per cui ho dovuto reimparare tutto. Era tutto nuovo.
Hai trovato un senso in ciò che ti è successo?
In realtà non me lo chiedo nemmeno. È successo, pura sfiga. L’unica cosa che mi domando è se posso essere utile a qualcuno, se questa sfiga può dare un frutto. Se la risposta è sì, allora forse questo è il senso.
Tu sei un’atleta, sei una sorella, una figlia, una ingegnera. Tanti ruoli insieme, come ciascuno di noi. Ma Giulia davvero chi è?
Sono una ragazza che ama sfidare i suoi limiti. E che però ha le sue paure, che talvolta vorrebbe chiudere il mondo fuori e fermarsi. Ma che sente di avere responsabilità nei confronti degli altri. Mi chiamano frequentemente a parlare della mia vita, delle mie esperienze e in alcuni casi saltano fuori curiosità su cosa c’è dietro, nella quotidianità, a una persona con disabilità. Vuol dire che trovano qualcosa di bello e di buono in me. Vuol dire che anche io, da questa carrozzina, posso costruire qualcosa.
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La seconda è inve e lastoria di Bahara una ragazza Afgana , una sintesi nel video sotto , che Ha lasciato famiglia e cuore nel suo Paese ( nella foto sotto a sinistra una png da avvenire del 26\6\2024 sulla situazione in Afganistan ) diciannove anni, afgana, avrebbe dovuto sposare un talebano sessantenne, grazie ai corridoi umanitari venerdì sera è arrivata in Italia...
Il suo nome significa "primavera", ha 19 anni e avrebbe dovuto sposare un talebano sessantenne. Ora è in Italia, vuole aiutare «le donne afghane a sentirsi libere come mi sento io adesso»
È dentro un frullato di emozioni e un altro lo ha dentro. Si chiama Bahara, che in afghano significa primavera, ha 19 anni, non è potuta più andare a scuola da mille giorni, avrebbe dovuto sposare un talebano 60enne. Scende dall’aereo, a Roma, felicemente stanca e spaesata, un misto di gioia, paura, stanchezza. È incredula, le ci vorrà un po’ per capire che non sogna e non lo nasconde: «Se qualcuno mi avesse detto un anno fa che adesso sarei stata qui in questa situazione, non ci avrei creduto, perché non avrei mai pensato di avere questa forza interiore che mi ha portata a superare tutto quel che ho dovuto superare». Allora adesso, in questo aeroporto, libera, si guarda indietro e «mi emoziono per essere riuscita a farcela nonostante tutto».
(Grazie ad Arianna Briganti, vicepresidente di "Nove Caring Humans", per la traduzione)
Va avanti. «Penso alle brave persone – dice -. Alle brave persone che sono venute in mio aiuto. Penso a loro, quando penso alla parola amore». Sistema il velo sui suoi capelli. Sorride. Le danno un pasto e dell’acqua. Le tiene la mano e la coccola Arianna Briganti, vicepresidente dell’associazione Nove Caring Humans, che seguirà Bahara nel suo futuro italiano e l’aspettava con un borsone: «Bahara non ha nulla, nemmeno vestiti», spiegava Arianna, prima che la ragazza s’affacciasse nel terminal tenendo fra le mani giusto uno zainetto, sola, in un Paese che per lei dev’essere qualcosa simile alla luna.
Non è arrivata in Italia da sola, sul volo da Islamabad atterrato venerdì sera al “Leonardo da Vinci”, con lei c’erano altri 190 profughi afghani (fra loro, 71 minorenni e 70 donne), che erano rifugiati in Pakistan dall’agosto 2021. Qui grazie ai corridoi umanitari promossi dalla Conferenza episcopale italiana (attraverso la Caritas), Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese, Arci e d’intesa con i ministeri dell’Interno e degli Esteri.
Bahara ha lasciato in Afghanistan cuore e famiglia e non è stato facile. Ma non le sembra vero che ora «posso studiare, vestire come voglio, uscire quando voglio, essere libera». Il volo dal Pakistan è durato cinque ore e mezza, ha avuto tempo per riflettere e «mi sono messa a pensare a settembre, a quando sarò in classe, a come farò a diventare una studentessa modello e poi una donna che lavora, di quelle molto in gamba, molto capaci», quindi «mentre volavo pensavo a come farò a eccellere nello studio e nel lavoro».
Ne ha passate tante, troppe in 19 anni, però nemmeno ha mai pensato d’abbattersi, arrendersi, né ha mai vacillato ciò in cui crede o la sua speranza. E se adesso è felice, «continuo a sentirmi anche estremamente triste per quello che succede alle donne afghane nel mio Paese – racconta -. Non possono uscire di casa, sono costrette a umiliazioni di tutti i tipi, a matrimoni forzati». Perciò – ripete spesso Bahara - «quel che voglio fare è essere libera, ma anche aiutare le donne afghane a liberarsi come mi sento io adesso».