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18.2.23

Marcella Di Levrano, la storia di una donna che si ribellò alla mafia e di Melissa Bassi uccisa in attentato ed altre storie


In attesa delle  rituali    celebrazioni   del  8  (  festa  della  donna  )   e  del  21 (  giornata   delle  vittime  delle mafie  )  marzo  piuttosto e tanti spiegoni e tanta retorica , ed BLA ... BLA sul vicino 8 marzo preferisco raccontare anzi riportare questa storia . Perchè non fra le vittime di mafia e di collaboratori di giustizia si parla ( eccetto i casi eclatanti di : Piera Aiello , della sua cognata Rita Adria , Lea Garofalo ) si parla solo al maschile .Cosi pure    in ambito  della legalità    Infatti : << C’è la necessità di invertire la rotta rispetto alla memoria di Marcella, negli anni sempre un po’ bistrattata, - dice il poliziotto Roberto Belfiore, vicepresidente del Sap di Mesagne - quindi abbiamo scelto Marcella come simbolo di rinascita e della memoria, e abbiamo scelto di farlo con Libera perché a Mesagne rappresenta il riscatto sociale dei mesagnesi” prosegue Roberto Belfiore. “Masseria Canali è il luogo in cui la mafia ha perso e ha vinto lo Stato. Bisogna continuare a lavorare affinché le prossime generazioni possano sempre godere di una società libera>> ( da “Marcella Di Levrano deve tornare a casa”, la lotta di Libera, della Polizia di Stato e del Sap di brindisireport.it).
settimanale   giallo   in edicola  la  prima  

Caduta nella spirale della droga, si era legata alla Sacra Corona Unita, perciò i servizi sociali le portarono via la figlia appena nata. Il dolore fu tale che si disintossicò e poi rivelò ciò che sapeva dei loschi traffici dei padrini. Fu rapita e ammazzata a pietratrate  

di   Silvana Giacobini giornalista e scrittrice

Questa di Marcella è la storia vera di una giovane donna di 26 anni, che scomparve senza lasciare traccia l’8 marzo 1990 e fu ritrovata senza vita da un agricoltore il 5 aprile. Era nascosta sotto un mucchio di erbe e foglie secche nel bosco dei Lucci tra Brindisi e Mesagne. Aveva il corpo martoriato, il bellissimo volto sfigurato e reso irriconoscibile da colpi e colpi di un masso con cui gliel’avevano maciullato. Perché? Non solo aveva tutto l'aspetto di una vendetta tribale, il suo omicidio era il simbolico e terribile monito a chi avesse voluto mettersi contro la Sacra Corona Unita, l’organizzazione criminale che controllava i traffici illegali del territorio pugliese. I suoi “nemici” dovevano perdere non solo la vita ma anche l’identità del volto, essere cancellati dalla faccia della terra, e lei, Marcella Di Levrano, si era messa contro la Sacra Corona Unita dal 1987 collaborando con la squadra mobile della Questura di Lecce. Da tre anni era una referente della polizia. Marcella era stata contigua a quegli ambienti criminali e la conoscenza delle ritorsioni senza pietà dei clan rese ancora più encomiabile il suo coraggio di prenderne le distanze, anche perché in quegli anni non esisteva nessun vantaggio per i collaboratori di giustizia, nessun beneficio. La scelta coraggiosa Marcella l’aveva fatta per rifarsi una vita, e soprattutto, per ritornare ad essere una mamma degna di crescere la sua piccola Sara che i servizi sociali avevano allontanato da lei. L’attesa della famiglia di Marcella Di Levrano è durata trentadue anni, tanti ne sono dovuti trascorrere dal 1990 al 2022 per vederla riconosciuta dallo Stato “vittima innocente di mafia”. A sottolinearlo è stato l’avvocato Fernando Orsini di Mesagne che iniziò ben presto a seguire la vicenda umana e giudiziaria del riconoscimento. Torniamo quindi indietro nel tempo, agli anni ’80 e ’90, in cui la Caduta nella spirale della droga, si era legata alla Sacra Corona Unita, perciò i servizi sociali le portarono via la figlia appena nata. Il dolore fu tale che si disintossicò e poi rivelò ciò che sapeva dei loschi traffici dei padrini. Fu rapita e ammazzata a pietrate NEL 2022 È STATA RICONOSCIUTA COME VITTIMA INNOCENTE DI MAFIA MARCELLA PER AMORE DELLA SUA BIMBA
 IL SUO MURALE Mesagne (Brindisi).

Il murale dello street artist Frank Lamar intitolato nel 2021 a Marcella Di Levrano, raffigurata giovane e bella mentre chiede l’aiuto di tutti per fermare la ma!a. criminalità organizzata sfruttava il territorio brindisino per i suoi traffici di armi e prostituzione e spaccio di droga. Marcella Di Levrano aveva annotato su una agendina le sue conoscenze , con nomi, cognomi, alleanze, azioni malavitose. Ciò che aveva riportato segretamente negli appunti della sua piccola agenda e poi raccontato alla squadra mobile, la resero così scomoda e pericolosa per l’organizzazione criminale della SCU, la Sacra Corona Unita, tanto da decretarne il sequestro e la condanna a morte da eseguire con un crudele pestaggio.

 Marcella era nata il 18 aprile 1964, seconda di tre sorelle. La madre Marisa Fiorani era una donna forte e quando Marcellina aveva quattro anni, prese la decisione di allontanarsi dal marito violento che la metteva in pericolo insieme con le piccole figlie. Si trasferirono così da sole a Torchiarolo, un paesino nella provincia di Brindisi. Prima della classe alla scuola media, Marcella era una studentessa brillante e aveva scelto di proseguire gli studi a Brindisi frequentando l’Istituto Magistrale. Sognava di diventare insegnante e formarsi una famiglia felice tutta sua. Le foto ritraggono la bellezza e la delicatezza dei lineamenti della giovane donna e spiegano perché fosse molto corteggiata. Al secondo anno delle Magistrali fatale fu la frequentazione di giovani malavitosi che trasformò in incubo i suoi sogni perché Marcella cadde nel circolo vizioso della droga #no a diventarne dipendente. Le dosi costavano ed era sempre più difficile trovare i soldi e così Marcella per procurarsele stringeva sempre di più i rapporti con i giovani boss della Sacra Corona Unita. La madre Marisa e le sorelle lottavano per salvarla dalla dipendenza, ma Marcella dopo periodi di astinenza tornava di nuovo ad essere schiava dell’eroina. Rimasta incinta, per salvare la creatura che portava in seno cercò di disintossicarsi, ma era un  piccola Sara e Marcella, che non poteva contare sull’aiuto del padre biologico della bambina, aspirava a crescerla da sola, ma i suoi trascorsi di tossicodipendente indussero i servizi sociali ad allontanare la piccola dalla madre. Per Marcella fu uno strappo molto doloroso e così la giovane donna intraprese il viaggio più pericoloso, cominciò a staccarsi dall’ambiente dei clan della Sacra Corona Unita mentre cercava di liberarsi definitivamente dall’eroina. Ci furono i primi prudenti contatti con la polizia da parte di Marcella Di Levrano, decisa a rifarsi una vita come quella che da ragazza aveva sognato, e cioè prendersi il diploma, trovare un lavoro e farsi una famiglia riportandosi a casa la sua Sara. Una possibilità concreta per realizzare finalmente tutto questo, si profilò con la collaborazione con gli inquirenti della squasdra mobile della Questura di Lecce. Se per Marcella Di Levrano pesava un passato di tossica e doveva combattere contro i pregiudizi della gente, aveva però un capitale ed era quella piccola agenda dove aveva annotato tutto ciò che pensava fosse importante, i nomi dei componenti dei clan con i loro crimini sommersi, i carichi di droga e i loro spacciatori, il traffico di armi e la loro provenienza. Se l’avesse trasferito in Questura a chi di dovere poteva essere la sua àncora della salvezza. Marcella avrebbe dimostrato così che l’onestà non se l’era dimenticata, che era davvero cambiata anche se la paura della ritorsione era enorme. Arriviamo così alla data che segnò la "ne per Marcella, l’8 marzo 1990. Che fosse il giorno della Festa Internazionale della Donna rende ancora più infame il suo sacrificio, condannata a diventare vittima del disprezzo per la sua vita di donna e di madre da parte dei sicari della SCU.
La sequestrarono e la massacrarono di botte. Fu una vera e propria esecuzione compiuta a colpi di pietra anche sul volto per distruggerglielo e farla soffrire fino all’ultimo spasmo di vita. Non sono mai stati inquisiti e giudicati i mandanti e gli esecutori del suo assassinio, anche se per l’avvocato Orsini che si è occupato del caso di Marcella Di Levrano, erano attendibili le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia.  Del suo status di vittima innocente di mafia, la cui richiesta di riconoscimento è stata respinta per due volte dal Ministero dell’Interno, se n’è occupata anche la Vicepresidente di “Libera”, Enza Rando. Fondata da don Luigi Cio!i, l’Associazione aveva incluso dal 2014 il nome di Marcella Di Levrano nell’elenco delle vittime innocenti delle mafie che il 21 marzo di ogni anno vengono nominate nelle piazze italiane in loro ricordo. In primo piano, però, sostenuto proprio da Libera, c’è sempre stato l’assiduo impegno della madre di Marcella, Marisa Fiorani, che per decenni come una leonessa non ha mai abbandonato l’aspirazione e la lotta perché fosse onorata dallo Stato la memoria della #glia. È importante perciò ricordare le parole stesse di Marisa Fiorani che valgono come monito: «Spero di sapere tutta la verità, anche se cinque pentiti hanno raccontato chi e perché mi ha strappato mia #glia. Per un processo è troppo tardi ormai, ma per la Verità, no». E ha aggiunto: «Mi fa piacere il riconoscimento di mia #glia. Mi dà la speranza che si possa cambiare».


la seconda  

 da   Nove anni fa l'attentato a Brindisi: "Melissa viva nei nostri ricordi" (brindisireport.it)


RINDISI - Nove anni sono trascorsi dall'attentato alla scuola Morvillo Falcone. Stamattina (mercoledì 19 maggio), nell'anniversario di quel tragico giorno, una cerimonia in memoria di Melissa Bassi, studentessa uccisa dall'esplosione, si è svolta presso l'istituto di via Galanti. Presenti all'evento i genitori di Melissa e le massimi istituzioni locali. Nel video servizio,[  non sono  riuscito  a  copiarlo     lo  trovate  sul sito    citato ] le interviste alla preside, Irene Esposito, alla madre e al padre di Melissa, al sindaco di Brindisi, Riccardo Rossi, e a Massimiliano De Giorgi, presidente dell'associazione "Legalità e Sicurezza", che ogni anno organizza il memorial Melissa Bassi.   




Mentre  concludevo    questo  post  ho  scoperto  questa  storia 



Francesco Panzera, il prof calabrese che ha combattuto la mafia a scuola. Ed è stato ucciso per questo

L’insegnante calabrese fu ammazzato nel 1982 perché cercava di


proteggere i suoi alunni e di allontanarli dalle attività delle cosche. Ma sono proprio gli studenti, talvolta, a chiedere aiuto per affrancarsi da famiglie legate alla ’ndrangheta


«La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari». Lo disse lo scrittore Gesualdo Bufalino, dopo la morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La scuola e la cultura fanno paura alle mafie, perché rendono più robusti i ragazzi contro ogni forma di prevaricazione, soprattutto in quelle zone dove il familismo crea una rete pericolosa e omertosa, dove i pochi rischiano di diventare nessuno. Perché si sa, la ’ndrangheta è una bestia che si vuole alimentare in silenzio. Giovanni Falcone raccontava quanto pesasse l’impianto familiare nelle organizzazioni criminali per mantenere integra l’immagine e la reputazione. Un ricatto molto difficile da cui affrancarsi, figuriamoci per un ragazzo a cui insegnano che «la famiglia viene prima di tutto, a prescindere da tutto». Anni fa fece notizia un liceo di Rosarno in cui gli studenti decisero di prendere le distanze dalle famiglie ’ndranghetiste. Il merito di questa rivoluzione culturale fu anche della dirigente scolastica Mariarosaria Russo che decise di gettare semi di legalità nella sua scuola. Uno studente appartenente alla famiglia Pesce di Rosarno, durante un’assemblea nel 2017, chiese coraggiosamente ai magistrati Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino in visita a scuola: «Come devo comportarmi per compiere un percorso di legalità? Devo rinnegare la mia famiglia?». I magistrati risposero che prendere le distanze da un familiare non vuol dire prendere le distanze dall’amore filiale, ma condannare la forma di illegalità. E qualcosa cambiò. «Sono stati gli studenti a rieducare le proprie famiglie e a non essere più coinvolti in quei circuiti di illegalità. Questo anche grazie alla collaborazione con diversi magistrati che hanno aiutato a far comprendere che anche per i figli dei boss ci sarebbe stata una seconda possibilità», racconta la preside. Insegnare è una missione, in casi come questi è una salvezza. Lo sapeva bene Francesco Panzera, professore di Matematica e vicepreside del liceo scientifico Zaleuco di Locri, una zona nota alle cronache per l’altissima incidenza criminale. La sera del 10 dicembre 1982 venne ucciso con otto colpi di pistola fuori casa a soli trentasette anni, dopo una gita in montagna. Contestava lo spaccio di droga che coinvolgeva i suoi studenti, fuori e dentro la scuola. Aveva osato ribellarsi al business in ascesa per le cosche: il traffico di droga. Voleva sensibilizzare i suoi ragazzi per proteggerli. Panzera era molto stimato, carismatico, poteva essere davvero ascoltato e diventare un disturbo per la ’ndrangheta: doveva essere fermato. Libera informa che circa l’80 per cento dei familiari di vittime non ha ottenuto una verità giudiziaria o ne ha una solo parziale, e molti di loro non hanno mai ritrovato il corpo di un figlio, di un padre, di un fratello. A quarant’ anni dall’omicidio del professore coraggioso di Locri non si conoscono i mandanti e gli esecutori del suo omicidio. Il liceo scientifico Zaleuco ha deciso di commemorarlo, insieme con i suoi ex studenti e i familiari, per dimostrare che più forte della morte è davvero l’amore per la verità e la giustizia.
Recuperare la memoria è l’unica arma da introdurre nelle scuole.



SITOGRAFIA  CONSIGLIATA



6.1.23

per l'ipocrita Diritto all’oblio dei mafiosi , la Rai spegne lo speciale Tg1 su Rita Atria

 Stavo  finendo    il post della nuova  rubrica    settimana incom  quando alla  lettura    dell'orripilante     notizia    della  censura   sulla  morte di Rita  Atria  ( vedere  articolo  sotto   e scheda  al lato   entrambi presi da IFQ del  5 Jan 2023    )   mi  chiedo  ma  il diritto  all'oblio  può evitare  di  cancellare  \ rimuovere   ma    in questa  caso  si parla  di censurare  la  storia   e  le storie  ?   Secondo me   si    se  si  fa   come suggerito   nell'articolo    sotto  o  quando  come  nel  caso  della sentenza  Ecn isole  della   rete     contro Caradonna   si    quando  si tratta   di   fatti storici   ancora  attuali   come   quello   della   coraggiosa   e  giovane  Rita Atria  


                             di   Stefano Caselli e Maria Cristina Fraddosio

Diritto all’oblio, la Rai spegne lo speciale Tg1 su Rita Atria

Il doc di Giovanna Cucè rimosso da Raiplay. Tre arrestati per mafia negli anni 90 minacciano richieste danni per 60 mila euro

FOTO ANSA
La testimone di giustizia Rita Atria morì a soli 17 anni una settimana dopo via D’amelio

La storia, struggente e importante, è di quelle che è bene continuare a raccontare. È la storia di Rita Atria che il 26 luglio 1992, a soli 17 anni, morì cadendo da un balcone del quartiere Tuscolano a Roma. La storia di una ragazza nata e cresciuta in una famiglia di mafia della provincia di Trapani che, dopo gli omicidi del padre e del fratello maggiore, decise di tagliare quel cordone ombelicale e di collaborare con la magistratura. La storia di una ragazza che Paolo Borsellino, che raccolse parte delle sue dichiarazioni, considerò come una figlia acquisita. La storia di una ragazza, prigioniera a Roma di un programma di protezione testimoni, che non sopportò la morte di quel secondo padre e che sette giorni dopo la strage di via D’amelio cadde nel vuoto dal settima piano di viale Amelia 23 a Roma.

Una storia che rischia di non poter più essere raccontata, almeno non nella forma scelta dalla giornalista Rai Giovanna Cucè, autrice dello speciale Tg1 Rita Atria, la settima vittima, trasmesso il 17 luglio in

un frame  della trasmissione  in questione 

seconda serata. Il programma, della durata di 58 minuti, è stato infatti rimosso da Raiplay a causa di alcune immagini di repertorio di una trentina di arresti (con manette pixelate), relativi alla cosiddetta “faida di Partanna” (di cui parlò proprio Rita Atria) su mandato dall’allora procuratore capo di Marsala Paolo Borsellino. Tre persone ritratte in questi filmati si sono sentite lese nell’immagine e hanno minacciato cause alla giornalista, alla direttrice del Tg1 e alla Rai per un totale di 60 mila euro. La Rai ha così deciso di rimuovere lo speciale in attesa del giudizio.

IL TEMA

è assai delicato perché riguarda il diritto all’oblio, civilissima e recente conquista, tuttavia in inevitabile conflitto con il diritto di cronaca. Gli arresti del novembre 1991 e del marzo del 1992 raccontano infatti una pagina importante di storia (oltre a contenere un inedito audio del super boss latitante Matteo Messina Denaro). Se aggiungiamo che uno dei ricorrenti è stato condannato in via definitiva per associazione mafiosa (il secondo è stato condannato in primo grado e assolto in appello, il terzo assolto in tutti i gradi) il tema si fa ancora più complesso. Possiamo forse immaginare un documentario sul maxiprocesso di Palermo senza le immagini dell’ucciardone?

Il rischio di creare un ingombrante precedente esiste. E una sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere come la prescrizione, che un articolo della riforma appena entrata in vigore considera titoli sufficienti per una richiesta di de-indicizzazione dei contenuto online ai motori di ricerca, può prevalere

sempre e comunque sulla cronaca e sulla storia? La Rai, nel dubbio, ha scelto la via breve. A quanto si apprende da fonti di viale Mazzini, il filmato sarebbe stato rimosso in via cautelativa poiché ritrae soggetti poi successivamente assolti (ma non solo, come sappiamo) e – soprattutto – perché per le stesse immagini (ma con manette non pixelate) l’azienda era già stata condannata alla fine degli Anni 90. UNA SOLUZIONE meno drastica come rimontare lo speciale eliminando le sequenze “incriminate” o oscurando i volti dei ricorrenti, avrebbe forse meglio conciliato il diritto all’oblio con quello di cronaca, ma per il momento non è stata presa in considerazione.  Il reportage di Giovanna Cucè ricostruisce il contesto in cui Rita Atria, originaria di Partanna (Trapani), divenne testimone di giustizia. Il contesto degli arresti è quello di una faida tra due clan, gli Ingoglia e gli Accardo, questi ultimi appartenenti al mandamento di Castelvetrano, al cui vertice c’era Francesco Messina Denaro, padre del noto latitante. Borsellino indagava sui delitti che stavano insanguinando Partanna, anche grazie alle testimonianze-chiave di due donne, Piera Aiello (ex deputata 5S) e Rosalba Triolo, e della minorenne Rita Atria. Il decesso della “picciridda”, come la chiamava Borsellino, è stato archiviato nel 1993 come suicidio. A distanza di 30 anni, la sorella Anna Maria (intervistata da Cucè) ha presentato un esposto alla Procura di Roma per chiedere che le indagini vengano riaperte.

Viale Mazzini: la replica Per gli stessi frame (ma con le manette a vista) l’azienda fu condannata in passato. Nel dubbio, non si aspetta il giudizio

9.3.14

( aggiornamento post ) Il racconto di una delle prime testimoni di giustizia al Carmine. «Io sono andata contro Cosa Nostra, ora mi sento felice» La vita di Piera Aiello , una donna antimafia

le mie  impressioni ed  il mio resoconto  su  il convegno

da  la nuova sardegna  del  9\3\2014  
Il racconto di una delle prime testimoni di giustizia al Carmine. «Io sono andata contro Cosa Nostra, ora mi sento felice» La vita di Piera, una donna antimafia
di Giuseppe Pulina 

TEMPIO “Una donna felice”, così Piera Aiello, una delle prime testimoni di giustizia della storia tutta italiana della lotta alla mafia, definisce se stessa. E lo fa, malgrado la non facile vita che le è toccato vivere, abbandonando la terra in cui è nata, la famiglia e gli affetti più stretti, lontana da tutto e da tutti con una bambina di tre anni da far crescere. Felice malgrado tutto e nonostante circostanze e fatti che avrebbero piegato la resistenza di tante altre comunissime persone. Così Piera Aiello è apparsa anche al pubblico che, al Teatro del Carmine, ha seguito l’incontro organizzato da Libera e Sardegna solidale, coordinato da Giampiero Farru, Maria Luisa Sari e Francesco Puliafito. Dopo i saluti di rito del sindaco Romeo Frediani e la presentazione del circolo locale di Libera da parte di Carlo Menicucci, intervistata da un gruppo di cinque studentesse delle scuole superiori cittadine, Piera Aiello è entrata nel merito di
Piera  Aiello  in una   trasmissione  televisiva
questioni, anche molto personali, che hanno fatto luce su diversi aspetti del sistema di vita legato alla mafia. Dalle sue parole si è capito che essere donna oggi e in determinati contesti sociali non è cosa indifferente. «Innamorata del figlio di un boss mafioso, cosa che ignoravo – ha dichiarato l’Aiello – ho scoperto di essere stata scelta come moglie del mio futuro marito proprio da mio suocero. Decisi di interrompere il legame, ma mi fu impossibile per le pressioni che ricevetti». Prima il suocero e poi il marito vennero uccisi dalla mafia. «Sola, senza un’amica del cuore, avevo soltanto i miei diari, su cui scrivevo tutto e in cui ho annotato dieci anni interi di storia della malavita». Diari i cui contenuti aveva ben memorizzato e che il giudice Borsellino, lo “zio Paolo”, come imparò a chiamarlo in seguito ad un affettuoso suggerimento dello stesso magistrato, seppe come usare in indagini che hanno messo a soqquadro l’organizzazione mafiosa. Alle studentesse che le hanno chiesto dei suoi rapporti con la cognata Rita Atria, Piera Aiello ha detto di essere stata fortunata ad averne fatto la conoscenza. «Rita, una piccola, grande donna, era più coraggiosa di me, perché lei, contrariamente a me, proveniva da una famiglia mafiosa che pure amava tantissimo. Separarsene fu per lei molto più doloroso. Anche se aveva solo 17 anni, le chiedevo consiglio. Quando posso, vado a Partanna per farle visita al cimitero». Tra le piccole, grandi battaglie di Piera Aiello, impegnata in questi giorni a far valere una legge che riconosca meglio la figura dei testimoni di giustizia da uno Stato che non sempre li tutela adeguatamente, c’è stata anche quella per la lapide da dedicare a Rita, un atto osteggiato a lungo dalla suocera. Vicina a don Luigi Ciotti e a Libera, Piera Aiello ha fatto sapere che l’ultima cooperativa giovanile che sta nascendo grazie alla legge 109 che autorizza la trasformazione delle proprietà sequestrate ai mafiosi in beni sociali si occuperà delle terre di Rita Atria. E questa è solo una delle tante, ma ancora insufficienti, misure che la miglior società civile del nostro Paese ha saputo ideare per colpire al cuore Cosa nostra.


8.3.14

finalmente un convegno sul 8 marzo non retorico . Piera Aiello a tempio p il 7\3\2014

canzone  consigliata  ed  in sottofondo   ROSE DI MARZO - casa del vento
                        ( l'unica foto concessami  dell'incontro   ) 
                           in quanto  Piera era presente   a  viso  scoperto 

Come dicevo dal titolo , ieri a tempio p , i presidi Rita Adria insieme alla sezione   locale  di sardegnasolidale hanno organizzato un" incontro preparatorio a quella che sarà a giornata nazionale del 21-22 marzo organizzata annualmente dall'associazione nazionale antimafia Libera qui.per dettagli della manifestazione
All'evento  è intervenuta Piera Aiello la prima testimone di giustizia donna d’Italia. Ha raccontato rispondendo alle domande degli studenti delle superiori la sua storia che trovate riassunta qui sotto . Il carattere fiero , determinato di questa donna forte può essere riassunto  sia da  :  











Dal  suo  in questo suo libro 








Il carattere fiero , determinato di questa donna forte può essere riassunto per chi non c'era in questa intervista rilasciata alla nuova sardegna del 7\3\2014 


                                   cliccate  sopra  per  ingrandirla

Grande e bella piera aiello . Mi spiace non potervela farla vedere in foto o video . Ma per la sua salvaguardia questo e altro . Ce ne fossero persone così coraggiose piene di vita . Infatti : << "Ma non tornerei mai indietro - ha affermato con orgoglio - E' un sacrificio che vale la pena di fare". Un messaggio fermo che ripete più volte come un mantra, insistendo che bisogna sempre "aiutare chi è in difficoltà perché è caduto nella rete". E le sue parole riescono a emozionare anche i più giovani. (ANSA) del 7\3\2014 >> Alla domanda, apparentemente semplice, fattagli avant'ieri a Porto torres durante l'incontro organizzato da L’iniziativa promossa da Libera Sardegna con il presidio Falcone e Borsellino di Porto Torres, è nata in collaborazione con la locale sezione del Centro servizi volontariato Sardegna Solidale «cos’è la mafia?», Piera Aiello ha risposto che non è solo un organizzazione criminale ma è proprio un certo modo di essere e che si sconfigge partendo da noi stessi, dalla mafia che è dentro di noi intesa come indifferenza nei confronti di chi è vicino a noi e che si trova in difficoltà.Parole grandi che risultano vissute fino in fondo da una donna che rivendica la sua “ribelle” semplicità, ma anche la sua coerenza. Lei racconta in breve la sua storia e risponde alle domande che spesso sono ricorrenti. “Non ha paura?” e lei con tutta la serenità di chi ha potuto farsi una seconda vita, pur con tutte le difficoltà di vivere da vent'anni sotto copertura, risponde: ”Io da ventitré anni quasi sono testimone di giustizia e da allora 'li aspetto'.. prima o poi tutti dobbiamo morire ed io lo farò  senza essermi girata dall'altra parte... io ho respirato quell'aria fresca di libertà che un Totò Riina



























ancora  oggi  con il suo potere e il suo 'fascino televisivo' da mafioso, in una prigione di un metro quadro non può avere... Non dobbiamo mai rassegnarci, dobbiamo sempre cercare la verità, informarci". Un incontro quello di tempio pausania     che Chi aveva dei dubbi gli ha sciolti chi aveva certezze le ha rafforzate . Grazie piera mi hai tirato su il morale e ridato fiducia.Grazie a piera ed a libera ho. Capito ulteriormente la differenza tra testimoni e collaboratori di giustizia . Sono riuscito a stringerle la mano ed a salutarla e non potendo come già dicevo prima , riportare nè foto nè video ,   porto a  voi la  sua stretta   di mano  con   questa  foto  qui  a sinistra  ,  in formato  png presa da  questo canale  di  youtube , per parafrasando  il famoso   sceneggiato televisivo (1984),prodotto dalla Rai per la regia di Luigi Comencini, interpretato da Johnny Dorelli  e poi  un anime degli anni 80    tratti  dal    romanzo Cuore di Edmondo De Amicis. ( per chi non lo conoscesse o l'avesse dimenticato   trova negli url maggiori dettagli .

In quanto  a  causa di  un regista  fetentee spregevole  , quello  del film   (  foto a destra  )  la siciliana  ribelle  e e del documentario  “Diario di una siciliana ribelle” (del 1998) l'ha  costretta  a rivivere  l'incubo ed  a rientrare nel  programma protezione  .
Qui  sotto  maggiori dettagli





SABATO 28 FEBBRAIO 2009
Il Film "la Siciliana Ribelle" non è la storia di Rita Atria

Mi chiamo Vita Maria Atria e sono la nipote di Rita Atria, Testimone di giustizia che il 26 luglio 1992, in un estremo atto di resistenza, si è lanciata dal settimo piano del civico 23 di viale Amelia a Roma. Nel '92 ero veramente piccola ma nella mia mente i ricordi sono vividi: lo "zio Paolo" [Paolo Borsellino], la zia Rita, la mamma [la Testimone di giustizia Piera Aiello] che mi chiedeva di non dire il mio nome, per la paura e il timore di essere scoperte.
Da quando sono maggiorenne ho continuato a vivere nell'anonimato e non avevo ritenuto opportuno fare dichiarazioni pubbliche, affidando il mio impegno e la mia scelta ad un gesto: essere tra i soci fondatori di una associazione dedicata a mia zia e lavorare dietro le quinte, anche perché sono una ragazza dalle poche parole e ho preferito finora stare nell'anonimato per poter vivere una vita tranquilla e "normale", sempre fino a quando è possibile. Oggi, mio malgrado, sono costretta ad affidare all'Associazione Antimafie "Rita Atria" (anche perché non lo posso fare direttamente vivendo in località segreta) un comunicato per esprimere in maniera netta e determinata la mia posizione sul film di Marco Amenta dal titolo "La siciliana ribelle", stanca di leggere sui giornali e sui siti web che "è rimasto toccato dalla vicenda", stanca di veder speculare sulla memoria di mia zia, una ragazzina-donna che ha avuto il coraggio di credere nei propri princìpi e di fare determinate scelte, a discapito di se stessa, perché credeva che ci potesse essere un mondo migliore al di fuori del "suo", un mondo onesto, ma a quanto pare si sbagliava. Al signor Amenta vorrei dire che se proprio ci tiene a mia zia allora perché da 12 anni non restituisce materiale privato che in buona fede gli era stato affidato per la produzione di quel film documentario ("Diario di una siciliana ribelle") che per noi alla fine ha rappresentato l'ennesima prova del fatto che nella vita interessano solo le vittime morte, persone che hanno servito lo stato e che ora finiscono nel dimenticatoio o, nelle migliori delle ipotesi, vengono ricordate solo per scopi che poco hanno a che fare con il fare memoria in modo disinteressato.
Nonostante il signor Amenta in presenza di testimoni avesse garantito che "Diario di una siciliana ribelle" sarebbe stato distribuito esclusivamente all'estero e nonostante avesse messo per iscritto che nel materiale filmato contenente immagini private dei miei familiari avrebbe alterato i visi e, inoltre, avrebbe reso irriconoscibile la voce e l'immagine di mia madre nell'intervista girata per il film documentario, non ha messo in atto quanto dichiarato sulla distribuzione esclusivamente estera, e non ha sufficientemente alterato visi e voci come sottoscritto.
Così facendo ha invece messo in serio pericolo me e mia madre.
Non mi interessa sapere se la storia di mia zia abbia toccato il signor Amenta, ma l'amore per una storia, per un impegno civile e morale, si dimostra con i fatti e non con la ricerca del successo, della gloria, degli applausi o della fama.
Non credo che tutto questo serva a ricordare mia zia (e soprattutto una trama che è molto lontana dall'essere la sua storia), ma serva solo per scopi economici e io questo non lo ritengo opportuno.
Spero che il signor Marco Amenta comprenda e accetti questa mia decisione, che viene dettata dal mio cuore e dal profondo amore e rispetto che nutro nei confronti della mia cara zia e della sua scelta.
Appunto, una scelta di resistenza.
                                          Vita Maria Atria

*********

Marco Amenta è riuscito, con i suoi potenti mezzi, a far bloccare in tempi da record su You Tube l'intervista a Piera Aiello e a Luigi Ciotti   che  trovate  nell'archivio   telejato  . Questa intervista è la versione censurata (solo per you tube) in cui Luigi Ciotti esprime la sua opinione su Marco Amenta rispetto alla precedente  .  Forse    togliendola del tutto l'avrebbe fatta  troppo sconcia 


 in cui raccontavano di certo cose scomode.Ma Marco Amenta non potrà di certo fermare la verità.Questa si chiama censura e non impegno sociale!




L'Associazione Antimafie "Rita Atria" afferma:Tutta questa macchina pubblicitaria sulla memoria di Rita Atria ci fa orrore
Stiamo assistendo ad uno dei capitoli più tristi della cinematografia italiana.
Stiamo assistendo anche ad una cosa sconcertante: le grandi testate ignorano il comunicato di Vita Maria Atria e sponsorizzano il film di Amenta.
Le grandi testate fino ad oggi hanno ignorato la presa di posizione di Luigi Ciotti e di Piera Aiello e continuano a pompare un film senza chiedersi come mai non sono stati usati i nomi veri.
A tutti coloro che hanno ancora un minimo di dignità chiediamo coerenza perché Rita Atria non merita l'ennesimo tradimento sociale.Ovviamente la nipote Vita Maria sta prendendo provvedimenti legali.


Concludo  dedicando a Piera  e  sua  figlia  Vita  maria   un post  che  della mia  amica di facebook https://www.facebook.com/marianna.pilo    perchè  siete proprio voi donne    che trovate le  parole  migliori



Non chiedere mai a una donna come fa ad essere cosi' forte... Forte non ci si nasce, lo si diventa! Non chiederle mai perché indossa ancora le corazze con un uomo: forse ha combattuto troppo! Non scavare dentro ai suoi ricordi... Tienila stretta tra le braccia, e ascolta i suoi silenzi...




con questo  è tutto  

diario di bordo n 117 anno III ormai anche i cantautori si vendono alla pubblicità .,Vive in una cella foderata di libri e si laurea da dietro le sbarre: «Una rivincita per me» ., Storia di un ragazzo adottato: «Così ho saputo tutto sulla donna che mi abbandonò»

  Concordo    con   l'intervento  pubblicato il   19\4\2025   dal il  Fatto    quotidiano  ma Sempre più frequentemente il cantautore, u...