In attesa delle rituali celebrazioni del 8 ( festa della donna ) e del 21 ( giornata delle vittime delle mafie ) marzo piuttosto e tanti spiegoni e tanta retorica , ed BLA ... BLA sul vicino 8 marzo preferisco raccontare anzi riportare questa storia . Perchè non fra le vittime di mafia e di collaboratori di giustizia si parla ( eccetto i casi eclatanti di :
Piera Aiello , della sua cognata Rita Adria ,
Lea Garofalo ) si parla solo al maschile .Cosi pure in ambito della legalità Infatti : << C’è la necessità di invertire la rotta rispetto alla memoria di Marcella, negli anni sempre un po’ bistrattata, - dice il poliziotto Roberto Belfiore, vicepresidente del Sap di Mesagne - quindi abbiamo scelto Marcella come simbolo di rinascita e della memoria, e abbiamo scelto di farlo con Libera perché a Mesagne rappresenta il riscatto sociale dei mesagnesi” prosegue Roberto Belfiore. “Masseria Canali è il luogo in cui la mafia ha perso e ha vinto lo Stato. Bisogna continuare a lavorare affinché le prossime generazioni possano sempre godere di una società libera>> ( da
“Marcella Di Levrano deve tornare a casa”, la lotta di Libera, della Polizia di Stato e del Sap di brindisireport.it).
settimanale giallo in edicola la prima
Caduta nella spirale della
droga, si era legata alla
Sacra Corona Unita, perciò
i servizi sociali le portarono
via la figlia appena nata.
Il dolore fu tale che si
disintossicò e poi rivelò
ciò che sapeva dei loschi
traffici dei padrini. Fu rapita
e ammazzata a pietratrate
di Silvana Giacobini
giornalista e scrittrice
Questa di Marcella è la
storia vera di una giovane donna di 26 anni,
che scomparve senza lasciare traccia l’8 marzo
1990 e fu ritrovata senza vita
da un agricoltore il 5 aprile.
Era nascosta sotto un mucchio di erbe e foglie secche
nel bosco dei Lucci tra Brindisi e Mesagne. Aveva il corpo
martoriato, il bellissimo volto
sfigurato e reso irriconoscibile da colpi e colpi di un masso
con cui gliel’avevano maciullato. Perché? Non solo aveva
tutto l'aspetto di una vendetta
tribale, il suo omicidio era il
simbolico e terribile monito
a chi avesse voluto mettersi
contro la Sacra Corona Unita, l’organizzazione criminale
che controllava i traffici illegali del territorio pugliese. I
suoi “nemici” dovevano perdere non solo la vita ma anche l’identità del volto, essere
cancellati dalla faccia della
terra, e lei, Marcella Di Levrano, si era messa contro la
Sacra Corona Unita dal 1987
collaborando con la squadra mobile della Questura di
Lecce. Da tre anni era una referente della polizia. Marcella
era stata contigua a quegli
ambienti criminali e la conoscenza delle ritorsioni senza
pietà dei clan rese ancora più
encomiabile il suo coraggio
di prenderne le distanze, anche perché in quegli anni non
esisteva nessun vantaggio per
i collaboratori di giustizia,
nessun beneficio. La scelta coraggiosa Marcella
l’aveva fatta per rifarsi una vita, e soprattutto, per ritornare
ad essere una mamma degna
di crescere la sua piccola Sara
che i servizi sociali avevano
allontanato da lei. L’attesa
della famiglia di Marcella Di
Levrano è durata trentadue
anni, tanti ne sono dovuti
trascorrere dal 1990 al 2022
per vederla riconosciuta dallo Stato “vittima innocente
di mafia”. A sottolinearlo è
stato l’avvocato Fernando
Orsini di Mesagne che iniziò
ben presto a seguire la vicenda umana e giudiziaria del
riconoscimento. Torniamo
quindi indietro nel tempo,
agli anni ’80 e ’90, in cui la
Caduta nella spirale della
droga, si era legata alla
Sacra Corona Unita, perciò
i servizi sociali le portarono
via la figlia appena nata.
Il dolore fu tale che si
disintossicò e poi rivelò
ciò che sapeva dei loschi
traffici dei padrini. Fu rapita
e ammazzata a pietrate
NEL 2022 È STATA RICONOSCIUTA COME VITTIMA INNOCENTE DI MAFIA MARCELLA
PER AMORE DELLA SUA BIMBA
IL SUO MURALE Mesagne (Brindisi).
Il murale dello street artist Frank Lamar intitolato nel 2021 a Marcella Di Levrano, raffigurata giovane e bella mentre chiede l’aiuto di tutti per fermare la ma!a. criminalità organizzata sfruttava il territorio brindisino per i suoi traffici di armi e prostituzione e spaccio di droga. Marcella Di Levrano aveva annotato su una agendina le sue conoscenze , con nomi, cognomi, alleanze, azioni malavitose. Ciò che aveva riportato segretamente negli appunti della sua piccola agenda e poi raccontato alla squadra mobile, la resero così scomoda e pericolosa per l’organizzazione criminale della SCU, la Sacra Corona Unita, tanto da decretarne il sequestro e la condanna a morte da eseguire con un crudele pestaggio.
Marcella
era nata il 18 aprile 1964, seconda di tre sorelle. La madre
Marisa Fiorani era una donna
forte e quando Marcellina
aveva quattro anni, prese la
decisione di allontanarsi dal
marito violento che la metteva in pericolo insieme con le
piccole figlie. Si trasferirono
così da sole a Torchiarolo,
un paesino nella provincia di
Brindisi. Prima della classe alla scuola media, Marcella era
una studentessa brillante e aveva scelto di proseguire gli
studi a Brindisi frequentando
l’Istituto Magistrale. Sognava di diventare insegnante e
formarsi una famiglia felice
tutta sua. Le foto ritraggono
la bellezza e la delicatezza
dei lineamenti della giovane
donna e spiegano perché fosse molto corteggiata. Al secondo anno delle Magistrali
fatale fu la frequentazione di
giovani malavitosi che trasformò in incubo i suoi sogni
perché Marcella cadde nel
circolo vizioso della droga
#no a diventarne dipendente. Le dosi costavano ed era
sempre più difficile trovare i
soldi e così Marcella per procurarsele stringeva sempre
di più i rapporti con i giovani boss della Sacra Corona
Unita. La madre Marisa e le
sorelle lottavano per salvarla
dalla dipendenza, ma Marcella dopo periodi di astinenza
tornava di nuovo ad essere
schiava dell’eroina. Rimasta
incinta, per salvare la creatura che portava in seno cercò
di disintossicarsi, ma era un piccola Sara e Marcella, che
non poteva contare sull’aiuto del padre biologico della
bambina, aspirava a crescerla
da sola, ma i suoi trascorsi di
tossicodipendente indussero
i servizi sociali ad allontanare la piccola dalla madre. Per
Marcella fu uno strappo molto doloroso e così la giovane
donna intraprese il viaggio
più pericoloso, cominciò a
staccarsi dall’ambiente dei
clan della Sacra Corona Unita mentre cercava di liberarsi
definitivamente dall’eroina.
Ci furono i primi prudenti
contatti con la polizia da parte di Marcella Di Levrano,
decisa a rifarsi una vita come
quella che da ragazza aveva
sognato, e cioè prendersi il
diploma, trovare un lavoro e
farsi una famiglia riportandosi a casa la sua Sara. Una possibilità concreta per realizzare finalmente tutto questo, si
profilò con la collaborazione
con gli inquirenti della squasdra mobile della Questura
di Lecce. Se per Marcella Di
Levrano pesava un passato
di tossica e doveva combattere contro i pregiudizi della
gente, aveva però un capitale
ed era quella piccola agenda
dove aveva annotato tutto
ciò che pensava fosse importante, i nomi dei componenti dei clan con i loro crimini
sommersi, i carichi di droga e
i loro spacciatori, il traffico di
armi e la loro provenienza. Se
l’avesse trasferito in Questura
a chi di dovere poteva essere
la sua àncora della salvezza.
Marcella avrebbe dimostrato
così che l’onestà non se l’era
dimenticata, che era davvero
cambiata anche se la paura
della ritorsione era enorme.
Arriviamo così alla data che
segnò la "ne per Marcella,
l’8 marzo 1990. Che fosse il
giorno della Festa Internazionale della Donna rende
ancora più infame il suo sacrificio, condannata a diventare
vittima del disprezzo per la
sua vita di donna e di madre
da parte dei sicari della SCU.
La sequestrarono e la massacrarono di botte. Fu una vera
e propria esecuzione compiuta a colpi di pietra anche
sul volto per distruggerglielo
e farla soffrire fino all’ultimo
spasmo di vita. Non sono
mai stati inquisiti e giudicati
i mandanti e gli esecutori del
suo assassinio, anche se per
l’avvocato Orsini che si è occupato del caso di Marcella
Di Levrano, erano attendibili
le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Del suo status di vittima innocente di mafia, la cui richiesta di riconoscimento è
stata respinta per due volte
dal Ministero dell’Interno, se
n’è occupata anche la Vicepresidente di “Libera”, Enza
Rando. Fondata da don Luigi
Cio!i, l’Associazione aveva
incluso dal 2014 il nome di
Marcella Di Levrano nell’elenco delle vittime innocenti
delle mafie che il 21 marzo di
ogni anno vengono nominate
nelle piazze italiane in loro ricordo. In primo piano, però,
sostenuto proprio da Libera,
c’è sempre stato l’assiduo impegno della madre di Marcella, Marisa Fiorani, che per decenni come una leonessa non
ha mai abbandonato l’aspirazione e la lotta perché fosse
onorata dallo Stato la memoria della #glia. È importante
perciò ricordare le parole
stesse di Marisa Fiorani che
valgono come monito: «Spero di sapere tutta la verità, anche se cinque pentiti hanno
raccontato chi e perché mi
ha strappato mia #glia. Per un
processo è troppo tardi ormai, ma per la Verità, no». E
ha aggiunto: «Mi fa piacere il
riconoscimento di mia #glia.
Mi dà la speranza che si possa
cambiare».
la seconda
da Nove anni fa l'attentato a Brindisi: "Melissa viva nei nostri ricordi" (brindisireport.it)
RINDISI - Nove anni sono trascorsi dall'attentato alla scuola Morvillo Falcone. Stamattina (mercoledì 19 maggio), nell'anniversario di quel tragico giorno, una cerimonia in memoria di Melissa Bassi, studentessa uccisa dall'esplosione, si è svolta presso l'istituto di via Galanti. Presenti all'evento i genitori di Melissa e le massimi istituzioni locali. Nel video servizio,[ non sono riuscito a copiarlo lo trovate sul sito citato ] le interviste alla preside, Irene Esposito, alla madre e al padre di Melissa, al sindaco di Brindisi, Riccardo Rossi, e a Massimiliano De Giorgi, presidente dell'associazione "Legalità e Sicurezza", che ogni anno organizza il memorial Melissa Bassi.
Mentre concludevo questo post ho scoperto questa storia
Francesco Panzera, il prof calabrese che ha combattuto la mafia a scuola. Ed è stato ucciso per questo
L’insegnante calabrese fu ammazzato nel 1982 perché cercava di
proteggere i suoi alunni e di allontanarli dalle attività delle cosche. Ma sono proprio gli studenti, talvolta, a chiedere aiuto per affrancarsi da famiglie legate alla ’ndrangheta
«La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari». Lo disse lo scrittore Gesualdo Bufalino, dopo la morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La scuola e la cultura fanno paura alle mafie, perché rendono più robusti i ragazzi contro ogni forma di prevaricazione, soprattutto in quelle zone dove il familismo crea una rete pericolosa e omertosa, dove i pochi rischiano di diventare nessuno. Perché si sa, la ’ndrangheta è una bestia che si vuole alimentare in silenzio. Giovanni Falcone raccontava quanto pesasse l’impianto familiare nelle organizzazioni criminali per mantenere integra l’immagine e la reputazione. Un ricatto molto difficile da cui affrancarsi, figuriamoci per un ragazzo a cui insegnano che «la famiglia viene prima di tutto, a prescindere da tutto». Anni fa fece notizia un liceo di Rosarno in cui gli studenti decisero di prendere le distanze dalle famiglie ’ndranghetiste. Il merito di questa rivoluzione culturale fu anche della dirigente scolastica Mariarosaria Russo che decise di gettare semi di legalità nella sua scuola. Uno studente appartenente alla famiglia Pesce di Rosarno, durante un’assemblea nel 2017, chiese coraggiosamente ai magistrati Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino in visita a scuola: «Come devo comportarmi per compiere un percorso di legalità? Devo rinnegare la mia famiglia?». I magistrati risposero che prendere le distanze da un familiare non vuol dire prendere le distanze dall’amore filiale, ma condannare la forma di illegalità. E qualcosa cambiò. «Sono stati gli studenti a rieducare le proprie famiglie e a non essere più coinvolti in quei circuiti di illegalità. Questo anche grazie alla collaborazione con diversi magistrati che hanno aiutato a far comprendere che anche per i figli dei boss ci sarebbe stata una seconda possibilità», racconta la preside. Insegnare è una missione, in casi come questi è una salvezza. Lo sapeva bene Francesco Panzera, professore di Matematica e vicepreside del liceo scientifico Zaleuco di Locri, una zona nota alle cronache per l’altissima incidenza criminale. La sera del 10 dicembre 1982 venne ucciso con otto colpi di pistola fuori casa a soli trentasette anni, dopo una gita in montagna. Contestava lo spaccio di droga che coinvolgeva i suoi studenti, fuori e dentro la scuola. Aveva osato ribellarsi al business in ascesa per le cosche: il traffico di droga. Voleva sensibilizzare i suoi ragazzi per proteggerli. Panzera era molto stimato, carismatico, poteva essere davvero ascoltato e diventare un disturbo per la ’ndrangheta: doveva essere fermato. Libera informa che circa l’80 per cento dei familiari di vittime non ha ottenuto una verità giudiziaria o ne ha una solo parziale, e molti di loro non hanno mai ritrovato il corpo di un figlio, di un padre, di un fratello. A quarant’ anni dall’omicidio del professore coraggioso di Locri non si conoscono i mandanti e gli esecutori del suo omicidio. Il liceo scientifico Zaleuco ha deciso di commemorarlo, insieme con i suoi ex studenti e i familiari, per dimostrare che più forte della morte è davvero l’amore per la verità e la giustizia.
Recuperare la memoria è l’unica arma da introdurre nelle scuole.
SITOGRAFIA CONSIGLIATA
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