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23.5.25

Dalla strage di Capaci è cambiato tutto, tranne la retorica: una bella cerimonia e tutto torna come prima o peggio di prima

La strage di Capaci( e poi quella di via d'amelio ) ci ha insegnato che la mafia non scompare: cambia pelle. E torna,sempre che se ne sia andata , quando abbassiamo la guardia. Strage Capaci, 1992: un
i resti del'auto  di giovanni falcone 

attentato che scosse per modo di dire perchè poi cambio la musica ma non i suonatori . Trentatré anni dopo, tra memoria e nuove sfide, l’Italia fa i conti con l’eredità lasciata da Giovanni Falcone e da quegli : « [....]  uomini che hanno scritto pagine\ Appunti di una vita dal valore inestimabileInsostituibili perché hanno denunciato\il più corrotto dei sistemi troppo spesso ignorato [....]  »



33 anni. 12.053 giorni. È il tempo che ci separa da quel sabato 23 maggio 1992. Da quel sabato pomeriggio in cui tutto è cambiato.33 anni. 12.053 giorni. È il tempo che ci separa da quel sabato 23 maggio 1992. Da quel sabato pomeriggio in cui tutto è cambiato. Anzi, da cui nulla è cambiato. E non serve scomodare — di nuovo — la citazione più abusata della letteratura sulla Sicilia



. Certo, è cambiata la moneta. Sono cambiati i nomi degli aeroporti, delle piazze, delle strade. È cambiata persino la tonalità delle sirene, che quel pomeriggio tagliavano l’aria insieme agli elicotteri. E che avrebbero fatto lo stesso appena due mesi dopo.Sono cambiate le facce, i partiti, le sigle. Abbiamo visto scomparire la Prima Repubblica, nascere la Seconda, sprofondare nella Terza. O forse nella quarta. O magari perdere pure il conto. Sono cambiati i cellulari, le auto, i modi di parlare, forse anche la lingua che usiamo. Ma una cosa non è mai cambiata: la voglia di seppellire. In pompa magna e con tutti gli onori, sia chiaro.
Seppellire Giovanni Falcone. E con lui Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Seppellirli sotto corone d’alloro e bande musicali che suonano le note del silenzio. Come se non ve ne fosse stato già abbastanza. Seppellire con tutta la retorica dello Stato – e delle fasce tricolori e le alte uniformi – che onora i suoi servitori. Meglio quando sono morti.
Perché la memoria, se svuotata del conflitto, diventa cerimonia. E la cerimonia è rassicurante. Addomestica il dolore. Sterilizza la rabbia. La rabbia autentica di quelle giornate. La rabbia di una città che non voleva morire tra miseria, disoccupazione, emarginazione e pallottole e autobombe.
Così, ogni 23 maggio, si recita una liturgia salvifica. E chiariamolo, non recitano i ragazzi e le ragazze, la cosa forse più bella e viva, che scendono dalle navi e attraversano le vie di Palermo come stazioni di una via crucis. La liturgia è celebrata da uno stato che onora il sacrificio, piange il martirio, recita il

copione. E poi tutto torna al suo posto.  Infatti  non ci servono martiri per svegliarci, ma più semplicemente il coraggio di vivere con dignità. Di denunciare. Di schierarsi . 
Un sistema stato che non protesse in vita Falcone e Borsellino – e prima di loro Costa e Terranova e Giuliano e Cassarà e Basile e Montana e Chinnici e tanti, troppi, uomini colpevoli di fare bene il proprio lavoro – oggi si presenta con il vestito impeccabile alle commemorazioni. Ma lascia sepolte le domande. Quelle vere. Quelle scomode. Come se la morte di Falcone bastasse a mondare i peccati di ieri, di oggi, di domani.
Ci vuole coraggio per presentarsi, come ha fatto la Presidente del Consiglio Meloni, alla giornata in memoria di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta e affermare testualmente che “Il loro esempio continua a guidare la nostra azione”.
Proprio a poche ore dal tentativo di infilare nel Decreto Infrastrutture una norma con cui il suo governo ha tentato di accentrare - e derogare di fatto - le norme del Codice antimafia.
E solo l’intervento in extremis del Presidente Mattarella lo ha scongiurato.
Ricordare è giusto, anzi il minimo sindacale.
Usare per propaganda politica il nome di Falcone, uno che per una vita intera è stato umiliato, infangato e infine sacrificato da parte delle istituzioni, è un’appropriazione indebita di un eroe nazionale.
Il tutto da parte di chi ha passato gli ultimi tre anni ad attaccare e delegittimare in ogni modo la magistratura di cui Falcone è l’esempio forse più alto e spesso dimenticato.
“Cara” Presidente, se vuole celebrare Falcone, non lo faccia a parole e con fiumi di retorica ma con i fatti, le azioni e, soprattutto, con le leggi ben  fatte   e   dei garbugli  e  fatte rispettare . Concludo questo post     oltre  al ricordo   della  figura    di Falcone  e   della  sua  scorta    anche    dell'altra protagonista 
poco ricordata    morta   con lui  ovvero la moglie  Francesca  Morvillo 
Francesca Laura Morvillo è nata il14 dicembre 1945 a palermo ed è morta  il 25 maggio 1992 a Palermo
La sua voce continua a parlare  di coraggio .Francesca Laura Morvi!lo è stata l'unica donnamagistrato assassinata in Italia Brillante giurista, figlia di un sostituto procuratore e sorella di
un futuro magistrato, sì laureò con lode e vinse il  premio Giuseppe Maggiare” per la migliore tesì  penalistica. Ricoprì ruoli di rilievo come giudice ad Agrigento, sostituto procuratore per i minorenni e consigliere della
Corte d'Appello di Palermo. Fu anche dotente universitaria, impegnata nella tutela dell'infanzia. Nel 1979 conobbe Giovanni Falcone, con cui si sposò nel 1986. Il 23 maggio 1992, mentre viaggiava accanto al marito   fu gravemente  ferita dalla bomba mafiosa della strage di Capaci Morì
ore dopo in ospedale, diventando ia quinta vittima dell'attentato Aveva 47 anni Decorata con la Meciaglia d'oro al valor civile, è ricordata pericoraggio silenzioso, la dedizione alla giustizia e Il sostegno incrollabila al marito nella lotta contrò la mafia. In suo onore
sono stati intitolati centri minorili e spazi pubblici, simbolo di una vita spesa al servizio della legalità e del dovere civile.
 

10.4.17

L'autista di Falcone: "Scampato al tritolo di Capaci ma rottamato dalle istituzioni" Giuseppe Costanza era con il giudice il 23 maggio 1992, giorno della strage: "Dopo mi misero a fare fotocopie".

due  parole  sono poche  ed una troppa  per  esprimere  il mio disgusto di questo stato  che   ipocritamente  va   a  funerali    o  da  in pompa  magna  medaglie ed onorificenze    delle vittime  , ma  non   solo per    quelli più in vista     gli altri   come  lui    non sa  che farsene o  gli emargina  \  mobizza 

 da  repubblica  online   d'oggi 

L'autista di Falcone: "Scampato al tritolo di Capaci ma rottamato dalle istituzioni"
Giuseppe Costanza era con il giudice il 23 maggio 1992, giorno della strage: "Dopo mi misero a fare fotocopie". In un libro il racconto del suo drammadi SALVO PALAZZOLO - video di GIORGIO RUTA


PALERMO - "Al risveglio, dopo l'esplosione, pensavo di aver vissuto il giorno più brutto della mia vita, il 23 maggio 1992". Giuseppe Costanza, l'autista del giudice Giovanni Falcone scampato alla strage di Capaci, scuote la testa. "No, mi sbagliavo. Non era quello il giorno più brutto della mia vita. Restare in vita è stato peggio. Quasi una disgrazia, una condanna. Perché dopo un anno di visite e ospedali, al lavoro non sapevano cosa farsene di me".

L'autista di Falcone: "Scampato al tritolo di Capaci ma rottamato dalle istituzioni"
Giuseppe Costanza vicino ai resti dell'auto sulla quale viaggiava con Giovanni Falcone e Francesca Morvillo 

L'uomo sopravvissuto al tritolo della mafia è rimasto schiacciato per anni dalla burocrazia del ministero della Giustizia. "Mi misero a fare fotocopie", racconta. "Rinchiuso in fondo a un corridoio del palazzo di giustizia di Palermo, dentro un box. Era mortificante dopo otto anni passati in prima linea sempre accanto al giudice Falcone. Mi sentivo rinchiuso in una gabbia, per di più costretto a sopportare il mobbing di un capo ufficio a cui era chiaro che non andavo a genio". In quei giorni, a Giuseppe Costanza non importava per niente di aver ricevuto una medaglia d'oro al valor civile. Lui voleva solo lavorare. "Non certo come autista - dice - non potevo più farlo, volevo essere assegnato in un ufficio in cui la mia esperienza potesse essere utile. Ad esempio, avrei potuto coordinare il parco auto del tribunale". Ma gli dissero che era necessaria una qualifica più alta per quel lavoro. E gli spiegarono con pignola precisione burocratica che la promozione per meriti di servizio è prevista solo per il personale militare. "E che cosa ero stato io se non un militare? - sbotta - nell'auto blindata di Giovanni Falcone c'era una radio collegata con la sala operativa della questura, accanto a me c'era il giudice. E alla cintola portavo sempre una pistola con il colpo in canna".Venticinque anni dopo la strage di Capaci, l'uomo sopravvissuto a trecento chili di tritolo ha deciso di scrivere un libro per raccontare la sua odissea, prima nei gironi infernali accanto al suo giudice, poi, da solo, negli altri gironi terribili, quelli di una pubblica amministrazione ottusa. Stato di abbandono, si intitola il commuovente libro di Giuseppe Costanza (scritto assieme a Riccardo Tessarini, edizioni Minerva). La storia di un uomo semplice, che pensava di avere già vinto la sua battaglia con la vita, e poi invece scoprì che aveva ancora un altro nemico da sconfiggere. Un esercito di piccoli burocrati. "Dopo anni di lettere, proteste, piccole vittorie e ancora altre umiliazioni, nel 2004 sono stato dispensato dal servizio", sussurra Costanza, come fosse una sconfitta, che lui continua a non accettare. "Pensavo di poter dare ancora tanto alle istituzioni, pensavo di poter dare un contributo importante nell'organizzazione di un servizio delicato come quello dell'autoparco del tribunale di Palermo, impegnato a stretto contatto con i servizi di scorta. Ma, evidentemente, mi sbagliavo. Mi hanno rottamato".
Ora Giuseppe Costanza va in giro per le scuole di tutta Italia per parlare del suo giudice e degli anni difficili a Palermo. "C'eravamo sentiti telefonicamente la mattina di quel 23 maggio, per organizzare l'arrivo a Punta Raisi. Alle 17,45 sono all'aeroporto assieme alla scorta. Il giudice ha due borse nelle mani. "Strano", penso. "Non ha il suo computer". Lo portava sempre con sé, lo riempiva di annotazioni. Eppure, l'hanno trovato vuoto, ma questo l'ho saputo molto tempo dopo". È uno dei misteri del 23 maggio, il computer portatile era rimasto nell'ufficio di Falcone, al ministero della Giustizia. "Quel pomeriggio - ricorda Costanza - Falcone è alla guida, accanto c'è la moglie, Francesca Morvillo. Io sono dietro. Gli dico: "Ecco il resto che le dovevo". Mi aveva chiesto di comprare un cric. Mi guarda, sorride: "Aveva un pensiero - dice - non poteva aspettare più". Era sereno, Giovanni
Falcone, nel suo ultimo viaggio verso Palermo. "La settimana prima mi aveva detto: è fatta, sarò il nuovo procuratore nazionale antimafia. Quel pomeriggio doveva incontrare alcuni suoi colleghi, ma non gli hanno dato il tempo. E ancora mi chiedo chi l'abbia voluto fermare". Presto, l'auto dell'ultimo viaggio di Falcone tornerà a Palermo. "Verrà sistemata fra i due palazzi di giustizia - spiega Costanza - non possiamo dimenticare".







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