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14.7.19

Rocco Petrone, l'italoamericano che ci ha portati sulla Luna La storia (poco nota) dell'uomo, figlio di immigrati lucani, che arrivò a dirigere i lanci del programma Apollo e spedì l'umanità sulla Luna ed laLa donna che fece scendere Armstrong sulla Luna

 A proposito dei 50  dello  sbarco sulla luna  ecco due  storie pèoco note  e poco diffuse  dai media  ,  se  non  in coda   o  con piccolissimi trafiletti  . la  prima  è  ( anche   una risposta    al #cazaroverde  e  i suoi seguaci  che    odiano gli immigrati  )  è la  storia    di  Rocco Petrone, l'italoamericano che ci ha portati sulla Luna .La storia (poco nota) dell'uomo, figlio di immigrati lucani, che arrivò a dirigere i lanci del programma Apollo e spedì l'umanità sulla Luna
 tratta  da    https://www.wired.it/scienza/spazio/2019/07/13/





È un’alba di Luna nuova quella del 16 luglio 1969, un mercoledì di mezza estate destinato a scrivere la storia. Rocco Petrone, che non ha quasi dormito, sta guardando quello spicchio luminoso nel cielo, consapevole che dove sono nati i suoi genitori, a migliaia di chilometri di distanza, in Basilicata, la Luna crescente è d’auspicio per le grandi imprese.
Quarantatré anni, ingegnere meccanico, un metro e novanta per 100 chili, Petrone è noto come “il computer con l’anima“, anche se per i suoi collaboratori più stretti rimane la “tigre di Cape Canaveral” (un documentario su di lui, Luna italiana, sarà trasmesso su History Channel il 18 luglio alle 22:40). Ed è proprio lì, a Cape Canaveral, che Petrone si dirige poche ore dopo. Quindi, qualche minuto prima delle 9:00, come fa sempre comincia nervosamente a gironzolare per la fire room numero 1, quella con le console di comando, dove centinaia di tecnici, ognuno incollato a uno schermo, ripetono da giorni le migliaia di verifiche contenute nella check listche proprio lui, la tigre, ha redatto personalmente. Fra 45 minuti gli toccherà, da direttore del lancio, dare il “Go” alla missione Apollo 11. Quella che, se tutto andrà bene, porterà per la prima volta l’uomo a calpestare un suolo extraterrestre.
Niente male per uno la cui storia è iniziata a Sasso di Castalda, paesino di 1100 abitanti abbarbicato sull’Appennino lucano, a pochi chilometri da Potenza.
Da lì, da Sasso, erano partiti mamma Teresa e papá Antonio subito dopo la grande guerra. Destinazione America, che come si canterà qualche anno più tardi, per 100 lire poteva regalare un sogno.Rocco Petrone a Cape Kennedy nel 1969 (foto: Nasa)

Il sogno aveva portato Teresa e Antonio fino ad Amsterdam. No, non la capitale olandese, ma un piccolo paese – di 30mila abitanti, comunque gigantesco rispetto a Sasso – a un paio d’ore da New York, nella contea di Montgomery; più precisamente, lì ad Amsterdam, Teresa e Antonio erano arrivati in una casetta all’incrocio fra Church Street e East Main Street, la strada che qualche anno dopo sarebbe diventata Petrone Street, proprio in onore al loro secondo genito: Rocco Anthony, arrivato dopo il fratello John, era nato il 31 marzo del 1926. L’avevano chiamato così: Rocco, come il santo protettore di Sasso di Castalda, e Anthony, come il padre, che in realtà non avrebbe mai conosciuto.
L’american dream di Antonio, infatti, si era infranto subito, in un incidente, fatale, al cantiere ferroviario dove aveva trovato lavoro. Teresa aveva 27 anni. Rocco sei mesi.
Il risultato? Una determinazione e una disposizione al sacrificio che Teresa trasmise ai figli. A Rocco in primis: studente modello di mattina, il pomeriggio vendeva il ghiaccio per raggranellare qualche dollaro. Un’attività che non gli aveva impedito, nel ’43, in un periodo in cui gli immigrati non erano visti di buon occhio, di distinguersi fra i migliori diplomati della Wilbur Lynch Highschool. A scuola Petrone si era fatto anche una certa fama grazie alla memoria prodigiosa – che gli permetteva di citare testi letti una volta sola e diversi giorni prima – e per l’abilità nei calcoli, per cui primeggiava in gare di velocità (arrivando senza carta e penna a fare moltiplicazioni e divisioni fino a quattro cifre).
Poi, sebbene fosse un antimilitarista convinto, l’ambizione, la stazza e la mancanza di soldi lo avevano obbligato per proseguire gli studi a iscriversi a West Point, “la fabbrica delle migliori intelligenze dell’esercito americano” (la stessa che in quegli anni ospitava Buzz Aldrin e Michael Collins). Anche lì Petrone si era fatto notare subito: fra i migliori dell’academic program, soprattutto in matematica e nuove tecnologie, primeggiava anche nel physical program, tanto da essere ammesso nella squadra universitaria di football (dove avrebbe condiviso gli spogliatoi con Doc Blanchard e Glenn Davis, premi Heismen Trophy, sportivi dell’anno per il “Time” e futuri amanti di Elizabeth Taylor).
Ci aveva messo poco, Petrone, a laurearsi ufficiale dell’esercito americano; era successo nell’autunno del ’46, a guerra (che detestava) appena conclusa. Spedito tre anni in Germania per garantire l’assistenza dei rifugiati in rientro, era finalmente andato a Sasso di Castalda per conoscere la nonna e quindi era rientrato negli Stati Uniti, per iscriversi senza troppe difficoltà al Mit. In quattro anni ne era uscito con una laurea in ingegneria meccanica e una passione per lo sviluppo e la sperimentazione di razzi e missili balistici.
Rocco Petrone e Wernher von Braun (foto: Nasa/MSFC)

Fu per queste predisposizioni che, nel settembre del 1952, entrò al Redstone Arsenal, in Alabama, come ufficiale assegnato al laboratorio per i lanci missilistici dell’esercito, dove un tedesco, Wernher von Braun, stava più o meno segretamente realizzando il sogno della sua vita: spedire un razzo oltre l’atmosfera terrestre.
Il primo incontro fra i due non era andato benissimo: schivi e di poche parole entrambi, per von Braun il cognome italiano del nuovo arrivato non era una grande premessa. Di suo, Petrone, forgiato dal rigore etico di West Point, non poteva ammirare uno col passato nebuloso dell’ex SS nazista.
A Petrone vennero comunque affidate la progettazione e la realizzazione delle rampe di lancio del nuovo Redstone, il figlio legittimo delle V2 tedesche. Fu per questo che, per la prima volta, arrivò a Cape Canaveral, ai tempi ancora in costruzione. Petrone adorò quel posto e il suo lavoro dal primo giorno. Quando, il 20 agosto 1953, un Redstone volò per la prima volta, lui era già stato nominato responsabile per tutte le operazioni di controllo e di lancio. Il ruolo lo rimise accanto a von Braun; sia letteralmente, nella blockhouse di fronte alla console di comando, che metaforicamente: come scrive Renato Cantore fra le pagine della biografia La tigre e la Luna, “l’ingegnere figlio di immigrati stava diventando un ingranaggio insostituibile nel sistema che per i successivi 20 anni avrebbe rappresentato l’asse portante della sfida tecnologica americana“. Dopo il primo incontro e nonostante il cognome italiano, anche per von Braun la cosa era diventata chiara.
Non fu quindi gradito a nessuno che il primo giugno del ’56 Petrone venisse nominato vicecapo dello staff per la logistica presso lo Stato maggiore dell’esercito, al Pentagono. Era stato chiamato a Washington per occuparsi dello schieramento sul territorio americano dei dodici principali sistemi missilistici destinati a rappresentare l’asse strategico della difesa nazionale. A trent’anni appena compiuti era uno dei massimi esperti in un campo in rapida espansione e in un mondo ossessionato, da una parte, dalla paura nucleare e, dall’altra, dalla corsa per la supremazia dello spazio. Ed è quasi certo che avrebbe suo malgrado fatto carriera politica se i sovietici, a sorpresa, non si fossero dimostrati molto più avanti degli americani nella gara oltre l’atmosfera.
Lo Sputnik e Jurij Gagarin al Museo della cosmonautica di Mosca (Foto: Afp/Getty Images)

Fallita la risposta statunitense, con il Vanguard progettato dalla Marina militare schiantatosi pochi secondi dopo il decollo, fu dato il via libera a qualsiasi progetto di von Braun. “E allora, tanto per cominciare – disse il genio tedesco – ridatemi Rocco Petrone“. A pochi mesi dal suo arrivo al Pentagono, Petrone ripartiva, questa volta verso una destinazione nota e che di lì a poco gli avrebbe valso il suo soprannome: la tigre tornava a Cape Canaveral e per rimanerci a lungo.
Quando arrivò in Florida, von Braun e il suo staff stavano già lavorando a un nuovo razzo, il Saturn, il cui primo lancio, programmato alla fine del 1961, sarebbe stato solo l’anticipo del progetto destinato a spedire Neil Armstronge compagni sulla Luna, a bordo di un mostro tecnologico di duemila e ottocento tonnellate. Eppure ai tempi nessuno – tranne forse von Braun – avrebbe immaginato di trasportare uomini oltre l’atmosfera. Servirono due fatti per avviare il progetto: il primo volo orbitale di Jurij Gagarin, il 12 aprile del 1961, e l’elezione a presidente di John Fitzgerald Kennedy, che contrariamente al suo scettico predecessore, Dwight Eisenhower, impose, a suon di miliardi di dollari, che i sovietici fossero battuti nella tappa finale della corsa cosmica: il primo piede a toccare il suolo lunare avrebbe dovuto essere americano.
Quando Kennedy tenne il famoso discorso al Congresso in cui prometteva che gli Stati Uniti avrebbero conquistato la Luna entro la fine del decennio, Jim Webb, appena eletto amministratore della Nasa, commentò: “La strada sarà lunga e accidentata, ma va costruita mattone per mattone, qui sulla Terra“. A chiunque fu subito chiaro chi fosse il primo a dover posare quei mattoni: toccava a lui, Rocco Petrone, cui erano state affidate la progettazione e la realizzazione delle rampe di lancio per tutto il programma spaziale.
Duro, rigoroso, mai spaventato dal compito, l’ormai tenente colonnello Petrone notte e giorno si concentrava, come una tigre, sull’obbiettivo di realizzare il moonport. Sarebbero serviti cinque anni per terminare il Complex 39, un’opera mastodontica. Fu a lui che spettò la decisione di costruire la nuova rampa a Merrit Island, proprio di fronte a Cape Canaveral, su un’area di 54mila ettari acquistata dal governo per 72 milioni di dollari. Fu sempre lui a decidere che il Saturn V, alto 110 metri per oltre 10 di larghezza, venisse assemblato in verticale. Per cui fu lui a stabilire la costruzione del Vertical Assembly Building, un edificio grande quanto il Pentagono in cui montare, pezzo per pezzo, la gigantesca creatura volante di von Braun.
E fu ancora lui, che nel frattempo era diventato capo dell’ufficio dedicato a tutto il sistema dei veicoli pesanti, che istruì Jfk sulle specifiche tecniche del Saturn, in occasione dell’ultima visita del presidente a Cape Canaveral, la mattina del 16 novembre 1963, sei giorni prima che venisse ucciso a Dallas. Petrone, quella chiacchierata, non la scordò mai e fu orgoglioso come forse mai prima quando, nel 1964, diventò il direttore di piani, programmi (lo stesso programma Apollo) e risorse del centro spaziale appena ultimato, battezzato Kennedy Space Center.
Il presidente John Fitzgerald Kennedy al briefing di Rocco Petrone (foto: Nasa)

Nacquero in quel periodo le famose check list, i puntuali elenchi di verifiche scritti da Petrone, che ognuno, nel suo ruolo, era obbligato a ripetere migliaia di volte prima di certificare, a proprio nome, l’eventuale “ok”.
Quando, nel 1975, Petrone si ritirò dalla Nasa, lo fece da direttore del programma Apollo, direttore del Marshall Space Center di Huntsville e amministratore associato. Morì il 24 agosto 2006 a Palos Veders Estates, dove si era ritirato per dedicarsi ai suoi amati studi di storia americana.
Per capire quanto fosse esigente la tigre, basterebbe sapere che all’operaio incaricato di posare le 40 tonnellate del secondo stadio del Saturn sul primo, Petrone aveva consigliato di addestrarsi stringendo tra i potenti bracci della gru un uovo fresco senza romperlo.
Una battuta? Non troppo. Se ne accorse anche chi, non in grado di rispondere alle domande tecniche, veniva sollevato letteralmente di peso, oppure chi dovette costruire il crawler, il mezzo cingolato progettato per trasportare il Saturn alla rampa di lancio, un’altra idea passata dall’ufficio di Petrone. Ma da allora erano trascorsi 5 anni e diversi lanci con il Saturn V, dal 9 novembre 1967 tutti coronati da successo


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Petrone posa davanti al Saturn V (foto: Nasa)

Eppure, quella mattina del 1969, pare che anche la tigre fosse emozionata. Quando Petrone, accanto a von Braun, diede il Go, lo fece quasi sottovoce. Erano le 9:32 del 16 luglio. Il lancio dell’Apollo 11 aveva rispettato il programma al centesimo di secondo. Il mattino era stato salutato da uno spicchio di Luna crescente.

La  seconda  è quella di  Margaret Hamilton e le sue compagne dell’informatica al femminile

Margaret Hamilton
da  https://www.lastampa.it/scienza/  del 8.72019 



.Quando si parla di storia dell’informatica, vengono in mente soltanto due donne: Ada Lovelace Byron e Hedy Lamarr. Ada, figlia del celebre poeta romantico inglese, perché nell’Ottocento, ispirata dalla “macchina analitica” del matematico Charles Babbage, fu la pioniera del software, tanto che si chiama ADA uno dei linguaggi di programmazione della Difesa americana. Hedy per le sue geniali invenzioni tuttora applicate alle telecomunicazioni e all’informatica, nonché per la straordinaria bellezza che ne fece una diva fatale di Hollywood: la storia del cinema le deve la prima (fugace) scena di nudo integrale nel film “Estasi” del 1932.
Da Eniac a Internet
Ma Ada Lovelace e Hedy Lamarr sono solo le punte emergenti. Il contributo delle donne alla scienza dei computer è ben più vasto. Nel libro “L’informatica al femminile” (Neos Edizioni, 144 pagine, 17 euro) Cinzia Ballesio e Giovanna Giordano tracciano la biografia di una trentina di donne quasi sconosciute ma che hanno avuto un ruolo decisivo nel costruire il mondo digitale in cui viviamo. Furono donne le programmatrici di Eniac, il primo computer completamente elettronico (Usa, 1946), tre informatiche nere nel 1962 resero possibile il volo in orbita dell’astronauta John Glenn (come racconta il film “Il diritto di contare”), innumerevoli sono le donne hanno ideato i programmi che fanno funzionare Internet e quelle che oggi lavorano all’Intelligenza Artificiale.
Il software dell’Apollo11
L’imminente cinquantenario del primo sbarco sulla Luna (Apollo 11) ci solleva dall’imbarazzo della scelta: parleremo qui di Margaret Hamilton. Due fotografie riassumono la sua importanza nella più grande impresa tecnologica di tutti i tempi. Una la ritrae rannicchiata davanti ai 170 comandi del Modulo Lunare, l’altra in piedi accanto a una pila di scartafacci che dal pavimento le arriva all’altezza della fronte: contengono il codice sorgente del sistema di guida delle missioni Apollo, decine di migliaia di pagine scritte da Margaret e dal gruppo che dirigeva alla Nasa. Fu la sua preveggenza, sorretta da un rigore quasi maniacale, a salvare Armstrong e Aldrin da un disastro e a farne i primi due uomini che abbiano calpestato la Luna.
Allarme 1202
Tre minuti prima dell’allunaggio del 20 luglio 1969, il computer del modulo lunare (Lem) accese il segnale “1202”: allarme grave. Il protocollo prevedeva che in quel caso, se l’allarme si fosse ripetuto, l’allunaggio abortisse, il Lem avrebbe dovuto tentare la risalita in orbita lunare dove, sul modulo di comando, era rimasto Michael Collins. A causare l’allarme era un sovraccarico di dati. Oltre ai dati del radar-altimetro di terra, necessario per l’allunaggio, arrivavano al computer anche quelli dell’altro radar, in contatto con il modulo di Collins. L’aveva lasciato acceso Buzz Aldrin per una misura si sicurezza che in pratica si rivelò molto pericolosa.
Dieci secondi di panico
Sappiamo come andarono le cose: 1202 lampeggiò un’altra volta, poi anche 1201, e di nuovo 1202. Armstrong ricordava di aver visto quei segnali di allarme durante le simulazioni al suolo, li aveva ignorati e la manovra era riuscita ugualmente. Fece così anche nella situazione reale, ignorò il computer e prese i comandi manuali. La sala di controllo di Houston taceva. Pare che i tecnici scartabellassero i manuali alla ricerca del da farsi. Dopo 10 secondi di silenzio il direttore di volo Gene Kranz comunicò l’autorizzazione a tentare l’allunaggio.
Un mucchio di scartafacci
Ma ormai Armstrong aveva deciso da solo. O quasi. Scrivendo il software, Margaret Hamilton aveva previsto l’eventualità di un allarme da sovraccarico: il suo programma segnalava il problema, ma era concepito in modo da smistare i dati dando la precedenza ai più importanti, quelli del radar altimetro, lasciando indietro i dati non essenziali. Pur essendo preoccupanti, gli allarmi 1202 e 1201 non erano drammatici. Fu così che Neil Armstrong approdò nel Mare della Tranquillità e Margaret Hamilton ricevette il Premio Ada Lovelace e il Nasa Exceptional Space Act. Il programma scritto nella pila di scartafacci oggi è disponibile online e “pesa” appena un megabyte, quanto una fotografia scattata con il cellulare.




13.5.14

"Domandatemi di Auschwitz" Renate Lasker-Harpprecht ha novant'anni


Era una ragazzina quando fu deportata. In questa intervista al settimanale tedesco "Die Zeit" racconta con grande lucidità la sua esperienza. È la prima volta che ne parla in modo così dettagliato "Spesso mi chiedono perché non l'ho fatto prima. La risposta li soprende: perché nessuno me lo ha chiesto". E nei suoi ricordi del lager c'è una bimba bionda, italiana. Che Repubblica.it ha provato a identificare


Fino ad ora, di Renate Lasker-Harpprecht avevo sentito parlare soltanto da suo marito, il grande scrittore Klaus Harpprecht, che scrive ancora oggi per Die Zeit. È stato lui a segnalarci
che sua moglie aveva bisogno di parlare finalmente in modo approfondito della sua lotta per la sopravvivenza durante il nazionalsocialismo. Dagli anni Ottanta Renate Lasker-Harpprecht vive 
Renate Lasker-Harpprecht
con suo marito in Costa Azzurra, dove si è svolta questa intervista. Sediamo nel suo salotto, il cielo sull'insenatura si è coperto di nuvole, e ben presto piove a scrosci. Durante le ore successive Renate Lasker-Harpprecht non si lascia mai sopraffare dai suoi sentimenti. Beve caffè, fuma e a tratti trova l'espressione giusta solo in francese, inglese o italiano.
Suo marito mi ha detto che non ha quasi mai parlato, nemmeno con lui, del periodo da lei trascorso nel lager.
"Non ne parliamo particolarmente spesso".

A novant'anni, le capita mai di raccontare un po' più facilmente di prima quello che le è successo ad Auschwitz e a Bergen-Belsen?
"Sì, ma solo con certe persone. E non necessariamente con Klaus: con lui ho l'impressione che sappia comunque tutto. Ho anche paura di annoiare".

Non aveva paura che il raccontare le avrebbe fatto troppo male? Che la gente avrebbe reagito con insensibilità o superficialità?
"Non parlerei mai con gente che potrebbe reagire in modo superficiale. Ma spesso mi chiedono perché non ho parlato con i miei conoscenti o amici. E moltissime persone si stupiscono della mia risposta: non me l'hanno chiesto".

La gente non voleva saperne molto?
"I tedeschi non volevano saperne".

Come se lo spiega?
"Da un lato, tutti in qualche modo si vergognano, perché si tratta della Germania. Ma fanno anche qualcosa che mi irrita profondamente: cominciano immediatamente a parlare del loro terribile destino in guerra. Dei bombardamenti subìti. Allora interrompo il discorso. Il defunto scrittore Hans Sahl ha coniato una frase che uso sempre quando serve: "Siamo gli ultimi, facci delle domande!"".

Lei è cresciuta a Breslavia. Quando ha notato per la prima volta l'ostilità nei confronti degli ebrei?
"A differenza di mia sorella Anita io non ho sperimentato alcuna inimicizia personale. E, cosa che a quei tempi era molto importante, io, per dirla in modo il più possibile garbato, non ho un aspetto particolarmente ebraico. Non ho il naso adunco, non ho i capelli corvini (ride). Invece, mia sorella in fondo è un tipo sefardita, ha capelli nerissimi e il naso aquilino. Brutta storia".


Renate con la sorella Anita nel 1930



Anita Lasuer
E i suoi compagni di scuola, erano maldisposti?
"No, non direi. Ma c'erano quei favolosi genitori che volevano infilarli immediatamente nella Gioventù Hitleriana. Avevo un'amica che portava un grande nome: Hella Menzel, una discendente di Adolph von Menzel".

Il celebre pittore?
"Sì, e con lei avevo legato. Si era fermata spesso a dormire da noi, e non di rado io andavo da lei. Poi è arrivato lo sconquasso nazista. Io desideravo continuare a frequentarla, ma quando un giorno andai a trovarla, venne alla porta la cameriera e disse: "La signora non desidera che lei entri in questa casa". Ci rimasi un po' male, ma...".

Non ha più rivisto Hella Menzel?
"Sì, l'ho incontrata di nascosto qualche volta. Ma poi le ho detto: "È meglio smetterla, finirai per litigare con i tuoi genitori!". Credo che si sia un po' vergognata, perché era davvero una brava ragazza".

So che è accaduto di ben peggio. Però essere respinta sulla porta di casa dev'essere stato molto mortificante per lei, che era una ragazzina.
"Naturalmente. Ma poi tutto passa abbastanza in fretta, e ci si fa il callo. Altrimenti non si andrebbe avanti".

Come ha reagito suo padre quando è iniziata la discriminazione degli ebrei?
"È successo all'improvviso. Chi, prima del 1933, avrebbe chiamato qualcuno "porco ebreo"? Mio padre si era identificato con la Germania. Diceva: "Prima o poi convinceranno quel pazzo che non abbiamo voluto tutto questo!". Per questo non si è dato molto da fare per emigrare. Si era recato con la nave in Israele, che allora si chiamava Palestina, per visitarla. Ma poi era tornato indietro".

Non voleva andarci a vivere?
"No. Immagini: un noto ed eccellente avvocato si trasferisce in un Paese del tutto diverso. Cosa ci va a fare?".

Nemmeno il pogrom della Notte dei cristalli del 1938 ha convinto i suoi genitori che non c'era tempo da perdere?
"Certo. Si vedevano sempre meno ebrei per le strade. Ma non era affatto semplice lasciare il Paese. Gli altri Paesi non erano disposti ad accogliere tanto facilmente emigrati ebrei. Mio padre ha tentato di portarci in Italia. Era un grande amico della cultura italiana. E c'era quasi riuscito! Avevamo anche già spedito i nostri mobili con un enorme container. Non sono più saltati fuori. Non avevamo più mobili, dovevamo lasciare casa nostra, abbiamo vissuto stretti stretti da parenti con i quali non eravamo in grande familiarità. Anita e io fummo destinate al lavoro coatto".

I suoi spazi diventavano, letteralmente, sempre più stretti. Aveva molta paura? Oppure l'ha rimossa?
"Sicuramente ci ha aiutato a sopravvivere il fatto che, in fondo, eravamo incoscienti. Abbiamo sempre vissuto alla giornata".

Perché era così giovane?
"Eravamo così giovani. E dovevamo vedercela con i problemi quotidiani. Quando scoppiò la guerra, dovemmo sfacchinare terribilmente. Anita e io abbiamo lavorato in una cartiera dove si produceva carta igienica. Prima mi avevano mandato alla raccolta rifiuti, che era ancora peggio. Dovevamo cercare le parti in metallo tra i rifiuti, fra topi e gatti morti".

Il 9 aprile 1942 i suoi genitori furono deportati. Sapevano già che sarebbero stati arrestati?
"No, non furono arrestati, e nessuno bussò alla porta. I miei genitori ricevettero una comunicazione: "Domani alle ore tot dovrete recarvi al campo di raccolta ...". E ci sono andati. Hanno ubbidito. Invece, molta più gente sarebbe dovuta scappare".

Sono andati loro stessi al macello?
"Sì, sono andati al macello. La sera prima, i miei genitori hanno fatto i bagagli, si poteva portare con sé dieci chili di vestiti, più o meno. Poi ci siamo salutati. Mio padre ha dettato a mia sorella una sorta di testamento. A un certo momento io sono andata a dormire. Me ne vergognerò sempre, ma non ce la facevo più. Mia madre era seduta nella stanza accanto e piangeva. La sentivo. Sapeva che non avrebbe più rivisto le sue bambine".

I suoi genitori immaginavano come sarebbe stato terribile il lager?
"Immagino che durante il trasporto i miei genitori abbiano sentito abbastanza. Abbiamo saputo poi che erano stati portati in un lager vicino a Lublino. Un giorno un gruppo di persone fu portato davanti a una fossa. Furono costretti a denudarsi, dopodiché spararono loro alla nuca e caddero nella fossa. È probabile che i miei genitori siano stati uccisi così. Non so se i loro resti siano poi stati esumati e sepolti in una tomba comune".

Nel libro di sua sorella, al quale ha contribuito con qualche ricordo, ho letto che già prima della sua deportazione ad Auschwitz lei aveva saputo che giravano terribili voci sul lager.
"Sì, in carcere. Mia sorella e io avevamo subìto un processo...".

Avevate falsificato dei documenti di viaggio per alcuni prigionieri di guerra francesi e voi stesse avevate cercato di fuggire. Lei fu condannata, separata da Anita e portata in prigione...
"E, grazie a Dio, mi ritrovai in una cella singola. Nel carcere ero l'unica ebrea e non dovevo "infettare" gli altri. Fu una benedizione. Prima del processo avevamo dormito addossati gli uni agli altri in una cella. Ancora oggi non riesco a sopportare le masse di persone. Una notte ebbi un mal di denti terribile e fui portata dal medico del carcere. Nella sala d'attesa sedeva accanto a me una ragazzina. Le chiesi sottovoce da dove veniva. Rispose: "Da Auschwitz". Non potevo crederle".

Aveva un'idea di cosa fosse Auschwitz?
"Sì, sì. Auschwitz era il capolinea. Pensai: come ne è venuta fuori? Che sia una spia? E le chiesi se era vero quello che la gente raccontava di Auschwitz, se era davvero così spaventoso. E la ragazza mi rispose: "È molto peggio". Allora ho saputo quello che mi attendeva".

Lei giunse ad Auschwitz nel 1943.
"In carcere sentii all'altoparlante: "RENATE SARAH LASKER CON TUTTE LE SUE COSE!". Ciò significava che bisognava presentarsi con la gavetta e gli zoccoli di legno. Mi trovai di fronte a un uomo della Gestapo che mi disse, letteralmente: "Bene, adesso vieni ad Auschwitz. Per favore, firma qui che vieni volontariamente". 
E firmai. Quella notte ebbi paura".

In tanta angoscia aveva almeno un rifugio mentale?
"Avevo una certa fede che mi ha aiutato. Non ne ho mai parlato, nemmeno con mia sorella. Dunque, ho pregato: "Buon Dio...". La mattina dopo, fummo portati alla stazione centrale su un treno per prigionieri. Sedevo di nuovo da sola, probabilmente perché non volevano che una ragazza ebrea sedesse accanto agli altri. Poi siamo arrivati ad Auschwitz".

Qual è stata la sua prima immagine di Auschwitz?
"L'intero lager era illuminato a giorno, perché all'epoca i tedeschi sapevano che gli Alleati non lo avrebbero bombardato, e avevano ragione. Vidi delle SS, dei kapò e dei cani. Poi fummo portati in una grande sala dove mi spaventai molto, perché agli angoli erano sistemate delle docce. Avevo sentito che tutti i lager per la gassazione erano fatti così, che la gente vi veniva ammassata, e che da queste docce il gas...".

Se ne parlava già?
"Sì. Ormai era notte, tutto era buio, e venne dentro un mucchio di donne completamente nude. Allora mi spaventai di nuovo terribilmente, perché pensavo che se entravano qui nude... Non era solo per via delle docce... Era anche per via delle prigioniere che entravano. Avevano un'aria così spaventosa che mi chiesi: avrò mai un aspetto così?"

Che aspetto avevano le prigioniere? 
"Non avevano più capelli, ed erano pelle e ossa. Fecero la doccia e furono mandate di nuovo fuori. E la mattina dopo cominciò il giorno di lavoro. Dovetti spogliarmi e sedere su una sedia. Allora mi furono rasati i capelli".

Da un'altra detenuta?
"Lo facevano tutte le detenute. Mi tatuarono anche un numero sul braccio: 70195. Anita era arrivata una settimana prima. Lei ha il 69388. Curiosamente, il suo numero è ancora chiarissimo, mentre il mio è sbiadito. Mentre sedevo su quella sedia e mi venivano rasati i capelli vidi che sulla terra accanto a me c'era un paio di scarpe nere. Avevano la tomaia di pelle e stringhe rosse. Pensai tra me che conoscevo quelle scarpe! Perciò chiesi alla ragazza che mi rasava: "Sai con quale convoglio è arrivata quella?". "Sì, lo so bene, adesso quella ragazza è nell'orchestra"".

Intendeva l'orchestra di ragazze di Auschwitz, dove sua sorella suonava il violoncello.
"In preda all'eccitazione, quella ragazza corse nella baracca messa un po' meglio delle altre, dove abitava l'orchestra. Cercò Anita e le disse: "Credo che ci sia tua sorella!". Poi uscirono e ci abbracciammo. Così ho ritrovato mia sorella, tra centinaia di migliaia di persone".

Che impressione le fece?
"La vedevo per la prima volta con la testa rasata. Aveva un aspetto abbagliante, perché aveva quell'ombra scura della radice dei capelli sulla sua testa calva, con quegli angoli da intellettuale, a destra e a sinistra, come mio padre. Poi mia sorella rientrò, perché l'orchestrina doveva suonare marcette due volte al giorno. Quell'orchestra era formata solo da dilettanti. Perciò Anita venne accolta con entusiasmo. Non era ancora una musicista professionista, ma era molto brava".

L'orchestrina doveva accompagnare musicalmente ogni giorno l'uscita e il rientro dei detenuti che lavoravano fuori dal lager, ma doveva anche suonare regolarmente per il personale delle SS. Mi pare che sua sorella abbia addirittura eseguito un assolo per il terribile medico del lager, Josef Mengele.
"Sì, la Träumerei di Schumann. Sono certa che l'ha eseguita magnificamente. Mengele non mi ha fatto niente personalmente, ma era un tipo orribile. Se c'è una cosa inconcepibile nei nazisti tedeschi, se si vuole parlare per cliché, è questa mescolanza di fanatismo assoluto, indottrinato da un folle, e questa estrema sensibilità romantica".

Dopo che ebbe ritrovato Anita, cosa le successe?
"Ricevetti degli orrendi vestiti, degli zoccoli. Era dicembre, un freddo gelido. E mi mandarono nella cosiddetta quarantena, che toccava a tutti i nuovi detenuti". 

Perché dovette andarci? 
"Forse quelli delle SS speravano che i prigionieri morissero prima di essere gassati, oppure avevano paura che essi portassero qualche infezione. Dormivamo in quelle cuccette di legno a tre piani. Le più deboli giacevano sempre al piano più basso, perché era più facile uscirne. Io, però, avevo ancora un po' di muscoli nelle gambe e finii nel piano più alto. C'era soltanto una coperta stracciata e un po' di paglia Non ero sola, eravamo in quattro, più o meno. Nella baracca c'era un enorme trogolo. Tutte avevano la diarrea, e c'era una puzza immonda, non la si può chiamare diversamente. Mi accorsi ben presto che le detenute si derubavano a vicenda".

Ma cosa c'era da rubare?
"Gli indumenti, oppure un pezzo di pane. Di notte non mi sono mai tolta le scarpe, perché temevo che altrimenti, quando mi fossi svegliata, non le avrei più trovate. Molti che ne avevano la possibilità scambiavano il cibo con le sigarette. Perché nel lager c'era tutto".

Tutto?
"C'era tutto. Sì, poi venne Natale e i tedeschi delle SS, sentimentali come quasi tutti i tedeschi, naturalmente hanno celebrato il Natale anche ad Auschwitz. Al centro del lager c'era un grande albero di Natale".

In quel piazzale dell'appello?
"Sì. Un enorme albero di Natale. Io, che ero una ragazzina, avevo una voce molto aggraziata ed ero stata scelta, anche grazie alle relazioni di mia sorella, per cantare la canzone di Natale sotto quell'albero".

Quale? 
"Leise rieselt der Schnee. Ma non se ne fece nulla, perché un giorno caddi a terra durante l'appello. E quando riaprii gli occhi ero nell'infermeria del lager. Pensai che era la fine. Nel mio letto c'era un'altra donna. Ma ormai era morta, giaceva senza vita accanto a me". 
(Tace).

Lei dice: pensai che era la fine...
"Sì, ero davvero molto malata, avevo la febbre, la diarrea e deliravo. Avevo il tifo esantematico. Molti di quelli che non sono stati uccisi sono morti di questa malattia. Un giorno entrarono le donne e gli uomini delle SS a ordinarci di lasciare i letti. Tra tutta quella gente smagrita selezionarono quelli che dovevano andare a destra e quelli che dovevano andare a sinistra. A sinistra significava gassazione. Io venni smistata immediatamente a sinistra. Allora reagii bene e, chinatami verso un SS che non sembrava particolarmente feroce, sussurrai: "Sono la sorella della violoncellista". Allora mi diede un calcio nel sedere e mi spedì dall'altra parte. Perciò devo la vita a mia sorella".
Anita Lasuer

Che però, per quanto la cosa possa suonare assurda, quei giorni desiderò la morte: così ha scritto nelle sue memorie.
"È vero. Eravamo delle larve. Non avevamo niente da mangiare e avevamo diarrea sanguinosa. Quando mia sorella mi vide in quelle condizioni miserabili voleva davvero che io mi addormentassi... e fine".

Ma sua sorella è andata poi da Maria Mandl, la sovrintendente del lager femminile. Ha raccolto tutto il suo coraggio e le ha chiesto di impiegarla come staffetta.
"E lo sono diventata: ho poi trasmesso messaggi tra gli SS. La Mandl preferiva mia sorella, perché era una delle poche che parlavano ancora correttamente tedesco. Ed era molto importante non mostrare paura. Non ne ho mai mostrata".

Era una donna rozza?
"No, affatto. Era una persona di bell'aspetto. La si vedeva poco, ma era là, quando quella ragazza ebrea a cui subentrai come interprete e il suo amico polacco furono impiccati".

Intende la belga Mala Zimerbaum? Potrebbe raccontare la sua storia?
"Dovevamo allinearci due volte al giorno davanti alla baracca, in file da cinque, dopodiché venivamo contati da un kapò e da una donna delle SS a cui era stato assegnato il comando di un blocco. Questo controllo durava molto a lungo, perché occorreva conteggiare chi era morto e chi era ancora vivo. Una sera rimanemmo in piedi per ore e non successe nulla. Poi risultò che nel campo degli uomini e in quello delle donne mancavano due persone".

Una per ogni campo? 
"Sì, da noi mancava Mala. E nel campo degli uomini questo Edeck".

Edek Galinski, il fidanzato di Mala. Questo caso è documentato.
"A quel punto suonarono le sirene. Erano scappati. Nelle nostre baracche improvvisammo danze di gioia, perché volevamo tutte bene a Mala. E pregammo soltanto che ce la facessero. Ma qualche giorno dopo, quando presi servizio, vidi Mala davanti al portone del lager. Credo che fosse incatenata".

La fuga era fallita.
"Quell'estate ad Auschwitz faceva un caldo terribile. Quando le passai davanti mi sussurrò qualcosa; non capii perfettamente, ma compresi che mi chiedeva di procurarle una lametta. Cercai di fargliela avere, ma senza successo. È chiaro, però, che qualcuno gliene procurò un'altra. Qualche giorno dopo ci fu un appello generale, di nuovo con le sirene. Nella piazza centrale del lager avevano innalzato una forca. Dovevamo assistere tutte a quella punizione esemplare e convincerci che nessuno aveva la possibilità di fuggire dal lager. Un uomo delle SS portò Mala sulla forca. Allora lei fece un balzo in avanti, si tagliò i polsi e schiaffeggiò quell'SS, che fu tutto macchiato di sangue, da capo a piedi. Però, Germany being Germany o, come diciamo noi, KZ being KZ, non le vollero concedere la morte di mano propria. Le bendarono le ferite, la portarono nel cortile del crematorio e le spararono. Poi sostituirono tutti i detenuti che avevano svolto funzioni maggiori e minori nel lager. Questi furono mandati a spaccare pietre. Ebbi di nuovo fortuna, poiché i sorveglianti sapevano che mia sorella suonava nell'orchestra. Pensarono: se una sta qui, l'altra non scapperà. Quindi ho ottenuto il lavoro di Mala".

Il gesto di ribellione di Mala vi ha impressionato?
"Sì, tremendamente. Ma era anche del tutto irrealistico immaginare che a qualcuno la fuga potesse riuscire".

Tra i detenuti c'era una qualche forma di solidarietà? Oppure ad Auschwitz ognuno pensava solo a se stesso?
"Ognuno pensava solo a se stesso, senza dubbio. Ma nella baracca di mia sorella c'era qualche ragazza che aveva fatto causa comune. Questo mi ha sempre impressionato molto. A parte mia sorella, erano tutte francesi. Una, che non dimenticherò mai, si chiamava Elaine, e anche nell'inverno più freddo si lavava con la neve. Noi non ci siamo più lavate, perché avevamo troppo prurito. Lei, però, si sfregava da cima a fondo con la neve, ogni giorno. Questo l'ha tenuta in vita. Inoltre era una buona violinista, anche questo l'ha aiutata".

E le ebree nelle loro baracche erano un po' solidali tra loro?
"Solo quando tra due nasceva un'amicizia. E poi quello che conta di più non è chi è solidale, ma chi odia al minimo e chi odia al massimo. Fa una grande differenza. Naturalmente, non si può dire: "tutti i polacchi, o tutti i russi ci hanno odiato". Ma dopo la guerra, durante una discussione, ho fatto un'osservazione che ha suscitato molta rabbia. Ho citato un esempio da Auschwitz, da me vissuto personalmente: uno o due giorni dopo il mio arrivo, c'erano vicino a me due ragazze polacche. E chiesi: "Da dove viene questa puzza terribile?". Era il camino del crematorio. Ne usciva un fumo untuoso, nero. E quelle risposero: "Sono i tuoi genitori, che passano per il camino". Se si è avuta un'esperienza del genere, si fa presto a generalizzare. Klaus, mio marito, diceva sempre, con un po' di ironia, che io sono razzista perché ce l'ho con i polacchi. Però adesso mi è passata".

I detenuti polacchi erano particolarmente astiosi?
"No. Le peggiori erano le russe. Erano le più forti".

Intende le detenute russe?
"Sì. Con i maschi non avevamo nulla a che fare. Le russe non hanno fatto che picchiarci e portarci via il pane. Cose del genere non si dimenticano. E non voglio nemmeno dimenticarle".

Ha mai colto un moto umano nei suoi guardiani?
"Sì, in un uomo delle SS, che rispondeva al bel nome di Kasernitzky. Accadde più tardi, a Belsen. Faceva la guardia quando provai ad andare a prendere di nascosto dell'acqua. Si girò dall'altra parte. L'acqua era tremendamente cara. E poi, quando lavoravo in ufficio a Belsen, c'era un poliziotto che mi metteva un gran pezzo di pane nel cassetto. Ogni giorno".

Sa perché lo faceva?
"Non lo so. Comunque, dopo la guerra mi ha chiesto una dichiarazione a suo favore. E sono stata contentissima di scrivergliela. Si era davvero comportato da brava persona. Quando tra il personale del lager di Belsen si diffusero le voci che la guerra per i tedeschi non stava andando molto bene, anche loro naturalmente diventarono più gentili. Non ci minacciavano più con i cani ed erano un po' meno brutali. Non ci fece una grande impressione, ma era così".

Come si spiega che quasi tutti i sorveglianti e le sorveglianti abbiano completamente ignorato quella sofferenza?
"Anche a me piacerebbe saperlo. Faccio una piccola digressione, Un giorno giunse ad Auschwitz un grande convoglio italiano. Per qualche motivo una bambina era sgattaiolata via: una bambina molto dolce, biondissima. Sicuramente non era arrivata da sola, ma improvvisamente me la sono vista vicina. E mi sono presa cura di quella bambina, lo posso ben dire. La trovavo incantevole. Aveva così fiducia in me. Le ho dato da mangiare, riuscivo a occuparmi di lei, perché avevo qualche libertà nel lager. Un giorno però ho perso di vista la piccola, mi ero ammalata di nuovo. Quando fui di nuovo in piedi avevano già ucciso la bambina. Per tornare alla sua domanda: come si può? Questo dipende un po' anche dalla mentalità delle diverse nazionalità. Non credo che in Italia - e anche lì tirava una brutta aria - avrebbero fatto cose così spaventose con i bambini".

Dei circa sei milioni di ebrei uccisi nell'Olocausto una vittima su quattro era un bambino. Crede che un simile orrore affondi le radici anche nella mentalità di un popolo?
"Anche, sì. In certe generazioni e in certi strati sociali".

Sa come si chiamava quella bambina italiana?
"Il nome cominciava con la emme. Marta, o qualcosa del genere. Era una bambina ebrea".

Nel lager, diceva, ci si poteva procurare tutto. Com'era possibile?
"Nel lager tutti i luoghi dove si lavorava avevano un nome. La baracca dove ci si poteva procurare tutto si chiamava "Canada". Alle persone che erano giunte nel lager avevano tolto tutte le loro cose. E molti detenuti, soprattutto polacchi e greci, si erano cuciti negli orli dei vestiti monete d'oro e cose simili. Tutto questo era immagazzinato in Canada. E i kapò, che tra i detenuti erano senz'altro quelli che se la passavano meglio, si prendevano tutte le cose che gli portavano i gruppi di prigionieri assegnati al Canada, alla cava di pietra o al campo. Questo era uno dei motivi per cui li detestavamo".

I kapò imboscavano tutto?
"Certo, certo".

E cosa se ne facevano di quella ricchezza?
"Corrompevano".

Cioè ottenevano una fetta di pane in più?
"Sì, sì. Avveniva attraverso cento canali. Purtroppo non sono mai riuscita a farlo. Ho rubato regolarmente una sola cosa: verdura fresca. Le detenute che lavoravano nel campo si nascondevano un mucchio di cipolle e di aglio. Era molto importante nel lager, poiché soffrivamo di una assoluta carenza di vitamine. All'improvviso mi erano comparsi dei buchi nelle gambe".

Piaghe da mancanza di vitamine?
"Sì, ho ancora le cicatrici. Ogni volta che questi gruppi di prigionieri tornavano dal campo venivano perquisiti e le cose fresche finivano in un mucchio. E quando i detenuti andavano nella baracca, noi messaggeri e staffette ci servivamo. Ne valeva la pena. Ma non ho mai visto un granello d'oro".

Mi rendo conto che questa domanda può suonare addirittura odiosa: ai tempi del lager ha mai fatto qualcosa di cui si vergogna?
"Sì. Lei la considererà una quisquilia, ma io me ne vergogno ancora oggi. Un giorno qualcuno - non so più chi - mi regalò una mezza tavoletta di cioccolata. Ero incredibilmente felice. Erano anni che non vedevo qualcosa del genere. E mi dissi: ora vado da Anita e ci dividiamo questa cioccolata. Invece, durante il cammino me la mangiai tutta quanta. È l'unica cosa di cui mi vergogno".

Una simile piccolezza!
"Ma dimostra mancanza di carattere e di disciplina. Non va".

Era possibile corrompere gli SS?
"Sì, perché non gridassero e non picchiassero le persone che non spalavano abbastanza velocemente. Dominava una brutalità inimmaginabile. Anita e io lo abbiamo visto in piccolo nel trasporto da Auschwitz a Belsen. Siamo state trasportate su un carro bestiame, ma abbiamo dovuto fare e piedi l'ultimo tratto".

Chilometri e chilometri...
"Fino a quando abbiamo raggiunto il campo di concentramento. E chi cadeva per strada e non riusciva più a rialzarsi semplicemente lo finivano... (si interrompe). A volte mi frena il timore di poter dire delle cose che in qualche modo potrebbero ferire".

Cosa intende?
"Non lo so. Perché abbiamo la tendenza a generalizzare - come prima, quando parlavo del fatto che i tedeschi amano tanto la musica. Ma tant'è: o si parla o non si parla".

Credo che lei non debba avere alcuna remora. La marcia verso Belsen è avvenuta nel 1944, da un inferno all'altro.
"A Belsen la gente non veniva più gasata, ma...". 

Moriva di malattia e debilitazione...
"Sì, e per il disgusto di se stessa. Eravamo così sudici. Eravamo pieni di pidocchi, avevamo sempre la diarrea. Le ragazze e le donne con il ciclo mestruale non avevano niente per... Però, c'era qualcosa nella minestra che bloccava le mestruazioni. La davano anche ai soldati al fronte. Non era acido cloridrico, ma una roba terribilmente salata. Non avevamo più nessuna volontà, non eravamo più in grado di fare niente, perché eravamo così disgustate di noi stesse. Anche questo non lo dimenticherò mai: questo disgusto di se stessi, l'orribile humiliation... come si dice?".

Umiliazione.
"... e l'umiliazione che ci hanno fatto subire. Non l'ho mai dimenticato e non lo voglio nemmeno dimenticare. Dopo la liberazione di Belsen, gli inglesi hanno fatto qualcosa di molto buono: hanno portato nel lager la gente del posto più vicino. Un ufficiale scozzese mi ha chiesto: "Vuoi che te ne tiri fuori qualcuno? Potete farne quello che volete". Gli ho risposto: "Grazie, ma non mi interessa affatto". Ho guardato quella gente come al cinema".

Come si comportarono quei tedeschi entrando nel lager?
"Hanno voltato lo sguardo, le donne senz'altro, e anche gli uomini, quando li hanno portati davanti alle fosse comuni. Per i cadaveri putrefatti, Belsen puzzava come non ho più sentito. Avevamo dovuto trascinare i cadaveri in quelle fosse. Ci avevano dato delle corde molto grosse con le quali dovevamo legare i polsi dei morti. Poi con quelle corde abbiamo trascinato i cadaveri attraverso il lager. Ma non ne potevamo più. Siamo riusciti a smaltire cinquanta cadaveri al giorno. Alla fine i morti furono spinti tutti assieme nelle fosse con i bulldozer. Bisognava tenere in ordine".

E quando i tedeschi di quel posto lì vicino hanno visto quei mucchi di cadaveri e le fosse: come hanno reagito?
"Non riuscivano a capire. Abitavano a pochi chilometri...". 

... e non sapevano?
"Ovviamente lo sapevano! Ma la gente aveva paura di dire qualcosa. È la miseria di tutte le dittature. Da un certo punto in poi non potevano mettere più piede nella Landa di Lüneburg. Romanticismo della brughiera del cavolo! Odio la Landa di Lüneburg e non voglio mai più rivederla. Abbiamo marciato per chilometri fino al lager. Anche attraverso i villaggi. Non mi dirà che i tedeschi non sapevano che c'era un campo di concentramento".

È vero che dopo la liberazione da parte degli inglesi è dovuta rimanere ancora un anno a Belsen?
"Sì, ma non è stato così brutto, perché non abbiamo più vissuto in una di quelle baracche. Grazie agli inglesi, abitavamo in una casa vera e propria. L'avevano sequestrata. Per i criteri di oggi era molto modesta, ma pur sempre una vera casa, con la cucina. Anita e io avevamo di nuovo un aspetto abbastanza curato. Avevamo di nuovo i capelli e indossavamo qualcosa di decente. Ed eravamo continuamente in viaggio. Mia sorella ha anche testimoniato nel primo tribunale per i crimini di guerra di Lüneburg". 

Dopo la guerra ha vissuto dapprima in Gran Bretagna, dove ha trovato lavoro presso il servizio tedesco della Bbc, in un primo momento come segretaria, poi come moderatrice. Successivamente, ha faticato molto per riavere il passaporto tedesco.
"Non avevamo più documenti, niente di niente. Poco prima della liberazione di Belsen le SS cercarono di bruciare tutto. Allora i pennacchi di fumo non uscivano dal crematorio, ma dall'ufficio. Ovunque svolazzavano qua e là pezzetti di carta bruciacchiati. Quando percorsi il viale del lager mi volò davanti ai piedi un documento un po' più integro. Lo raccolsi: era la mia carta d'identità tedesca".

Se lo si vedesse in un film, si direbbe...
"... che non può essere vero. Io, però, non ho conservato quel documento. A quel tempo non ero così sentimentale come forse lo sarei oggi. Quando poi Klaus e io ci siamo trasferiti a Colonia e io volevo riavere il mio passaporto tedesco, per principio, perché ne avevo diritto, dovetti riempire tanti di quei formulari che non si può immaginare. Ero stata incarcerata con l'accusa di falsificazione di passaporti. Un tribunale doveva emettere una sentenza. Sembrava uno scherzo. È andata avanti per molto".

Non ha tremato di rabbia? 
"No. Probabilmente questo è uno dei motivi per cui riesco a mantenere in una certa misura il controllo di me stessa. Non riuscivo più a irritarmi per cose del genere".

Le è stato difficile tornare in Germania?
"No. Ben presto dopo la liberazione mi sono imposta di non far decidere da Hitler il resto della mia vita. Per questo non ho avuto problemi con i giovani tedeschi che ho conosciuto nel servizio estero della Bbc di Londra. E mi trovavo bene anche con la maggior parte delle persone che lavoravano con me alla televisione tedesca, a Colonia. Avevo qualche problema con Höfer".

Il giornalista televisivo Werner Höfer? A quell'epoca certamente non si sapeva che nel 1943 aveva approvato la condanna a morte di un giovane pianista.
"No, allora non lo sapevo. Era stato invitato alla nostra festa di matrimonio a Colonia. Aveva bevuto uno sproposito, e mi stava addosso. Mi guardò fissa negli occhi e mi disse: "Bella ebrea". Roba da vomitare. Per il resto, però, non ho avuto difficoltà, come ho detto. Uno dei pochi vantaggi dell'età è il fatto che non ho più tollerato niente. Ultimamente sono andata in un caffè qui del posto, cosa che al contrario di Klaus faccio spesso, per incontrare degli amici".

Alla Croix-Velmer la conoscono molto bene...
"Ah sì, lì mi conoscono tutti. A un tavolo accanto al mio sedevano due brave persone che conoscevo e un terzo uomo, un vecchio bacucco. Parlavano della crisi economica. Allora ho sentito chiaramente qualcosa. Ho ancora un ottimo udito. E questo terzo si è messo a dire: "È tutta colpa degli ebrei!". Allora ho respirato profondamente, mi sono alzata e ho detto a quel tipo: "Le dispiace ripeterlo?". Ha borbottato qualcosa e se n'è andato. Con questa gente sbotto: "Non ho il naso adunco, non puzzo d'aglio. Che altro vuoi?"" 

Riescono le parole a descrivere l'orrore che lei e tanti altri avete sofferto ad Auschwitz? Alcuni, anche fra i sopravvissuti, dicono che la lingua non ne è capace.
"È vero".

Ma con i suoi racconti lei riesce a far rivivere quello che è successo ad Auschwitz e a Belsen.
"Trova? Dipende anche da chi ascolta. Tempo fa mi hanno chiesto di parlare in una scuola francese. Ho chiesto alla direttrice: "Come posso spiegare a bambini di dieci anni cos'è l'Olocausto?"".

Ci ha comunque provato?
"L'ho fatto, sì. La maestra mi ha tranquillizzato: "Questi bambini vedono cose terribili, alla televisione o su internet, e non si metteranno a gridare"". 

E come hanno reagito?
"Ieri ho incontrato al mercato due bambine di quella classe, graziosissime, con i capelli lunghi. La più grandicella ha detto: "Quello che ci ha raccontato è stato molto impressionante". Io volevo soprattutto che quei bambini non si annoiassero. È importante raccontare ai bambini di dieci anni storie dove c'è a little action (ride). Perciò dapprima ho raccontato a questa classe come ho ritrovato mia sorella, la storia delle scarpe. Ed è piaciuta molto. Poi ho raccontato come sono morti i miei genitori: "Non voglio spaventarvi; a voi non succederà niente di simile. Ma immagina che tua mamma e tuo papà...". Silenzio di tomba. Questo silenzio mi ha colpito molto, perché sapevo che i bambini ascoltano davvero".

Nelle poche interviste che ha rilasciato lei ha più volte preso in giro gli ex detenuti dei campi di concentramento che si scompigliano i capelli e piangono quando parlano di Auschwitz.
"Sì, questo mi fa impazzire".

Non ne hanno diritto?
"No".

Perché no?
"Non lo so, mi vergogno per loro quando lo vedo. Auschwitz non consente la commozione di vecchi e di vecchie. Io la penso così, ma forse sono ingiusta".

Deve fare i conti con un sentimento che ribolle anche in lei?
"Noo! Io ribollo quando vedo alla televisione le storie commoventi che non mi riguardano personalmente. Di recente hanno dedicato una settimana al tema del cancro e hanno trasmesso un film su un ospedale per bambini. Quando l'ho visto non ho potuto fare a meno di piangere amaramente. Forse ho pensato anche alla piccola italiana, è senz'altro possibile. Ma quando persone che hanno vissuto tutto questo e hanno raggiunto un'età avanzata si mettono al centro di un'ex baracca di Auschwitz e si scompigliano i capelli, non lo sopporto. In francese si dice pudeur".

Pudore.
"Proprio, grazie. Bisogna tenere il becco chiuso. O lo si fa, o si sta fuori. Quando tornai per la prima volta ad Auschwitz dopo la mia "vacanza" in quel posto, fummo invitati dall'ambasciata israeliana a Berlino. Anita e io abbiamo viaggiato attraverso quella campagna. Accompagnavo un ufficiale gravemente ferito nella guerra del Kippur che camminava a fatica. Con lui mi sono trattenuta ancora di più, perché sapevo che mia sorella gli avrebbe sicuramente parlato di quei tempi in modo diverso da me: più rigorosa, più intransigente, più emotiva".

Voleva evitare i sentimenti di sua sorella?
"Sì, in qualche modo volevo fare a modo mio. Quell'ufficiale aveva davvero vissuto in guerra cose terribili, ma non avrebbe potuto sopportare di attraversare quelle stanze: la stanza delle scarpe, quella dei capelli, la stanza con le  valigie. Quella che mi interessava di più era la stanza dei tatuaggi dove ho trovato le scarpe di Anita".

Crede ancora alle persone, in generale?
"No, per la verità no. Ho imparato a osservare attentamente. Ora vedo attraverso le persone. Sembrerà semplicistico, ma so già come si sarebbero comportati se fossero state sedute con me in una cella".

Lo  sente?
"Sì. Se la gente in qualche modo mi è antipatica. Allora mi chiedo: cosa farebbero? Mi farebbero qualcosa? Oppure: mi denuncerebbero perché ho mangiato tutta la cioccolata? Forse sono reazioni troppo elementari e troppo spontanee, ma perlopiù ci azzeccano".

© Die Zeit 2014 
*Giovanni di Lorenzo è direttore di "Die Zeit" 
(Traduzione di Carlo Sandrelli)
 

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...