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4.2.24

Annulla 850 Matrimoni Precoci e Rimanda Le Spose Bambine a Scuola, La Storia del Capotribù Theresa Kachindamoto

la  news    riportata  sotto   presa  da     https://www.youreduaction.it/   è senza  data  ma   da  alcune  ricerchè  la news  risalirebbe al   novembre    2023  ma  è semre attuale    perchè dimostra     come  l'africasta  cambiando   ed  come le  donne    quando  vogliono  sanno   governare   meglio  di noi uomuni  


 Da un’indagine svolta nel 2012 risulta che in Malawi, uno dei paesi più poveri del mondo, più della metà della popolazione femminile si sposa prima dei 18 anni.A
cercare di dissuadere i genitori delle giovani ragazze dal farle sposare così giovani sono molte organizzazioni; ma purtroppo la povertà spinge le famiglie a pensare di non poter fare altrimenti, poichè comunque i compensi economici derivanti da un matrimonio infantile sono anche molto alti.Ma da quando in un villaggio del Malawi, la più piccola di 12 fratelli, Theresa Kachindamoto, è diventata capotribù, molte cose sono cambiate. La sua reputazione positiva ha fatto sì che le venisse attribuito questo importante ruolo e, ‘volente o nolente’, le dissero, avrebbe dovuto accettare il lavoro affidatole.
Così Theresa Kachindamoto ha pensato bene di porre termine a questa pratica del matrimonio infantile, dichiarata illegale nel 2015, ma ancora molto presente. Viaggiando nella regione Theresa ha incontrato una bambina di 12 anni con il marito e i figli ed ha detto loro: ‘che vi piaccia o no, questo matrimonio sarà annullato‘.


È iniziata la serie di matrimoni annullati: nel suo villaggio composto da più di 900mila persone, Theresa Kachindamoto ha annullato 850 matrimoni di spose bambine e ha rimandato le ragazze a scuola. Purtroppo la mentalità delle persone non è però facile da cambiare e così diversi genitori hanno iniziato a protestare, ma lei si è rifiutata di ascoltarli. Ha piuttosto deciso di cambiare le leggi, così, stipulando un accordo con altri capitribù, ha abolito i matrimoni tra adulti e bambini e annullato quelli già esistenti.

Ciò ovviamente non è bastato, i genitori continuavano a dare le loro figlie in sposa, ma Theresa Kachindamoto ha licenziato i leader di quattro posti in cui ancora venivano effettuate queste pratiche. Sta anche tentando di sovvenzionare l’istruzione delle bambine quando i genitori non possono permetterselo e, nonostante le minacce di morte, lei va dritta per la sua strada.

Racconta: “Non mi importa. Dico che possiamo parlarne, ma che queste bambine devono tornare a scuola. Istruire le bambine, istruire l’intera regione… istruire il mondo”. È così che, senza paura, Theresa Kachindamoto fa del bene al Malawi e, in fondo, al mondo intero. Non sempre gli eroi indossano un mantello.

4.7.21

dobbiamo accettare il fatto che le donne a volte ed in certe situazioni sono meglio degli uomini . il caso del'agente Sara che convince un assasinio barricato in casa a consegnarsi ed evitare il peggio



di cosa stiamo parlando

repubblica   4\7\2021

"Quei 13 minuti al telefono con l'uomo che ha sparato al padre". Il racconto dell'agente Sara: "Così l'ho convinto a consegnarsi" Venerdì pomeriggio, un tentato omicidio nel quartiere Cep dopo l'ennesimo litigio. Il genitore voleva indietro la casa. Dopo il colpo di pistola, l'uomo si è barricato in casa

                                           di Salvo Palazzolo

«Al telefono urlava: “Ho sparato a mio padre. Ho ancora la pistola in mano”. E in sottofondo sentivo i pianti di una donna e di un bambino. In una manciata di secondi, ho dovuto trovare il modo per entrare in relazione con quell'uomo. Intanto, facendolo calmare». Sara è abituata a conoscere le persone dalla loro voce, è una delle poliziotte della centrale operativa della questura. Venerdì pomeriggio, è stata lei a rispondere a Emanuele Presti, il ventinovenne che ha telefonato al 112 subito dopo avere sparato al padre dal balcone, al termine dell’ennesima lite.



«Era parecchio agitato — racconta la poliziotta — mentre i miei colleghi e l’ambulanza correvano verso via Barisano da Trani, al Cep, io dovevo cercare di fargli posare quell’arma».Questa è la storia di un uomo disperato. E della donna che l’ha tirato fuori dal baratro in cui era finito. Una storia racchiusa in una telefonata durata 13 minuti. «Interminabili», dice Sara. E il finale non era affatto scontato. «Perché l’uomo continuava a tenere in mano quella pistola, mentre dalla finestra guardava il padre riverso in una pozza di sangue, gravemente ferito». Emanuele Presti, disoccupato con precedenti penali per porto abusivo d’arma e resistenza a pubblico ufficiale, ha sparato al padre Giuseppe che continuava a insistere per riavere indietro l’appartamento del Cep. «Al telefono urlava ancora: “Vuole buttare fuori di casa me e la mia famiglia. E io cosa farò?”».
Sara ha iniziato a dare del “tu” ad Emanuele. «A quel punto era necessario stabilire un rapporto di fiducia con questa persona esasperata — spiega — gli ho detto: “Ascoltami, seguimi, io sono qui per aiutarti. Innanzitutto, pensa a un posto sicuro dove puoi conservare la pistola, in modo che nessuno si faccia male”. Per un attimo non ha detto più nulla, poi mi ha risposto: “L’ho messa in un cassetto”. E ha rilanciato: “Ora, cosa faccio?”».Sara, assistente capo dell’Ufficio prevenzione generale della questura, racconta che le parole degli uomini che si sono persi nelle strade di Palermo sono un filo sottilissimo, può rompersi da un momento all’altro. «Durante i giorni del lockdown, arrivò al 112 la telefonata di un uomo che annunciava il suicidio. Ma non voleva dire dove si trovava. Poco a poco, ho conquistato la sua fiducia». Come ha fatto? «Ascoltando la sua storia». E poi le ha detto dove si trovava? «Sì, ma per fermare il gesto estremo voleva che andassi io incontro a lui. Gli ho spiegato che stava arrivando una mia collega bravissima. E si è convinto».Cosa è accaduto, invece, ad Emanuele Presti? «Continuava ad essere barricato in casa. Anche lui voleva che andassi io. Perché avevo ascoltato con pazienza la sua storia e si fidava di me».
Intanto, mentre Sara è al telefono, in via Barisano da Trani, la polizia si prepara al peggio. Una decina di volanti schierate, agenti con i giubbotti antiproiettili e pistole a tiro. Ma anche una telefonata dietro l’altra al 112: le voci del Cep, tutto schierato con il padre. «Quello è un uomo violento — dicevano — quello ammazza qualcun altro». La centrale decide di mandare altri rinforzi. Ma, al momento, nessuno si deve muovere. Tutto è nelle mani di Sara. «Ho continuato a rasserenare Emanuele — racconta lei — ma insisteva: “Non voglio scendere”. Gli ho detto: “Adesso, dobbiamo pensare a tua moglie e ai bambini. Sono spaventati. Io e i miei colleghi ci prenderemo cura di loro”». Ed è stata la frase determinante. Ascoltando il racconto di Sara si capisce perché. La donna che dal 2011 raccoglie le voci di Palermo non è solo una poliziotta di 42 anni che ha lavorato a lungo nelle strade di questa città, è anche la mamma di un bambino. «Io cerco sempre di ascoltare le persone che incontro — sussurra lei — per il resto, faccio parte di una squadra che lavora per la propria comunità».Emanuele ha aperto la porta di casa. «Aveva sempre il telefono in mano e continuava a dirmi di avere paura di uscire. Ma passo dopo passo si è convinto». Forse, temeva una reazione del quartiere. Poco fuori l’androne, i poliziotti l’hanno fermato e velocemente sono andati via.Ora, Presti è accusato di tentato omicidio. Suo padre è ricoverato in gravissime condizioni a Villa Sofia. I poliziotti delle Volanti e i colleghi della sezione Omicidi della squadra mobile hanno trovato non solo la pistola che il giovane aveva sistemato nel cassetto, ma anche un altro revolver, risultato rubato nel 2011. Sara, invece, si sta preparando per un altro turno in centrale, alla caserma Lungaro. Con i suoi colleghi della Prima squadra delle Volanti.

11.6.20

Il gelato sopravvissuto alla Guerra e all'alluvione (grazie a una donna)E che ora portano avanti i nipoti in una delle migliori gelaterie d'Italia, da Bepi a Padova



canzoni suggerite 



per  ricominciare  o almeno  provarci   a tornare  ,anche se  niente  sarà più come prima  , alla normalità    dopo il codiv 19    ecco  una  storia     di  chi   ha  saputo  dopo la  II  guerra mondiale ed  l'alluvione  del polesine    ,  rincominciare .



 da  repubblica  del 11\6\2020
Il gelato sopravvissuto alla Guerra e all'alluvione (grazie a una donna)
Il sogno di un giovane gelatiere veneto, ostacolato dal conflitto mondiale e dal Po che ruppe gli argini, che ha saputo ricominciare ogni volta con la tenacia della signora Pasqua. E che ora portano avanti i nipoti in una delle migliori gelaterie d'Italia, da Bepi a Padova
                                   DI ELEONORA COZZELLA

“Portare nel futuro il gelato del mio passato” è la missione di Jacopo Braggion che col fratello minore Nicolò continua l'attività e la filosofia di famiglia, raccogliendo un’eredità importante, lunga 83 anni, per una missione precisa: “Offrire lo stesso gelato che faceva mio nonno. Siamo puristi, integralisti del gelato, partiamo da zero, dalla materia prima, pochissimi ingredienti e 18 ore di lavoro al giorno. Se non facessi così tradirei la fiducia dei nostri clienti e l’insegnamento dei miei nonni”.
Questa missione ha un angelo custode, la bisnonna Pasqua, protagonista suo malgrado di una storia che inizia nel 1937.
Due anni prima che scoppiasse il secondo conflitto mondiale, ad Adria, in provincia di Rovigo, viene inaugurato un chiosco di gelati e dolciumi. Ad alzare la piccola saracinesca è Giuseppe Braggion, che con la moglie Pasqua è orgoglioso di essere riuscito a comprare la regina delle "motogelatiere", l'ormai storica Cattabriga da banco, per creare i suoi gelati.
Inizia allora la sua avventura e pensa sia la realizzazione di un sogno, e impara presto a fare gusti squisiti. Così, nonostante in quegli anni girino pochi soldi, l’attività prospera. Ma ecco che, mentre inizia a godersi un po' di benessere, Giuseppe è chiamato dall’esercito.

Deve appendere al muro la giacca bianca da gelatiere e indossare la divisa, posare la spatola e imbracciare il fucile. Con lui al fronte, ad occuparsi degli affari resta la moglie, che si chiama Pasqua perché è nata il 4 aprile del 1920. Ha solo 19 anni, ma con piglio imprenditoriale si rimbocca le maniche - come hanno fatto moltissime donne in tempi di guerra - e insieme alle sorelle e alle sue cognate prende in mano la piccola attività.
  da  https://www.tripadvisor.it/

Il gruppo di donne è talmente in gamba, che prima che la guerra finisca riesce ad aprire un’altra gelateria: non più un chiosco, ma un vero e proprio locale con 150 posti a sedere. Lavorano giorno e notte. Alla fine del conflitto mondiale, dopo anni di assenza, quando Giuseppe ritorna a casa ferito, ritrova non solo il suo chiosco, ma anche la grande novità nella centralissima piazza Mazzini.


Il gelato dei Braggion piace, tant’è vero che pian piano acquistano delle lambrette che adibiscono a carrettini per la vendita dei gelati “a domicilio”. Chi non è più giovanissimo ricorderà il carretto dei gelati, il richiamo con la campanella del gelataio che passava tra le vie. Ecco, la squadra di Braggion non faceva eccezione: davanti alle scuole, nei parchi, nelle piazze dei paesi limitrofi e della costa adriatica. Le lambrette di Giuseppe e Pasqua si moltiplicano: nel 1951 sono ben 18.
Da soli sei anni era finita la seconda guerra mondiale con i suoi 60 milioni di morti, ma i sopravvissuti pur sfiniti, stavano ricostruendo un Paese pieni di speranza. E tutto sembrava filare finalmente liscio quando in una tremenda notte del novembre 1951 il Po rompe gli argini e invade terre, boschi, paesi, città. Il 52% dell’intero Polesine fu spazzato via. Le cronache del 18 novembre riportano queste parole: “dopo millenni di storia viva, Adria diverrà una città morta. Se le acque si ritireranno, i suoi trentamila abitanti, che la amavano e sognavano che ridiventasse una città di traffici, di cultura, di opera, non vi potranno mettere piede. Tanto tempo questa gente dovrà rimanere lontana, quante cose care dovrà lasciare!”.
Tanti non sono mai tornati.


Ad essere spazzato via anche il chiosco di gelati e la gelateria artigianale che con tanta fatica le donne della famiglia Braggion avevano custodito negli anni della guerra e rilanciato nel dopoguerra. L’alluvione, racconta oggi il bisnipote Jacopo -  “portò con sé non solo le gelaterie, ma anche tutti i sogni e le speranze di una vita finalmente serena”.
Per cinque anni tutta la famiglia si è spostata in varie regioni d’Italia, sfollata come ai tempi di guerra. Giuseppe ha 72 mila lire in tasca e una grande voglia di non arrendersi. Sceglie come sua nuova città Padova per ricominciare. 
Giuseppe ha un chiodo fisso: riprendere il mestiere che ama e conosce bene. “Mio nonno, deciso nonostante tutto, che fare il gelato sarebbe stato il nostro futuro - racconta Jacopo - comincia a riflettere su come potersi attrezzare per iniziare una nuova realtà lavorativa a Padova”. Il problema però era che non aveva più nulla: perdute la motogelatiera, le lambrette, le poche finanze. L’unico bene rimasto era un vecchio motocarro, un Motom 48 cc.
Come ricostruisce nei suoi libri la storica Luciana Polliotti, massima espera di storia del gelato internazionale e curatrice del Museo del Gelato Carpigiani,  "a un certo punto Giuseppe era venuto a sapere che a Bologna i fratelli Bruto e Poerio Carpigiani avevano brevettato una nuova macchina per fare il gelato, una Autogelatiera che lo lavorava davvero bene, come piaceva a lui, e possedevano un’officina a Bologna.
Decide di provarci:  sale sul suo Motom e va a Bologna. Ad accoglierlo nella storica ditta bolognese però non ci sono entrambi i fratelli, perché Bruto, che aveva progettato la Autogelatiera, era deceduto nel 1945 a seguito di una malattia. Fu, quindi, solo Poerio a raccogliere le confidenze di Giuseppe: la situazione tragica in cui si trovava la sua famiglia a causa dell’alluvione, il dolore di non poter provvedere al mantenimento dei figli, la paura di perdere l’unico bene che gli era rimasto: la sua dignità. Risulta persuasivo e ottiene un’Autogelatiera, una L16 da banco (gli appassionati sanno che si tratta di un gioiello), per ricominciare, con la promessa che l'avrebbe pagata quando si fosse rimesso in piedi. Così quella L16 nuova di zecca segna l’inizio di una nuova vita".
Ora la Gelateria Braggion ha compiuto 83 anni di attività, fiera che nel conteggio compaiano anche gli anni di Adria.
Quella macchina, con il suo libretto di istruzioni originale, è ancora esposta nella gelateria in segno di gratitudine. Con la L16 sono esposti anche decine di oggetti per la produzione del gelato e il suo modellaggio che Jacopo e Nicolò, i nipoti di Giuseppe, hanno raccolto in questi anni.
La “bottega” come detto prima è oggi dei fratelli Jacopo e Nicolò Braggion, i nipoti di quei nonni leggendari e figli di Giovanni. Ne hanno fatto un luogo che vale la pena visitare, sia per la qualità del gelato - insuperabile la fragola nei mesi di maggio e giugno, come il sorbetto di melograno in inverno -  ma anche perché è un tuffo nei ricordi, per l'arredamento e  gli oggetti da collezione, strumenti di lavoro ormai antichi, in una specie di piccolo museo organizzato da Sarah, moglie di Jacopo, architetta.
Oggi come allora solo materie prime fresche, preparazioni fatte a mano rifuggendo da qualsivoglia addensante, semilavorato, prodotto trasformato altrove. Per esempio, "la settimana prossima usciamo con la mora di Vignola Igp - spiega Jacopo - una ciliegia eccezionale che mi costa 10 euro al chilo e che la mattina vado a comprare al mercato alle 6, per essere il primo a scegliere. Potrei usarne di altro tipo, potrei usarne di surgelate, potrei usare delle puree già pronte. Ma tradirei il mio cliente. Impiego tre ragazzi solo a mondarle a mano una a una. Costa più degli altri? Certo. Ma ogni cliente è felice, perché sa che sta mangiando un prodotto unico. Vengono dalle altre regioni con le borse frigo a fare scorta".
E la filosofia produttiva dei fratelli si fonda sulla tradizione ma anche su un continuo desiderio di innovazione e di didattica. "Mia nonna - ricorda ancora Jacopo - mi diceva sempre di non portarmi nella tomba il nostro sistema di produzione, sennò non lascia nulla". Così per diffondere il verbo del gelato puro i fratelli hanno creato uno spazio del laboratorio dove, in bassa stagione, a numero chiuso, fanno corsi di gelato. Quel gelato di assoluta digeribilità, che lascia "pulizia in bocca, il gusto intatto della materia prima, nessuna sensazione di grasso o sete".
In gelateria non mancano mai i classici: pistacchio, nocciola, cioccolato fondente, ma anche - dice Jacopo - "un fiore, un formaggio e una verdura sempre a banco (a seconda delle stagioni, sedano, zucca, salvia), ma la mia soddisfazione più grande sono la frutta. Richiede tantissima manodopera ma dà tantissima soddisfazione assaporare la schiettezza di un'anguria, un melone, un melograno. La chiave è la semplicità".
Nel laboratorio a vista sono continuamente in movimento ben quattro pastorizzatori e quattro mantecatori; una cella frigorifera contiene grandi quantità di frutta di stagione. Tre volte al giorno il gelato esce fresco di macchina per essere venduto immediatamente e, raccontano i fratelli, a volte non fanno i tempo a metterlo nelle carapine che è già finito. I gelati "gastronomici" - comunemente detti 'salati' - sono stati introdotti dal papà Giovanni: salmone, funghi porcini, Gorgonzola, Parmigiano, zucca, patata americana, e ancora rosa, gelsomino, rosmarino. Nel laboratorio sono in bella vista grandi barattoli di vetro contenenti petali di rosa, fiori di gelsomino, foglie di salvia e quant’altro possa occorrere per realizzare gli infusi.
A suo modoinfatti anche il papà, Giovanni Braggion, è stato un grande innovatore e ha raccolto molti riconoscimenti e in tempi non sospetti, come l’Oscar per il gelato al sedano nel 1976 e nel ’77 per il sorbetto alla grappa; ha ricevuto un attestato dell’Accademia della cucina Triveneto, quali primo e unico produttore di gelato gastronomico a “ciclo continuo”. Inoltre, visite, articoli, citazioni e riprese da parte di reti televisive internazionali.
Jacopo e Nicolò non fanno eccezione e portano avanti la loro battaglia del gelato, con la mentalità che è ancora quella dei nonni, quella che "la fatica paga". È un gelato diverso da tutti quelli in circolazione, sottolinea Jacopo: "meno arioso e un po’ più freddo, all’inizio si sente quasi lo choc. Ma poi il palato e la pancia ringraziano. Sono bravi tutti a fare un gelato goloso con una lista ingredienti di 19-20 prodotti".
La vera difficoltà insomma, è essere semplici.

     

7.1.20

10 trucchi per scacciare la malinconia dopo le feste

La giornata dell'epifania , l'ultima di queste feste natalizie sta per finire e nolenti e volenti si ritorna alla solita routine. Ed ecco che ti assale la malinconia . Ed come al solito sarà combattuta \ affrontata grazie ai consigli femminili , perchè le donne riescono a riprendersi meglio di noi , infatti , trovo e condivido con voi tutti\e questo articolo che trovate sotto di un inserto femminile .

da   https://d.repubblica.it/  A CURA DI MARISA LABANCA
Post vacation blues, 10 trucchi per scacciare la malinconia dopo le feste

     Se tornare alla normalità vi rende terribilmente tristi, non fatene un dramma. Con i suggerimenti della psicologa è possibile affrontare la quotidianità con nuova grinta ed entusiasmo, senza dover aspettare le prossime vacanze
Avete iniziato il 2020 avvolti da una strana malinconia? È il "post vacation blues", quella lieve depressione che capita di provare quando le feste finiscono e si deve tornare alla quotidianità. La psicologa Pauline Walline, autrice del saggio "Taming your inner brat: a guide for transforming self-defeating behavior" ("Addomestica il tuo io viziato: una guida per trasformare i comportamenti controproducenti"), svela i trucchi per scacciare la tristezza e prepararsi al rientro con grinta ed entusiasmo. Primo fra tutti è fondamentale "porsi nuovi obiettivi professionali e personali", che siano un cambio di lavoro, un avanzamento di carriera o anche una migliore gestione del proprio tempo. Avere nuovi stimoli alimenta l'energia e la vitalità.E non dimenticate: quando pensate al ritorno alla normalità, non considerate solo gli aspetti negativi ma anche quelle piccole gioie quotidiane, come pranzare con le colleghe o prendere un caffé con un'amica

eco sempre  dallo stesso   articolo  come


"1. Distillate il mix di sensazioni


Quando si affaccia alla mente il pensiero della ripresa, cercate di identificare i diversi sentimenti che lo compongono. Fra gli “ingredienti” ci sono senz’altro il rimpianto per la fine delle vacanze, la nostalgia per il distacco dagli amici o dalla natura, la preoccupazione per la gestione di giornate ricche di impegni, lo stress legato al lavoro e, magari, ai rapporti difficili con i colleghi. “Nella gestione dello stress, l’attenzione è lo strumento più importante che possediamo”, commenta Audrey Favreau, business executive coach con una specializzazione nello stress management (www.myessencecoach.it). “Prendere consapevolezza del proprio stato fisico, mentale ed emotivo, dunque, aiuta a ritrovare il centro, l’equilibro”. Per farlo, bastano cinque minuti di calma: “Chiudete gli occhi da sedute o sdraiate e osservate la velocità della vostra mente, le tensioni fisiche e lo stato emotivo. È il cosiddetto “Effetto Hawtowne”, un concetto delle neuroscienze che spiega come, quando misuriamo qualcosa, portiamo consapevolezza su ciò che facciamo e quindi cambiamo il nostro rapporto con ciò che stiamo misurando”.

2. Giocate d’anticipo


“Organizzatevi per arrivare presto”, propone Favreau. Non solo perché un inizio trafelato (corsa fra mezzi pubblici affollati? Slalom in strade piene di traffico?) espone a una quantità di stress aggiuntivo che si potrebbe evitare, ma anche perché quei dieci o quindici minuti di anticipo sulla tabella di marcia consueta possono fare una seria differenza nella qualità della giornata. Le mattine, per esempio, sono il canvas perfetto per praticare un po’ di mindfulness nel percorso casa-ufficio. Basta esercitare la consapevolezza di se stesse, dell’ambiente circostante, del proprio respiro e delle proprie sensazioni per arrivare al lavoro cariche di energia e positività. Un ufficio vuoto, inoltre, permette di impostare la propria giornata con maggiore tranquillità.",

3. Assicuratevi una transizione soft

Evitate di immergervi a testa bassa nella solita routine: pianificate piuttosto qualcosa a cui guardare con attesa per i primi giorni post-rientro per diluire la fatica della ripresa. Per esempio, uscite a cena con la famiglia invece di cucinare, andate al cinema, prenotate una manicure, invitate un’amica per un aperitivo. A proposito, fra le ragioni che aumentano la motivazione sul lavoro ci sono anche i colleghi: per il 44% delle donne intervistate in uno studio dell’Università del Kent, il piacere di ritrovarsi fra persone amiche conta di più dello stipendio (41%). In base al tipo di lavoro che svolgete, valutate se lasciare in funzione l’autoreply delle email e la segreteria telefonica per avere qualche ora di tranquillità in più dopo il rientro.",
4. Trasformate il vostro spazio


Ancora prima di accendere il computer, guardate con occhi neutri la vostra zona di lavoro. È molto probabile che, se non avete messo in ordine in modo radicale prima di partire, sentirete la necessità di farlo adesso. Se questo è il caso, procedete senza indugi: eliminare tutto quello che non è necessario alla propria attività è liberatorio, energizzante e stimola la voglia di prendere decisioni. Giornali, riviste, decorazioni e gadget, ma anche oggetti in numero superiore a quelli necessari si possono cestinare senza pensieri. In uno spazio di lavoro dove avete a disposizione solamente gli strumenti veramente utili alla giornata, mettete al centro un’immagine che avete portato dalle vacanze e che vi ispira (una foto, una cartolina, un messaggio): vi servirà per allargare lo sguardo e ritrovare un approccio positivo alle cose, quando ce ne sarà bisogno.
5. Gestite le email (invece di farvi gestire)

Un lungo elenco di posta in arrivo è sufficiente per far sentire prepotente il desiderio di rimandare l’apertura dei messaggi. Dunque, evitate la formula del tutto e subito: “Utilizzate per le e-mail un tipo di lettura veloce. Cioè, passate in rassegna i destinatari e l’oggetto del messaggio, eliminate direttamente quelle che non sembrano interessanti. Nel caso in cui vi sarà sfuggito qualcosa di urgente o di importante, la persona che vi scrive si metterà nuovamente in contatto con voi”, suggerisce Favreau. Analogamente, quando scrivete un messaggio, impegnatevi per tagliare il 50% del testo che scrivereste normalmente.
  6. Tenete le distanze dallo smartphone


“Abbiamo bisogno di essere presenti”, avverte il coach. Dunque, evitate di consultare il vostro smartphone, scegliete l’opzione “non disturbare” escludendo i numeri dei famigliari e, se proprio non riuscite a resistere alla tentazione di buttare un occhio allo schermo, chiudete il telefono in un cassetto: vi risparmierete un sovraccarico di informazione stancante. Lo smartphone, infatti, è una fra le fonti principali di distrazione: le ultime statistiche degli utenti americani rivelano che, in media, si passano ogni giorno tre ore e quaranta minuti in compagnia del proprio smartphone e l’intrattenimento (gaming, Youtube, Facebook e social) rappresenta il 66% della fruizione totale. E non è vero che il cellulare serva per lavoro: le app per la produttività, infatti, catalizzano solo il 4% del tempo di utilizzo
7. Stabilite gli obiettivi

Ricordate che la risorsa più importante a vostra disposizione sul lavoro è il tempo, quindi definite tre obiettivi per la giornata e mettetevi subito all’opera, partendo dalla voce che richiede più impegno. Se fosse complessa, potete suddividerla in più parti. Da un punto di vista psicologico, aiuta di più cominciare dal compito che appare più arduo: smaltita la parte più difficile, il resto sarà in discesa. “Per valutare la gestione della concentrazione in relazione alle cose che richiedono il vostro intervento, potete aiutarvi con il “Modello di Covey”. Si tratta di una matrice a quattro quadranti che facilita l’individuazione delle priorità, perché permette di classificare i compiti in base all’importanza e all’urgenza”, spiega l’esperta. Catalogare le voci che riempiono la propria giornata, infatti, mette in evidenza come utilizziamo il nostro tempo e aiuta a ri-orientare le scelte.
8. Cambiate prospettiva

È vero: con ogni probabilità, in vacanza si stava meglio, ma invece di contemplare il bicchiere mezzo vuoto, invertite la rotta. Smettete, dunque, di ripetervi in loop tutte le ragioni per cui siete infelici di essere tornate a casa e al lavoro e provate piuttosto a identificare tre ragioni per cui siete particolarmente grate di essere partite. Una volta in cui le avete individuate, fate un ulteriore passo avanti e riflettete sulle ragioni per cui siete grate del fatto di essere (e avere) al lavoro. La gratitudine non è un esercizio fine a se stesso, ma è uno fra i principali alleati del nostro benessere. La gratitudine, infatti, riduce lo stress, migliora l’autostima, i rapporti interpersonali e la resistenza di fronte alle difficoltà. Addirittura, come ha scoperto Robert Emmons, professore di psicologia alla Davis University of California, e uno fra i massimi esperti sull’argomento, le persone che praticano deliberatamente un atteggiamento di gratitudine sono il 25% più felici di chi si focalizza sui problemi.
9. Lasciate il lavoro al lavoro


Capitalizzate il vantaggio di aver staccato la spina durante le vacanze ed evitate di portare a casa delle cose da fare: chiudete la porta dell’ufficio e lasciatevi il lavoro alle spalle. Volendo, potete aggiungere una nota in calce alle vostre email che indichi gli orari in cui siete raggiungibili. Come ha scoperto un team di ricercatori dell’University of California, Irvine, essere sempre raggiungibili è controproducente: controllare costantemente la posta elettronica, infatti, aumenta il battito cardiaco e mette in una condizione di allerta senza fine. Evitate anche gli straordinari: una gestione più disciplinata delle ore lavorative significa meno distrazioni, meno procrastinazione e più concentrazione. E il lavoro fatto meglio diventa più leggero."


10. Coltivate le buone abitudini
“Se avete utilizzato le vacanze per adottare nuove buone abitudini, mantenetele”, invita Favreau. La prima e più importante è ritagliarsi dello spazio per sé: bastano venti minuti di relax al giorno per fare la differenza. “Intendiamoci: non si tratta di mettersi davanti alla tv o navigare sui social, ma di scegliere un’attività che rilassi il sistema nervoso a cui bastano venti minuti per calmarsi”. 


Una soluzione facile è la posizione yoga savasana: ci si sdraia supine su un tappetino o sul letto, al buio e senza rumori, tenendo le braccia staccate dal corpo con un angolo a 45 gradi, le gambe e i piedi divaricati, le palme delle mani aperte verso l’alto e il mento leggermente rivolto verso il basso. “Dopo un profondo periodo di rilassamento, tutte le misure fisiologiche dello stress sono ridotte e gli impegni di tutti i giorni sono più facili da gestire”, conclude il coach.Tornare al lavoro è un lavoro. Sì, perché riorganizzarsi dopo la pausa natalizia (guarda il nostro speciale Natale) è un’attività soggetta a venti contrari che possono far alzare il livello di ansia ancora prima dell’arrivo in città. Nel mondo anglosassone, esiste addirittura un termine specifico per definire questo stato d’animo: è il “post-vacation blues”. Se è vero che l’intensità dei sentimenti provati in reazione al ritorno è legata alla lunghezza e alla distanza del viaggio, le modalità del rientro non aiutano certo a ricominciare. Tendenzialmente, infatti, la transizione dal tempo libero al tempo del lavoro è troppo brusca, specie per chi si è lasciato poco tempo per vuotare i bagagli prima di tornare dietro a una scrivania. E in ogni caso, resta il fatto che barattare la libertà con gli impegni si traduce in un alto costo psicologico. Per chi, almeno una volta, si è chiesta se una vacanza valga la difficoltà della ripresa, ecco dieci idee smart per minimizzare l’impatto del rientro, una scelta (quasi sempre) inevitabile"

26.8.17

Da 'Cosa pensano le ragazze' a 'Lievito Madre': a Venezia il docufilm che racconta le madri del Novecento


uciana Castellina: «Il matrimonio? È il cappello con la piuma che indossai il giorno delle nozze, un’unione che cercai perché volevo avere figli». Natalia Aspesi: «Mi sveglio la mattina e sono calma, serena. So di non avere un futuro, ma ho un presente». Adele Cambria: «No, non avrei mai rinunciato a essere intelligente». Piera Degli Esposti: «Avrei voluto che il sogno rimanesse alla porta». Sincere, allegramente appassionate e serenamente consapevoli, le ragazze del secolo scorso si raccontano in Lievito madre, documentario di Concita De Gregorio ed Esmeralda Calabria che nasce da una costola del progetto Cosa pensano le ragazze, quattro anni di interviste a donne di ogni età pubblicate su Repubblica.it. «L’idea è di risalire alla sorgente dei giorni presenti» spiega De Gregorio, «il racconto di speranze, desideri, paure e dell’idea di futuro delle donne italiane, quando il futuro si è compiuto e sono i loro volti a dirci com’è andata».
 



Il film sarà proiettato sabato 2 settembre alla 74ª Mostra del cinema di Venezia. A fondersi con i racconti delle quindici intervistate su temi pubblici e privati (il lavoro, la politica, il sesso, la solitudine, la presa di coscienza) ci sono i filmini di famiglia, un’Italia che scorre dagli anni Venti ai Novanta, ragazzine a giocare in spiaggia in costume, piccole spose nel giorno della comunione, in braccio alle mamme in giardino, riflessioni ingenue sul futuro. Su vite che sarebbero poi state molto diverse l’una dall’altra. Per dire: Benedetta Barzini modella, Emma Bonino politica, Lea Vergine critica d’arte, Dacia Maraini scrittrice, Giulia Maria Crespi imprenditrice, Esterina Respizzi mondina, Giovanna Tedde contadina.

«Ho avuto molte volte la tentazione di tagliarmi le tette per non farmi riconoscere» racconta Luciana Castellina, «avrei voluto mettere in clandestinità il mio essere donna per non avere imbarazzi, problemi…Ci ho messo molto a capire che il problema non era somigliare agli uomini ma far valere la differenza». Giovanna Marini e l’incontro con le femministe: «Mi chiamarono a Bologna. Sono andata, ho cantato le mie ballate, ma loro trovavano che non erano scritte con lingua femminile… Ho detto: io sono un uomo in realtà, avevo i coglioni e me li hanno tagliati. Mi sembrava molto spiritoso ma a loro non piacque per niente».

E ancora. Nada e il rapporto con il corpo: «Mi piaccio, anche perché in fondo non mi sono mai piaciuta, nel senso che non mi sono mai sentita bella, ma nemmeno brutta. La mia sensazione è di non sentirmi e quindi sto bene, sono libera». La regista Cecilia Mangini e il primo amore: «Avevo 7 anni ed ero innamora del Corsaro nero, per me esisteva veramente. Avevo una tendenza a non tenere conto della realtà che poi mi ha accompagnato per sempre». Inge Feltrinelli e l’adorato figlio Carlo: «Non sono stata una buona madre, ma sono stata una donna divertente».

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...