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11.6.20

Il gelato sopravvissuto alla Guerra e all'alluvione (grazie a una donna)E che ora portano avanti i nipoti in una delle migliori gelaterie d'Italia, da Bepi a Padova



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per  ricominciare  o almeno  provarci   a tornare  ,anche se  niente  sarà più come prima  , alla normalità    dopo il codiv 19    ecco  una  storia     di  chi   ha  saputo  dopo la  II  guerra mondiale ed  l'alluvione  del polesine    ,  rincominciare .



 da  repubblica  del 11\6\2020
Il gelato sopravvissuto alla Guerra e all'alluvione (grazie a una donna)
Il sogno di un giovane gelatiere veneto, ostacolato dal conflitto mondiale e dal Po che ruppe gli argini, che ha saputo ricominciare ogni volta con la tenacia della signora Pasqua. E che ora portano avanti i nipoti in una delle migliori gelaterie d'Italia, da Bepi a Padova
                                   DI ELEONORA COZZELLA

“Portare nel futuro il gelato del mio passato” è la missione di Jacopo Braggion che col fratello minore Nicolò continua l'attività e la filosofia di famiglia, raccogliendo un’eredità importante, lunga 83 anni, per una missione precisa: “Offrire lo stesso gelato che faceva mio nonno. Siamo puristi, integralisti del gelato, partiamo da zero, dalla materia prima, pochissimi ingredienti e 18 ore di lavoro al giorno. Se non facessi così tradirei la fiducia dei nostri clienti e l’insegnamento dei miei nonni”.
Questa missione ha un angelo custode, la bisnonna Pasqua, protagonista suo malgrado di una storia che inizia nel 1937.
Due anni prima che scoppiasse il secondo conflitto mondiale, ad Adria, in provincia di Rovigo, viene inaugurato un chiosco di gelati e dolciumi. Ad alzare la piccola saracinesca è Giuseppe Braggion, che con la moglie Pasqua è orgoglioso di essere riuscito a comprare la regina delle "motogelatiere", l'ormai storica Cattabriga da banco, per creare i suoi gelati.
Inizia allora la sua avventura e pensa sia la realizzazione di un sogno, e impara presto a fare gusti squisiti. Così, nonostante in quegli anni girino pochi soldi, l’attività prospera. Ma ecco che, mentre inizia a godersi un po' di benessere, Giuseppe è chiamato dall’esercito.

Deve appendere al muro la giacca bianca da gelatiere e indossare la divisa, posare la spatola e imbracciare il fucile. Con lui al fronte, ad occuparsi degli affari resta la moglie, che si chiama Pasqua perché è nata il 4 aprile del 1920. Ha solo 19 anni, ma con piglio imprenditoriale si rimbocca le maniche - come hanno fatto moltissime donne in tempi di guerra - e insieme alle sorelle e alle sue cognate prende in mano la piccola attività.
  da  https://www.tripadvisor.it/

Il gruppo di donne è talmente in gamba, che prima che la guerra finisca riesce ad aprire un’altra gelateria: non più un chiosco, ma un vero e proprio locale con 150 posti a sedere. Lavorano giorno e notte. Alla fine del conflitto mondiale, dopo anni di assenza, quando Giuseppe ritorna a casa ferito, ritrova non solo il suo chiosco, ma anche la grande novità nella centralissima piazza Mazzini.


Il gelato dei Braggion piace, tant’è vero che pian piano acquistano delle lambrette che adibiscono a carrettini per la vendita dei gelati “a domicilio”. Chi non è più giovanissimo ricorderà il carretto dei gelati, il richiamo con la campanella del gelataio che passava tra le vie. Ecco, la squadra di Braggion non faceva eccezione: davanti alle scuole, nei parchi, nelle piazze dei paesi limitrofi e della costa adriatica. Le lambrette di Giuseppe e Pasqua si moltiplicano: nel 1951 sono ben 18.
Da soli sei anni era finita la seconda guerra mondiale con i suoi 60 milioni di morti, ma i sopravvissuti pur sfiniti, stavano ricostruendo un Paese pieni di speranza. E tutto sembrava filare finalmente liscio quando in una tremenda notte del novembre 1951 il Po rompe gli argini e invade terre, boschi, paesi, città. Il 52% dell’intero Polesine fu spazzato via. Le cronache del 18 novembre riportano queste parole: “dopo millenni di storia viva, Adria diverrà una città morta. Se le acque si ritireranno, i suoi trentamila abitanti, che la amavano e sognavano che ridiventasse una città di traffici, di cultura, di opera, non vi potranno mettere piede. Tanto tempo questa gente dovrà rimanere lontana, quante cose care dovrà lasciare!”.
Tanti non sono mai tornati.


Ad essere spazzato via anche il chiosco di gelati e la gelateria artigianale che con tanta fatica le donne della famiglia Braggion avevano custodito negli anni della guerra e rilanciato nel dopoguerra. L’alluvione, racconta oggi il bisnipote Jacopo -  “portò con sé non solo le gelaterie, ma anche tutti i sogni e le speranze di una vita finalmente serena”.
Per cinque anni tutta la famiglia si è spostata in varie regioni d’Italia, sfollata come ai tempi di guerra. Giuseppe ha 72 mila lire in tasca e una grande voglia di non arrendersi. Sceglie come sua nuova città Padova per ricominciare. 
Giuseppe ha un chiodo fisso: riprendere il mestiere che ama e conosce bene. “Mio nonno, deciso nonostante tutto, che fare il gelato sarebbe stato il nostro futuro - racconta Jacopo - comincia a riflettere su come potersi attrezzare per iniziare una nuova realtà lavorativa a Padova”. Il problema però era che non aveva più nulla: perdute la motogelatiera, le lambrette, le poche finanze. L’unico bene rimasto era un vecchio motocarro, un Motom 48 cc.
Come ricostruisce nei suoi libri la storica Luciana Polliotti, massima espera di storia del gelato internazionale e curatrice del Museo del Gelato Carpigiani,  "a un certo punto Giuseppe era venuto a sapere che a Bologna i fratelli Bruto e Poerio Carpigiani avevano brevettato una nuova macchina per fare il gelato, una Autogelatiera che lo lavorava davvero bene, come piaceva a lui, e possedevano un’officina a Bologna.
Decide di provarci:  sale sul suo Motom e va a Bologna. Ad accoglierlo nella storica ditta bolognese però non ci sono entrambi i fratelli, perché Bruto, che aveva progettato la Autogelatiera, era deceduto nel 1945 a seguito di una malattia. Fu, quindi, solo Poerio a raccogliere le confidenze di Giuseppe: la situazione tragica in cui si trovava la sua famiglia a causa dell’alluvione, il dolore di non poter provvedere al mantenimento dei figli, la paura di perdere l’unico bene che gli era rimasto: la sua dignità. Risulta persuasivo e ottiene un’Autogelatiera, una L16 da banco (gli appassionati sanno che si tratta di un gioiello), per ricominciare, con la promessa che l'avrebbe pagata quando si fosse rimesso in piedi. Così quella L16 nuova di zecca segna l’inizio di una nuova vita".
Ora la Gelateria Braggion ha compiuto 83 anni di attività, fiera che nel conteggio compaiano anche gli anni di Adria.
Quella macchina, con il suo libretto di istruzioni originale, è ancora esposta nella gelateria in segno di gratitudine. Con la L16 sono esposti anche decine di oggetti per la produzione del gelato e il suo modellaggio che Jacopo e Nicolò, i nipoti di Giuseppe, hanno raccolto in questi anni.
La “bottega” come detto prima è oggi dei fratelli Jacopo e Nicolò Braggion, i nipoti di quei nonni leggendari e figli di Giovanni. Ne hanno fatto un luogo che vale la pena visitare, sia per la qualità del gelato - insuperabile la fragola nei mesi di maggio e giugno, come il sorbetto di melograno in inverno -  ma anche perché è un tuffo nei ricordi, per l'arredamento e  gli oggetti da collezione, strumenti di lavoro ormai antichi, in una specie di piccolo museo organizzato da Sarah, moglie di Jacopo, architetta.
Oggi come allora solo materie prime fresche, preparazioni fatte a mano rifuggendo da qualsivoglia addensante, semilavorato, prodotto trasformato altrove. Per esempio, "la settimana prossima usciamo con la mora di Vignola Igp - spiega Jacopo - una ciliegia eccezionale che mi costa 10 euro al chilo e che la mattina vado a comprare al mercato alle 6, per essere il primo a scegliere. Potrei usarne di altro tipo, potrei usarne di surgelate, potrei usare delle puree già pronte. Ma tradirei il mio cliente. Impiego tre ragazzi solo a mondarle a mano una a una. Costa più degli altri? Certo. Ma ogni cliente è felice, perché sa che sta mangiando un prodotto unico. Vengono dalle altre regioni con le borse frigo a fare scorta".
E la filosofia produttiva dei fratelli si fonda sulla tradizione ma anche su un continuo desiderio di innovazione e di didattica. "Mia nonna - ricorda ancora Jacopo - mi diceva sempre di non portarmi nella tomba il nostro sistema di produzione, sennò non lascia nulla". Così per diffondere il verbo del gelato puro i fratelli hanno creato uno spazio del laboratorio dove, in bassa stagione, a numero chiuso, fanno corsi di gelato. Quel gelato di assoluta digeribilità, che lascia "pulizia in bocca, il gusto intatto della materia prima, nessuna sensazione di grasso o sete".
In gelateria non mancano mai i classici: pistacchio, nocciola, cioccolato fondente, ma anche - dice Jacopo - "un fiore, un formaggio e una verdura sempre a banco (a seconda delle stagioni, sedano, zucca, salvia), ma la mia soddisfazione più grande sono la frutta. Richiede tantissima manodopera ma dà tantissima soddisfazione assaporare la schiettezza di un'anguria, un melone, un melograno. La chiave è la semplicità".
Nel laboratorio a vista sono continuamente in movimento ben quattro pastorizzatori e quattro mantecatori; una cella frigorifera contiene grandi quantità di frutta di stagione. Tre volte al giorno il gelato esce fresco di macchina per essere venduto immediatamente e, raccontano i fratelli, a volte non fanno i tempo a metterlo nelle carapine che è già finito. I gelati "gastronomici" - comunemente detti 'salati' - sono stati introdotti dal papà Giovanni: salmone, funghi porcini, Gorgonzola, Parmigiano, zucca, patata americana, e ancora rosa, gelsomino, rosmarino. Nel laboratorio sono in bella vista grandi barattoli di vetro contenenti petali di rosa, fiori di gelsomino, foglie di salvia e quant’altro possa occorrere per realizzare gli infusi.
A suo modoinfatti anche il papà, Giovanni Braggion, è stato un grande innovatore e ha raccolto molti riconoscimenti e in tempi non sospetti, come l’Oscar per il gelato al sedano nel 1976 e nel ’77 per il sorbetto alla grappa; ha ricevuto un attestato dell’Accademia della cucina Triveneto, quali primo e unico produttore di gelato gastronomico a “ciclo continuo”. Inoltre, visite, articoli, citazioni e riprese da parte di reti televisive internazionali.
Jacopo e Nicolò non fanno eccezione e portano avanti la loro battaglia del gelato, con la mentalità che è ancora quella dei nonni, quella che "la fatica paga". È un gelato diverso da tutti quelli in circolazione, sottolinea Jacopo: "meno arioso e un po’ più freddo, all’inizio si sente quasi lo choc. Ma poi il palato e la pancia ringraziano. Sono bravi tutti a fare un gelato goloso con una lista ingredienti di 19-20 prodotti".
La vera difficoltà insomma, è essere semplici.

     

20.4.18

Ancora qui - Il pastificio simbolo dell'orgoglio sannita: "L'alluvione de 2015 non ci ha fermato" ed altre storie

 questa  3  puntata   dello speciale  di repubblica   che trovare  sotto   mi ricorda   come anche la  ditta ( un azienda  florovivaistica  ) della  mia  famiglia  si e ripresa  dopo   due    tristi  eventi   che  colpirono  non  solo  la  mia zona    ma   l'intera  sardegna 


 il  primo  l'incendio  o meglio  un estate  di  fuoco    che  raggiunse  il  culmine   il  28  luglio    1983  


All'epoca avevo 19 anni e decisamente ben più tollerante al caldo di come non lo sia oggi. Era il 1983 e abitavo in una località del sassarese in Sardegna, epicentro dell'ondata di calore peggiore anche di quella del Luglio 2003.Allora non c'era Internet per avere informazioni. NIENTE, c'erano solo le previsioni meteo della RAI, e siccome era Estate, venivano annunciate dalle signorine "buona sera".Probabilmente era il 18 Luglio quando vidi il termometro della mia stazione meteo toccare la fatidica soglia di 40°C attorno alle 18, salendo di botto di 10°C, dato che alle 16 c'erano 30°C.Tale fenomeno, per la mia esperienza di allora, era davvero raro, in quanto i pomeriggio erano quasi sempre refrigerati dalla brezza, ma quel giorno no, un vento rovente si mise a soffiare da est, sputando il calore dell'interno verso la costa.Poi seppi che una stazione meteo dell'aeronautica militare (se non erro era Capo San Lorenzo), quel pomeriggio misurò 47°C.Un valore assurdo per la Sardegna.La sera, come ero solito fare, uscii con gli amici, ma il caldo non mollava, rammento ancor oggi che l'aria soffiava bollente e bruciava la pelle. Il caldo era asfissiante e secchissimo anche alle 23, e quando tornai a casa il termometro misurava 36°C.La notte fu caldissima, ed il mattino dopo la temperatura minima fu di 31°C. Un valore minimo che non avevo mai visto prima di quel giorno.Quel mattino, il sole appariva di un colore insolito, quasi sangue, ed era immerso in un cielo appannato di arancione. Era giunta un'ondata di calore epocale e l'atmosfera era spettrale.La gente iniziò a parlare di caldo, chi aveva un termometro lo portò in cortile, per strada per misurare la temperatura. Il caldo era il tema di quei giorni.Il mio termometro, posto nella stazione meteo che anni addietro avevo costruito in legno e dipinto di vernice bianca di barca, quel pomeriggio segnò 44°C.Mi pareva un sogno, un incubo, un non so che.Quel pomeriggio uscivo varie volte dal relativo fresco di casa per vedere il termometro, e l'aria che mi veniva addosso sembrava venire da un grande braciere di carbone ardente.Ero molto incuriosito dall'evento, e come spesso avveniva, ascoltavo ogni pomeriggio RADIO TG3, edizione regionale (Sardegna), che trasmetteva il bollettino meteo e le temperature appena registrate.I valori letti dal giornalista facevano accapponare la pelle. E la notizia del giorno era il caldo. Ma anche il caldo a quei valori fa venire "la pelle d'oca". Non so perché, ma a me succedeva così, ed è una sensazione che ho provato anche in seguito con 42 gradi.Quei giorni la tipica brezza sparì, ma anche il vento iniziò soffiare debole, per poi intensificarsi a fine luglio.Rammento che in quei giorni, Videolina, la prima tv privata della regione, trasmise vari servizi dell'ondata di calore, ed appresi che gli allevamenti di polli del Campidano avevano visto decimata la popolazione.A migliaia e migliaia furono gli animali da cortile a morire di caldo, in specialmodo gli negli allevamenti, al chiuso.Ma non morivano di caldo solo gli animali, e si iniziò a parlare di persone che morivano durante il lavoro. Spesso erano operai costretti a lavorare sotto quel sole cocente, oppure persone anziane.Ma l'evento più drammatico stava per iniziare, era quello degli incendi. Già dal primo giorno di caldo si erano avuti i primi incendi, ma questi si erano man mano ingigantiti e aggredivano zone sempre più ampie.Il cielo era ovattato di fumo, e si sentiva un odore acre di incendio. Dal cielo iniziarono a cadere ceneri. Una mattina gli oggetti posti all'esterno era lievemente velati di fuliggine. Erano le ceneri dei boschi secolari che andavano a fuoco.Il caldo non passava, le notti erano caldissime, il mio termometro non scese mai sotto la soglia di 30°C in tutto il periodo di quel luglio, per 15 giorni (sino ai primi di agosto) misurai sempre massime oltre i 40°C e minime sempre superiori ai 30.Anche le case iniziarono a divenire bollenti, e tante famiglie dormivano in cortile perché in casa era impossibile prender sonno. C'è chi iniziò ad accusare anche danni ai mobili in massello, alle porte, in quanto il legno si spaccava dal gran calore.Non rammento il giorno esatto, ma vi fu una recrudescenza dell'ondata di caldo per effetto anche degli incendi ormai sempre più aggressivi. E una notte la minima fu di 35°C e di giorno vidi il termometro di mercurio salire a 45°C. Forse era il 28 luglio 1983.Nessuno dava previsioni su quando sarebbe finito quel supplizio.Si sopravviveva, diverse imprese edilizie, visti gli svenimenti degli operai, decisero di sospendere i lavori.Alcuni ospedali chiusero per caldo dei reparti. Di certo la climatizzazione non era disponibile come lo è oggi.La gente moriva di caldo, ed anche i giornali locali iniziarono a parlare di evento storico. In alcuni paesi si passò da una media di un funerale alla settimana ad un funerale al giorno.Si viveva un evento tragico che fu culminò da una notizia gravissima: nella zona di Tempio Pausania, città del nord Sardegna, gli incendi che non davano tregua ai boschi secolari, circondarono un folto gruppo di persone che cercavano di spegnere un incendio.E' l'incendio noto come di Curraggia, era il 28 luglio 1983.
immagine 1 articolo 39097La morte a Curraggia.L'incendio provocò 9 morti e 15 feriti tra le persone che cercavano di spegnerlo. Tra le varie ipotesi sulle le cause che scatenarono le fiamme, l'opera dei piromani è una certezza. Le concause furono le alte temperature estive di quei giorni e il vento che soffiava impetuoso.Le fiamme partirono dal mare, si fecero largo tra strade, boschi e arbusti in direzione di Tempio Pausania fino ad arrivare nelle campagne di Bortigiadas e di Aggius per poi propagarsi sulla collina di Curraggia.Con l'allarme diffuso dal suono delle campane, si organizzarono rifornimenti sul luogo dell'incendio, cibi e bevande di conforto per gli operatori accorsi. Tra i volontari che si prestarono alla lotta contro le fiamme, pochi erano dotati di equipaggiamento adatto: alcuni di loro cercavano di domare le fiamme in ciabatte, vestiti con pantaloncini e maglietta.Numerosi furono i soccorritori accorsi da tutta la Sardegna, uomini e mezzi del corpo forestale dello stato, dei Vigili del fuoco e delle compagnie municipali antincendio. Diversi di questi uomini, operatori e volontari, furono improvvisamente accerchiati dal fuoco che provocò 9 morti e 15 feriti. (Fonte Wikipedia).I notiziari iniziarono a parlare diffusamente della situazione di emergenza, e ovunque (specie nei paesi) si aveva paura degli incendi.La Sardegna era in fiamme, bruciava l'aria, bruciava la terra, bruciavano le persone.Dopo oltre due settimane il caldo iniziò ad attenuarsi, ed il termometro scese decisamente sotto i 40°C, ma ci volle un'altra settimana prima di avere valori termici più consoni per il periodo per quelle zone, ovvero di 29°C gradi di massima.Articolo redatto da un appassionato lettore del Meteo Giornale.

e le  famose  nevicate   del 1985

  ma  ora   basta  parlare  di cose  tristki e  riprendiamo l'argomento  del titolo


Centosessanta anni di pasta, un'alluvione che spazza via tutto e un pastificio che non si arrende. È la storia della Rummo di Benevento, azienda di maestri pastai nata nel 1846 accanto a un fiume e tramandata di padre in figlio per sei generazioni. Dai mulini alla tecnologia, la Rummo ha attraversato oltre un secolo e mezzo senza mai piegarsi a terremoti e calamità. Ma nella notte tra il 14 e il 15 ottobre 2015 una bomba d'acqua ha colpito il Sannio: in poche ore è precipitata la pioggia che in genere cade in un mese. L'esondazione del fiume Calore e dei suoi affluenti ha messo in ginocchio l'intera provincia. Un'onda di fango e detriti ha distrutto il pastificio, terrorizzando 20 operai che si trovavano all'interno e provocando 40 milioni di danni. La famiglia Rummo non si è persa d'animo e la rinascita è diventata simbolo dell'orgoglio sannita. Con l'aiuto dei dipendenti e di mille volontari giunti da tutta Italia, l'azienda ha raccolto e smaltito 115 autotreni di fango. La produzione di pasta non si è mai fermata: è continuata in altre aziende subito dopo l'alluvione ed è tornata nello stabilimento Rummo a marzo 2016. 


Intanto una gara di solidarietà nata spontaneamente sul web ha dato l'energia giusta per la ripresa: migliaia di persone e volti noti come Fiorello hanno sostenuto l'acquisto della pasta sannita pubblicando foto in rete dietro l'hashtag "Save Rummo". "L'aiuto della gente è stato fondamentale - dice Cosimo Rummo, presidente e amministratore delegato - non ci siamo mai arresi". Prima dell'alluvione il pastificio sannita produceva 100mila tonnellate di pasta l'anno, oggi arriva a 70mila.

«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

  corriere  della sera   tramite  msn.it  \  bing    Rahma Nur insegna italiano, storia e inglese alla scuola elementare Fabrizio De André d...