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28.1.14

la guerra vista dagli indiani . gli indiani raccontano la famosa battaglia di little bing

da  la   domenica   di repubblica del 26.1.2014

N,b 
Raccolti in A Lakota War Book
from The Little Bighorn 
(Peabody Museum Press) 
i disegni qui pubblicati
sono stati ritrovati nella tomba 
di un capo indiano sepolto
a Little Bighorn . 
E qui  gli ho   riportati tramite  il cattura immagine  \ Png      se  ai puristi non dovesse piacere come gli ho riportasti    può andare  all'articolo  originale dell'inserto 



Battaglie, libere cavalcate e battute di caccia. Riemergono dopo quasi un secolo di oblio  
le imprese dei nativi americani negli anni di Little Bighorn 
Stavolta non raccontate dalla propaganda dei film americani 
ma disegnate su taccuini rubati ai “visi pallidi” da guerrieri Sioux e Cheyenne

SIEGMUND GINZBERG

Il giornalista ci ricamò  una storia. Mischiò notizie  vere ad altre di sua invenzione. Scrisse che  l’album era stato rinvenuto  in una sepoltura indiana
a Little Bighorn, il sito della battaglia  in cui i Sioux avevano annientato Custer  e il suo Settimo Cavalleggeri. Ed era  vero. Che i disegni erano stati eseguiti sulle pagine di un libro mastro sottratto a un viaggiatore bianco ucciso su uno dei più famosi sentieri per il West, il Bozeman trail. Ed era vero. Che la serie di settantasette disegni rappresentava le
gesta, era l’autobiografia, di un capo di nome Mezza Luna. Era solo verosimile.
Ledger books vengono chiamati gli  album disegnati dagli “indiani” di metà Ottocento sulle pagine già  usate di quaderni e registri contabili (ledger appunto), o addirittura sui
fogli dei ruolini dell’esercito  Usa, spesso sovrapponendoli a quanto vi potesse  già essere scritto. Il “supporto” artistico era preda di guerra,  e ciò ne aumentava enormemente  il valore agli occhi dei possessori. 
Esattamente come per gli indiani delle  praterie i cavalli sottratti ai bianchi, o meglio ancora acquisiti in combattimento, valevano molto più di quelli domati da un branco selvaggio. Era una  questione di status, anzi di logo, di marca, verrebbe da dire. Al punto che, in  mancanza di prede con marchi autentici,i giovani guerrieri solevano dipingere il marchio “US Army” sui propri cavalli.
È il western per una volta raccontato dagli invasi (i nativi) e non dagli invasori (i coloni europei difesi dall’esercito),la guerra raccontata dagli sconfitti e non dai vincitori. Dipingere o farsi dipingere le proprie imprese di guerra e i propri fatti di coraggio, su quaderni e registri sottratti ai bianchi, non era  solo un must, lo status symbol per eccellenza. Era anche possesso  di un oggetto magico,propiziatorio.


Anche se a un certo punto  divenne scomodo, perché gli album  cominciarono a essere usati nei processi come prova di partecipazione a banda armata.
Tra i molti album del genere che si sono conservati,questo le cui immagini qui pubblichiamo è ancora più speciale.
Perché non è opera di un unico autore. È uno scambio di cortesie cerimoniali a più mani. Gli 
artisti, Sioux e Cheyenne, che raccontano le proprie imprese o quelle dei propri amici, in questa raccolta sono almeno sei. E uno di loro potrebbe essere niente meno che il leggendario capo guerriero Nuvola Rossa. Così almeno sostiene l’antropologo Castle McLaughlin  nel suo dotto commento alla riproduzione a stampa dell’album, col titolo A Lakota War Book from The Little Bighorn pubblicato dalla Peabody Museum Press e dalla Houghton Library dell’Università di Harvard che ne detiene l’originale. Il sottotitolo: The Pictographic“Autobiography of Half Moon”,si riferisce al titolo che alla raccolta era stato dato da un reporter del Chicago Tribune, inviato (oggi si direbbe embedded)
al seguito delle truppe dell’esercito impegnate contro le tribù di indiani, che l’aveva fatta rilegare elegantemente,aggiungendovi una sua introduzione in bella calligrafia. Phocion
Howard - questo lo pseudonimo con cui il giornalista firmava dal fronte - sosteneva di aver avuto i disegni da un sergente del Secondo Cavalleria, uno dei reparti arrivati sul campo della battaglia di Little Bighorn in soccorso di Custer quando ormai il generale e il suo reparto erano stati annientati, il 28 giugno 1876. Il quaderno da contabile a righine
con le pagine dipinte faceva parte del corredo funerario di un capo indiano,rimasto ucciso probabilmente in un altro scontro, di appena qualche giorno prima.
Era frequente che i soldati blu recuperassero come souvenir dai cadaveri e dai monumenti funerari degli indiani uccisi album di disegni tipo questo.
Talvolta venivano venduti ai turisti, altre volte considerati carta straccia con scarabocchi. Questo si salvò, anzi fu curato con un eccesso di attenzioni.
Howard lo fece smembrare e ricomporre in modo che sembrasse un’unica narrazione autobiografica.
E si inventò un personaggio  
inesistente. Per sbaglio, perché aveva equivocato come nome proprio un simbolo di mezza luna su uno dei dipinti. 
Oppure perché riteneva che potesse interessare maggiormente se rispondeva ai gusti di una narrazione all’europea.
Oppure forse perché sperava
che potesse riscuotere un successo di pubblico simile a quello di un’altra “biografia per immagini” che fece furore sulla stampa americana proprio nei giorni successivi allo shock per la fine di Custer e dei suoi soldati: quella di Toro Seduto. Era stato il New York Herald a
pubblicare il 9 luglio 1876, giusto pochi giorni dopo Little Bighorn, alcuni dei disegni di «fatti di sangue, crudeltà, ruberie, disumanità,barbarie» tratti dall'autobiografia disegnata di suo pugno del gran capo Sioux. Era un modo per incitare all’odio nei confronti dei “pellerossa” e a farla finita una volta per tutte con quei “selvaggi”, responsabili di tali atrocità. E in effetti l’essersi poi arreso,anzi integrato fino al punto di esibirsi nel circo
di Buffalo Bill, non aveva evitato al vecchio e moderato Toro Seduto di fare la fine di Osama bin Laden. Esattamente come finì ammazzato,quando si era già consegnato,l’irriducibile “testa calda” Cavalo Pazzo.Non a caso era stato lo stesso giornale a condurre una campagna contro la “politica di pace” di Washington nei confronti dei “ribelli”, denunciando —con l’aiuto di Custer, che quasi ci rimise la carriera per l’indiscrezione — lo scandalo di un traffico di licenze sulle riserve indiane in cui era implicato lo stesso fratello del presidente Grant.
L’album, il ledger book di Howard,aveva invece il difetto di evocare al pubblicopiù l’eroismo romantico dell’Ultimo mohicano di Fenimore Cooper che l’orrore per la barbarie del selvaggio.

Illustra le imprese compiute negli  anni delle “guerre di Nuvola Rossa”, nel  corso del decennio precedente i fatti di  Little Bighorn. Fatti militari, certo, ma  anche imprese di caccia, dove l’elemento  principale non è affatto la crudeltà  o la truculenza ma il coraggio. Scorre sangue, vengono uccisi soldati e ufficiali in divisa, anche civili e donne, e soprattutto altri indiani: le odiate guide  Shoshone che accompagnavano la cavalleria  Usa, o membri di tribù avversarie  dei Sioux. Ma l’accento è immancabilmente  sul coraggio, sul cavalcare in  mezzo a nugoli di frecce e proiettili, sul
rubare sotto il fuoco i cavalli e i muli dell’esercito, sull'aiutare i compagni che hanno perso la cavalcatura, sulla pratica del “contare i colpi” sul nemico, semplicemente toccandolo, mentre è ancora vivo o impugna un’arma, con la punta della lancia o dell’arco. Per questi cavalieri della prateria la guerra è un gioco, un rito, una questione di faccia e di onore, un po’ come i romanzi europei ci avevano fatto immaginare dovesse  esserlo per i cavalieri erranti del medioevo.  C’è anche una storia d’amore,
di rapimento della donzella da parte  dell’innamorato, ma solo in un disegno  su settantasette. Ma non è neppure solo un romanzo,  una graphic novel. Il curatore insiste
con dovizia di argomenti, attenzione meticolosa ai particolari (dalle armi al  vestiario, alle finiture dei cavalli e ai colori di guerra) a trattarlo come un eccezionale documento storico, legato a  fatti e protagonisti storici. Eppure nel  suo secolo ebbe notorietà brevissima. Passò di mano in mano prima di arrivare nel 1930 alla biblioteca dell’Università di Harvard. E lì fu dimenticato per  quasi un secolo. Malgrado l’America
avesse nel frattempo riscoperto una nostalgia struggente per la civiltà sottoposta a sterminio etnico dei suoi cavalieri della prateria.


                                L’alfabeto delle grandi pianure                                                               VITTORIO ZUCCONI                                              

In principio era l’immagine. Non erano la parola, il verbo, ma le immagini che accendevano l’universo materiale e spirituale dei popoli delle grandi pianure, che segnavano la loro identità di Piccole Lune, Grandi Alci, Cavalli Pazzi, Volpe Macchiata, che marcavano il tempo e il gelo degli inverni, che ricordavano ai bambini gli eventi straordinari, come “la notte in cui cadde il cielo”, quando centinaia di meteoriti illuminarono il buio della prateria nel 1870. E, naturalmente,le guerre.
Per la nazione che noi chiamiamo, da una storpiatura francofona, Sioux, per i Lakota, come loro si chiamano, per i loro alleati Cheyenne e Arapaho, il 25 giugno del 1876 fu una sequenza di immagini, da narrare per generazioni sulle pelli di bisonte e di daino e da leggere come ai nostri scolari si leggono le imprese di Giulio Cesare o le Guerre d’Indipendenza. Quando i primi distaccamenti del Settimo Cavalleria attaccarono il grande campo estivo nel territorio del Montana, scatenando due giorni di massacri per proteggere dallo sterminio i cinquemila fra bambini,vecchi e donne raccolti là, non c’erano storici con papiri e tavolette di cera per registrare l’ultima vittoria del popolo della prateria e lo sterminio della colonna del colonnello George Armstrong Custer. C’erano uomini, stranamente sempre e soltanto uomini, incaricati d’imprimersi nella memoria quello che avrebbero poi trascritto nei pittogrammi sulle pelli e sulla carta.L’alfabeto dei nativi del Nord America, che non avevano lingua scritta, era quello. In attesa di traslitterare nei caratteri latini degli invasori le loro parole, l’immagine era la storia, il video,la sequenza, a volte lineare, altre volte chiusa nei cerchi concentrici dei calendari, per dare il senso del tempo come nei tronchi d’albero. Segnalavano le rotte, i percorsi, le transumanze dei bisonti, graffiati in permanenza sulle rocce. Avvertivano dei pericoli, di possibili agguati dei “dragoni” in blu, dipinti su pelli fermate da sassi, che gli altri Lakota — ma non i bianchi — sapevano leggere e interpretare, misurando l’imminenza del rischio dalla freschezza delle pelli e dei segni. Non c’è neppure bisogno di essere un Lakota, un Oglala, un Cheyenne per capire la potenza immemore delle immagini. Sulle rive del contorto Little Bighorn, oltre le fila di lapidi bianche che segnalano le tombe dei 263 soldati condotti alla morte da Custer (ma non la sua, che è all'Accademia di West Point), c’è una fossa di terra, come una trincea improvvisata. Fu in quella buca, scavata nella terra soffice dell’estate, che il distaccamento di rinforzo del colonnello Reno, prudentemente rimasto indietro, resistette per due giorni alla furia degli indiani. Sui bordi della buca, nel lato rivolto verso il fiume del sangue, ancora oggi, un secolo e mezzo più tardi, si vedono bene le fossette scavate dai soldati per usarle come cavalletti naturali, per poggiare le loro carabine e mirare meglio, risparmiando le scarse munizioni. Neppure l’erba, che nel gelo del grande nord cresce avara, le ha nascoste. Guardandole, si sentono gli spari, le grida dei feriti,gli ordini, le urla terrorizzanti — e terrorizzate — dei guerrieri lanciati sulla collina. Perché avevano ragione loro, i figli delle grandi pianure. Sono le immagini che ci sanno parlare più forte delle parole.

29.11.13

« Le lacrime più piccole, le lacrime più grosse... quando l'albero della neve fiorì di stelle rosse. »

per  approfondire http://it.wikipedia.org/wiki/Massacro_di_Sand_Creek
il monumento al tragico evento da https://www.facebook.com/events/258387060975977/?fref=ts
e dalla voce di wikipedia Massacro di Sand Creek
oggi non consiglio  nessuna canzone  ,ma  ne  riporto i versi (  vedere titolo  )    e  il video  .perchè  oggi  è  la ricorrenza  dell'evento  cantato da questa  famosa  canzone .
 N.b 1   poiché descrivono  benissimo tutti e tre  le scene   li riporto tutti e tre  chiedendo scusa  ai miei
13  utenti  e  pochi lettori   se   gli ho  già riportati in passato   direttamente o indirettamente  .ma  certe cose  (  tragico evento  ,  bellezza  ed  incisività dei video  , ecc  )   restano sempre  vivi   ed attuali
N.b 2   non è un video live  o  con la  copertina del disco  perchè odio  la  mitizzazione   e la ritualità post  mortem  ma  soprattutto      voglio lasciare  un alone  (  anche se   chi lo  conosciuto  e  conosce  le sue canzoni  già dai versi  citati  nel titolo capisce  chi  è  )   di mistero  e  di suspense


















21.9.13

che l'ha detto che i film d'amore siano solo feuilleton o polèpettoni . Il caso. di Grey Owl - Gufo grigio (1999) di Richard Samuel Attenborough

Ieri sera  ho  visto   Grey Owl - Gufo grigio (1999) di Richard Samuel Attenborough su la 7. Dalla trama mi  sembrava  un polpettone o  il classico    romanzo  d'appendice/ feuilleton ma sempre meglio degli insulsi ed inconcludenti dibattiti politici monotematici  sul caso del signor B,e  il  governuccio    Letta .  
Poi mia madre  , interrompendo  un  attimo   l'ascolto  di  8\2   su la  7  , Mi  dice , vedendomi accendere  la  tv  in sala ,  che   c'è  un altro film  bello  su  rai 3  (  se  non ricordo  male  )   Il gioiellino è un film del 2011 scritto e diretto da Andrea Molaioli  con toni Servillo  .
Quindi  ho fatto  un giro  su internet   vedendo i trailer   d'entrambi  






E alla  fine  d'esso  ho scelto appassionato  come sono  dalla storia  del west  , e degli indiani d'america  , oltre  che  curioso  di vedere e  conoscere  la  storia del popolo  indiano  dopo  le  guerre  con relativo sterminio e chiusura  in riserve  ( almeno   negli Usa )  nel Canada  non sono a conoscenza  . 
il primo  ( anche  se  il  2 film   meritava  )  perchè   si ricollegava  indirettamente  alla  situazione  attuale  . 
Un film non entusiasmante ma discreto ( c'è di peggio ) , uno dei rari film d'amore  non stucchevoli  e melensi  . Ritmo certamente     lento per una storia che, in fondo, non ne richiede uno veloce.Ma  Biografia ben fatta, senza particolari particolarmente entusiasmanti, ma nel complesso...tranquillo e carino.  tratto dalla vera storia di Archibald Stansfeld Belaney \ Grey Owl (Colui che vola di notte ) .

20.2.12

In mostra la prima e-mail della storia un indiano inventò la posta elettronica





da  repubblica  del 19\2\2012
INTERNET
In mostra la prima e-mail della storia
un indiano inventò la posta elettronica
Il National Museum of History ha acquisito il copyright del codice informatico del primo "messaggio" inviato nel '78 da Shiva Ayyadurai. "la gente cerca è una connessione, ha bisogno di crearsi dei legami con altri esseri umani", dice l'inventore  di FEDERICO RAMPINI




                              Shiva Ayaddurai
L'EMAIL viene accolta nel museo. Nel senso che potremo visitare "la prima email", ricostruire il percorso esatto della sua genealogia, grazie alla Smithsonian Institution di Washington. La più importante istituzione museale degli Stati Uniti ha "acquisito" tra le sue collezioni giovedì scorso tutta la documentazione sulla nascita delle email, i copyright, comprese le 50.000 "frasi" di codice informatico che contengono in sé una "cronaca" dell'invenzione della posta elettronica .         
Naturalmente gli esperti sono pronti a disquisire, obiettare e precisare, perché la data di nascita della posta elettronica è oggetto di discussioni infinite. Ma d'ora in avanti farà testo il materiale custodito nel National Museum of American History. Che, manco a dirlo, ben presto sarà visitabile anche… online. 
Il padre dell'email. Si scopre così che la email ha un padre vero, con nome e cognome. È un indiano trapiantato negli Stati Uniti dall´infanzia. Si chiama Shiva Ayyadurai  (  foto a  sinistra  )   nacque nel 1963 nel Tamil Nadu e quindi aveva solo 15 anno quando "inventò" la email nel 1978. Era liceale, alla Livingston High School, quando mise a punto il primo sistema di posta elettronica per la facoltà di medicina e odontoiatria del New Jersey. La sua paternità ha un marchio indiscusso: Ayyadurai, che in seguito divenne uno scienziato al Massachusetts Institute of Technology, ha ottenuto tanto di brevetto dallo U. S. Copyright Office, che lo ha certificato nel 1982 come l´inventore della prima email in senso moderno. Lui stesso naturalmente ha sempre ammesso che quella del 1978 non fu un'invenzione-lampo, un'intuizione solo personale, né una novità assoluta. Forme di posta elettronica sono esistite prima ancora di Internet, dai tempi del suo antenato che si chiamava Arpanet, nato nella comunità scientifica con l´impulso del ministero della Difesa americano. Fin dal 1973 nel mondo della ricerca informatica vennero proposti degli standard per codificare messaggi. Oltre ad Arpanet ci furono altri network "primordiali" come Autodin e Plato. 
"Messaggi inutili". Ma Ayyadurai diede alla email il formato che grosso modo le è rimasto fino ai nostri giorni, introducendo la "casella" degli arrivi, delle partenze, e le "cartelle" per la memorizzazione. Nel 1982 il Simple Mail Transfer Protocol (Smtp) divenne uno standard di Internet che consente il trasporto dei messaggi. L'anno precedente, nel 1981 il giovane cervello indiano era già stato premiato nell'ambito della Westinghouse Science Talent Search. In occasione della sua consacrazione di fronte al pubblico di massa, con l'ingresso nel museo di storia nazionale, Ayyudai è stato intervistato dal Washington Post. Che gli ha chiesto se dalla sua invenzione del 1978 a oggi non ci sia stata una proliferazione perfino eccessiva della posta elettronica, un diluvio universale da "sovra-comunicazione". La risposta dello scienziato indiano-americano: "La maggior parte dei messaggi inviati oggi sono inutili o irrilevanti, e questo oltre che alle email si applica agli sms. Ho l'impressione che non si tratti più di comunicazione. Quello che la gente cerca è una connessione, ha bisogno di crearsi dei legami con altri esseri umani".

 e  propria  mentre  finisco di leggere   questo articolo  sulla mia  bacheca  di fb  mi compare   questo video    di una canzone in sardo 

che  dice  le stesse  cose   contenute  in questo articolo  e    conferma  quando diceva  de Gregori  con questa  sua  famosa canzone  ripresa  da Fiorella Mannoia




«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

  corriere  della sera   tramite  msn.it  \  bing    Rahma Nur insegna italiano, storia e inglese alla scuola elementare Fabrizio De André d...