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16.3.18

Ricordo bene il 16 marzo 1978 di © Daniela Tuscano

Ricordo bene il 16 marzo 1978. Era plumbeo, come al solito. Le figure di quegli anni scorrono uniformi davanti agli occhi della memoria. L'immaginario cromatico lo formava la televisione e molti programmi venivano trasmessi in quel non-colore monotono, ingessato, quasi autarchico; lo chiamavano bianco e nero e in realtà era grigio, come i cappotti, le giacche strizzate, i colletti inamidati e le sterminate periferie cittadine. Anche le voci dei mezzibusti risuonavano neutre, vagamente untuose, con echi di democristiana pudibonderia. Quella stagione istituzionale volgeva al declino mentre attorno a me urlavano mondi scarlatti che l'informazione ignorava o non comprendeva: indiani metropolitani, controcultura, femministe, diversità, marginalità, sorrisi psichedelici, sogni libertari e sessi incerti. Quelli erano colori, anche quando irrompevano nel bigiognolo del piccolo schermo. Pensavo sarebbe presto scoppiata la rivoluzione della pace. 

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Invece, il mondo era in guerra. Quando rapirono Moro mi trovavo a scuola, l'aula ancor fredda per i rigori dell'inverno e un pallore d'antico ospedale. E poi le suore angosciate, le preghiere. Ci mandarono tutti a casa dove trovai il volto severo di mio padre, i denti piccoli e digrignati di mia nonna, lo smarrimento di mia madre. Ma mio padre era lo Stato, il quarantenne comunista divenuto lo stellone. Che ripeteva di tener duro, che la democrazia andava difesa e i brigatisti, "falsi compagni", abbattuti a ogni costo. Non so esattamente cosa provai. Detestavo la violenza e i terroristi, percepivo indistintamente che non stavano dalla mia parte e la rivoluzione della P38, portata avanti da "proletari" appartenenti all'alta borghesia, non era quella sognata dalla mia famiglia operaia. 
E, d'altronde, ero smagata, distratta e ribelle. Più che Moro, allora, mi segnò Peppino Impastato. Anch'io amavo la radio e la rivoluzione volevo farla dalle idee, dall'arte e dai colori. E ancor più mi segnarono Fausto e Iaio, che raggiunsi quand'era troppo tardi; cioè, ai funerali. 

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Scappai da scuola per assistere al corteo funebre e conservo ancora un petalo dei garofani lanciati per loro. Ricordo tanti volti, lacrime di rabbia e dolore. Cupe e giudici, come sanno esserlo quelle dei giovani. Eravamo giunti a frotte, compatti e straripanti, perché a quei tempi l'Italia aveva ancora un viso ventenne. Ci sentivamo soli, consci d'esser stati ingannati, vinti dalla polvere bianca come il ragazzo stramazzato sulla panchina d'una celebre foto. Il prete inutilmente benedicente indicava la sconfitta dei padri e i figli traditi, crocifissi senza resurrezione. Eravamo gli ultimi, e lo sapevamo. L'omicidio di Fausto e Iaio ebbe un che di pasoliniano e li inchiodò per sempre a una gioventù gridata, di case-formicai e asfalti bagnati. Meritavano di uscire da quel mondo in transito, immeritevole e oscuro. 
Oggi, a distanza di 40 anni, cerco di spiegare alle generazioni affidatemi un passato così tragico e all'apparenza lontano. Dove tutti fummo colpevoli e vittime. Ma dove non tutto, malgrado il grigio livellatore, era uguale, e le coscienze sobbollivano, nel dolore profondo d'un sacrificio già deciso, oltre noi e sopra di noi.

© Daniela Tuscano

P. S
Ho raccontato anche di Sergio Ramelli. 
L'immagine può contenere: 1 personaDi cui in realtà non ho alcun ricordo. Ero troppo piccola e nessuno, all'epoca, ne parlò. L'ho scoperto molto più tardi, studiava all'istituto che, per breve tempo, mi vide giovane docente. Era bello, poetava. Sì, d'accordo, c'era il Fronte della Gioventù. Ma c'era soprattutto la gioventù. E il diritto a viverla. Aveva uno sguardo spettinato, una vaga e inerme grazia. Non doveva morire, non così.

7.12.12

Claudio Scazza, dalla complicità nell’omicidio Ramelli al coinvolgimento negli esposti sui maltrattamenti a pazienti Posted: 06 Dec 2012 11:02 AM PST Tra i dieci condannati in via definitiva per l’omicidio di Sergio Ramelli c’era anche l’attuale vice-primario presso il reparto Psichiatria 3 dell’ospedale Niguarda Ca’ Grande di Milano: Claudio Scazza. Il 16 maggio 1987, dodici anni dopo la morte di Sergio Ramelli, Scazza è stato condannato in primo grado a 11 anni per omicidio preterintenzionale. In aula esibiva un elegante loden verde, era immobile e silenzioso: i tempi del servizio d’ordine di Avanguardia Operaia e delle Hazet 36 sembravano già lontani, dimenticati. In appello, il 2 marzo 1989, l’accusa è stata mutata in omicidio volontario, ma la pena ridotta in virtù del riconoscimento dell’attenuante del “concorso anomalo”: 6 anni e 3 mesi. Il 22 gennaio 1990 la Cassazione ha confermato la sentenza d’Appello, chiudendo la vicenda giudiziaria sull’omicidio Ramelli. Claudio Scazza non colpì materialmente Sergio Ramelli con le Hazet 36, ma fece parte del gruppo di squadristi che aggredirono il giovane missino in quel 13 marzo 1975, causandone la morte dopo 47 giorni di agonia. Inoltre il medesimo servizio d’ordine, appena un anno dopo l’aggressione a Ramelli, si rese protagonista dell’assalto del bar di largo Porto di classe, considerato covo di “neo-fascisti”. Dopo la condanna, Claudio Scazza non tornò in carcere: riuscì ad usufruire di un condono e di pene alternative grazie alla sua “condizione sociale” e alla “ridotta pericolosità”. Scazza si è poi pentito: assieme ad altri quattro complici decise di inviare una lettera di scuse alla madre di Ramelli, offrendo e depositando presso un notaio un risarcimento di 200 milioni di lire. La donna, con grande dignità, rifiutò. Nel frattempo Claudio Scazza si è laureato in Medicina e Chirurgia all’Università degli Studi di Milano, ha poi svolto per oltre 10 anni l’attività di terapeuta familiare ad indirizzo sistemico-relazionale e da 30 anni svolge attività clinica nei servizi psichiatrici pubblici. La sua biografia professionale è ben visibile sul sito dell’Ospedale Niguarda Ca’ Grande, dove è specificato che all’interno del Dipartimento di Salute Mentale dell’azienda ospedaliera, oltre e essere il responsabile della Struttura Semplice Territoriale 3, svolge funzioni di coordinamento nel Servizio di Diagnosi e Cura. Mancano ovviamente riferimenti al suo passato da rivoluzionario di sinistra, ma viste le gesta non c’è nulla di cui gloriarsi. Il passaggio da complice dell’omicidio Ramelli a psicoterapeuta presso una struttura pubblica sarebbe passato inosservato, non fosse per alcune anomalie che riguardano proprio il Dipartimento di Salute Mentale del Niguarda. Suicidi, maltrattamenti ai pazienti, morti sospette, contenzioni fisiche, documenti mancanti e mobbing. Pazienti legati al letto in maniera disumana, una deceduta perché soffocata dal cibo che stava mangiando, altri trovati morti nel loro letto di contenzione o sul pavimento accanto al letto. Trattamenti disumani documentati in due esposti inoltrati alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, il primo il 13 dicembre 2010 e il secondo il 22 marzo 2011. Ve li alleghiamo integralmente. Gli esposti si riferiscono a ricoveri avvenuti tra il 2005 e il 2011. ESPOSTO integrazione ESPOSTO Dal settembre 2010 è iniziato anche il mobbing ai danni della dottoressa Nicoletta Calchi, vicenda che si trascina da oltre 30 mesi e che è costata alla dottoressa 6 procedimenti disciplinari aziendali, di cui uno archiviato e gli altri 5 costati circa 365 giorni di sospensione lavorativa senza retribuzione; una denuncia in Procura immediatamente archiviata dalla stessa; 6 denunce all’Ordine dei Medici di Milano dalle quali la dottoressa è stata assolta dall’Ordine stesso; difficoltà economiche inimmaginabili. La dottoressa è stata abbandonata dalla Cgil a partire dal giorno stesso in cui il sindacato ha saputo della sua partecipazione alla conferenza stampa in cui veniva annunciata la presentazione in Procura del primo esposto. Una sorta di “cameratismo di sinistra”. Da luglio 2012 la dottoressa chiede di poter rientrare almeno per svolgere la sua attività in regime intramoenia, ricevendo sempre risposta negativa. La sua vicenda è documentata in due lettere, la prima scritta dalla madre di un paziente e la seconda dalla dottoressa stessa in occasione di un convegno organizzato dalla Cgil nel febbraio 2011. Lettera 1 lettera 2 Sugli esposti farà chiarezza, si spera, la Procura della Repubblica. Noi non possiamo fare a meno di ribadire che gli aspiranti medici che nel 1975 hanno spezzato una giovane vita in nome dell’odio politico sono poi diventati luminari di successo. Con qualche ombra.

 DA http://www.qelsi.it/ del 6\12\2012

Tra i dieci condannati in via definitiva per l’omicidio di Sergio Ramelli c’era anche l’attuale vice-primario presso il reparto Psichiatria 3 dell’ospedale Niguarda Ca’ Grande di Milano: Claudio Scazza. Il 16 maggio 1987, dodici anni dopo la morte di Sergio Ramelli, Scazza è stato condannato in primo grado a 11 anni per omicidio preterintenzionale. In aula esibiva un elegante loden verde, era immobile e silenzioso: i tempi del servizio d’ordine di Avanguardia Operaia e delle Hazet 36 sembravano già lontani, dimenticati. In appello, il 2 marzo 1989, l’accusa è stata mutata in omicidio volontario, ma la pena ridotta in virtù del riconoscimento dell’attenuante del “concorso anomalo”: 6 anni e 3 mesi. Il 22 gennaio 1990 la Cassazione ha confermato la sentenza d’Appello, chiudendo la vicenda giudiziaria sull’omicidio Ramelli Claudio Scazza non colpì materialmente Sergio Ramelli con le Hazet 36, ma fece parte del gruppo di squadristi che aggredirono il giovane missino in quel 13 marzo 1975, causandone la morte dopo 47 giorni di agonia. Inoltre il medesimo servizio d’ordine, appena un anno dopo l’aggressione a Ramelli, si rese protagonista dell’assalto del bar di largo Porto di classe, considerato covo di “neo-fascisti”. Dopo la condanna, Claudio Scazza non tornò in carcere: riuscì ad usufruire di un condono e di pene alternative grazie alla sua “condizione sociale” e alla “ridotta pericolosità”. Scazza si è poi pentito: assieme ad altri quattro complici decise di inviare una lettera di scuse alla madre di Ramelli, offrendo e depositando presso un notaio un risarcimento di 200 milioni di lire. La donna, con grande dignità, rifiutò. Nel frattempo Claudio Scazza si è laureato in Medicina e Chirurgia all’Università degli Studi di Milano, ha poi svolto per oltre 10 anni l’attività di terapeuta familiare ad indirizzo sistemico-relazionale e da 30 anni svolge attività clinica nei servizi psichiatrici pubblici. La sua biografia professionale è ben visibile sul sito dell’Ospedale Niguarda Ca’ Grande, dove è specificato che all’interno del Dipartimento di Salute Mentale dell’azienda ospedaliera, oltre e essere il responsabile della Struttura Semplice Territoriale 3, svolge funzioni di coordinamento nel Servizio di Diagnosi e Cura. Mancano ovviamente riferimenti al suo passato da rivoluzionario di sinistra, ma viste le gesta non c’è nulla di cui gloriarsi. Il passaggio da complice dell’omicidio Ramelli a psicoterapeuta presso una struttura pubblica sarebbe passato inosservato, non fosse per alcune anomalie che riguardano proprio il Dipartimento di Salute Mentale del Niguarda. Suicidi, maltrattamenti ai pazienti, morti sospette, contenzioni fisiche, documenti mancanti e mobbing. Pazienti legati al letto in maniera disumana, una deceduta perché soffocata dal cibo che stava mangiando, altri trovati morti nel loro letto di contenzione o sul pavimento accanto al letto. Trattamenti disumani documentati in due esposti inoltrati alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, il primo il 13 dicembre 2010 e il secondo il 22 marzo 2011. Ve li alleghiamo integralmente. Gli esposti si riferiscono a ricoveri avvenuti tra il 2005 e il 2011.


Dal settembre 2010 è iniziato anche il mobbing ai danni della dottoressa Nicoletta Calchi, vicenda che si trascina da oltre 30 mesi e che è costata alla dottoressa 6 procedimenti disciplinari aziendali, di cui uno archiviato e gli altri 5 costati circa 365 giorni di sospensione lavorativa senza retribuzione; una denuncia in Procura immediatamente archiviata dalla stessa; 6 denunce all’Ordine dei Medici di Milano dalle quali la dottoressa è stata assolta dall’Ordine stesso; difficoltà economiche inimmaginabili.
La dottoressa è stata abbandonata dalla Cgil a partire dal giorno stesso in cui il sindacato ha saputo della sua partecipazione alla conferenza stampa in cui veniva annunciata la presentazione in Procura del primo esposto. Una sorta di “cameratismo di sinistra”.
Da luglio 2012 la dottoressa chiede di poter rientrare almeno per svolgere la sua attività in regime intramoenia, ricevendo sempre risposta negativa. La sua vicenda è documentata in due lettere, la prima scritta dalla madre di un paziente e la seconda dalla dottoressa stessa in occasione di un convegno organizzato dalla Cgil nel febbraio 2011.

Sugli esposti farà chiarezza, si spera, la Procura della Repubblica. Noi non possiamo fare a meno di ribadire che gli aspiranti medici che nel 1975 hanno spezzato una giovane vita in nome dell’odio politico sono poi diventati luminari di successo. Con qualche ombra.