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22.12.18

ma come ..... funzionano i servizi sociali ? il caso di marco 3 anni e 4 case diverse ogni volta

Molti mi diranno ma  che  ne  sai  tu   di queste  cose    ?  sei  un assistente  sociale  ?  hai studiato psicologia  o diritto  ?  .  No  non ho  studiato   nessuna dele due  , però  il buon senso  mi dice   che  ciò non  va   ed  non  un bene  per  un bambino  ,  in particolare  di quest'età  . Ma  soprattutto  il giro di denaro  e  d'interessi  che   ci sono dietro  gli affidi  .  Il caso  , ne  ho parlato  precedentemente    ,  di Mirandola    racontato  dall'inchiesta  veleno  di Paolo Trincia ,   lo   dimostra  .  



Quattro case in tre anni. Una vita che nemmeno un bandito in fuga accetterebbe di fare. Ma il protagonista della storiaccia è obbligato, perché ha appena tre anni di età e perché a decidere più o meno allegramente della sua vita sono gli adulti.
Tutto accade nella civile e tranquilla Verona. Per Marco l’inizio è l’allontanamento – poco dopo la nascita – dalla madre tossicodipendente. Viene affidato ai nonni materni, entrambi meno che sessantenni e quindi con la giusta età per poter gestire il bimbo.
Situazione ideale? Per ben poco tempo, perché la stessa assistente sociale – si badi bene, la stessa – compila una relazione nella quale in buona sostanza sostiene che se la nonna non è stata in grado di evitare alla figlia di cadere nella tossicodipendenza, figuriamoci se potrà allevare nei modi dovuti il nipotino.
Un’analisi che si presta a cento diverse opinioni in merito, ma che – questa è la vera cosa bizzarra – viene spedita al Tribunale Dei Minori ad affido già iniziato, quando sarebbe stata decisamente più plausibile al momento di decidere presso chi collocare il piccolo.
A questo punto Marco entra nella sua terza casa. Presso conoscenti di famiglia, nel cosiddetto regime di affidamento eterofamigliare. Tutto secondo le leggi 184 del 1983 e 149 del 2001 che stabiliscono tra l’altro – attenzione! – che il minore mantenga i rapporti stabili con la famiglia di origine. Non accade quasi mai, ma questa volta sì: i genitori affidatari consentono a Marco di avere frequenti contatti con i nonni (la mamma è in un centro di recupero) e a questi di interessarsi dello stato del nipotino.Un caso esemplare.
Eppure entra di nuovo in campo la stessa assistente sociale che compila una nuova relazione nella quale sostiene che così non va bene, che si tratta di un affido per modo di dire. E Marco entra in una casa famiglia. La sua quarta casa, che di casa ha assai poco e di famiglia non ha più nulla.
Fin qui la storia. Ma ora si passa alla cronaca delle reazioni e alle riflessioni sul sistema.
Cominciamo col dire che l’assistente sociale in questione appartiene ai servizi del Comune di Verona, diretta dell’assessorato relativo e con responsabilità giuridica del sindaco, sotto la cui tutela vanno per legge i bambini tolti alle famiglie di origine. Aggiungiamo poi anche che a prendere le decisioni sui destini del bambino è il Giudice dei Minori competente per territorio, nel caso del Tribunale Minorile di Venezia, ma che di fatto le relazioni degli assistenti sociali assai raramente vengono messe in discussione, al massimo mitigate un poco, ma sono comunque la prova principale sulla quale il giudice basa la sua decisione.
Solo per dovere di cronaca – dal momento che il tema ha frequentemente trovato spazio nel dibattito pubblico e di stampa – va detto che la famiglia affidataria gode (almeno in Veneto) di circa 500 euro al mese di fondo regionale e la casa famiglia viene finanziata con una cifra giornaliera che va dai 70 ai 400 euro, cioè un minimo di oltre 2000 euro al mese, con una media di circa 3000.
Passiamo alla cronaca delle reazioni. Ovviamente tutte di denuncia, ma con una bizzarra presa di posizione da parte del Comune e del sindaco di Verona in particolare: scandalizzato per l’odissea del piccolo Marco ha assicurato il suo intervento sul Giudice minorile.
Qualcosa però non torna. E si tratta sempre di norme che esistono solo sulla carta e di discrezionalità pericolose. Molto pericolose. Gli articoli 354 e 402 fanno attribuire al sindaco del Comune dove il minore è residente una responsabilità direttache dovrebbe consentirgli di intervenire presto ed efficacemente, al di fuori dalla pastoie burocratiche. Ma è evidente che non può essere così.
Il primo cittadino è anche responsabile delle azioni dell’assistente sociale, dipendente del Comune. Quindi non è sul Giudice dei Minori che si deve intervenire a questo punto, ma invece sull’operatore. Eventualità decisamente remota, anche perché danneggerebbe gravemente l’immagine politica dell’amministrazione.
C’è poi la questione dei rapporti che il minore affidato dovrebbe continuare ad avere con la famiglia di origine: una norma in genere disattesa e che – per una volta che si realizza – è stata in questo casomotivo di censura. Ancora il fatto che il giudice minorile di fatto non abbia strumenti per mettere in discussione la relazione dei servizi sociali, che è quindi sempre determinate.
Infine la questione economica. In genere le case famiglia accolgono non più di sei minori in tenera età. Quindi nel caso del contributo minimo, una struttura incassa 12.000 euro al mese. Cosa non funziona in definitiva? Tutto o quasi. E andarlo a raccontare a Marco è dura.

Concludo   anticipando l'eventuali domande  : <<  ma  cosa  ne  sai tu sei uno psicologo \  psichiatra  ?    hai studiato  sociologia    o sienze  dell'educazione  ?   per  giudicare   ed  intervenire     \ parlare  di ciò  >>  oppure  tu cosa  faresti    al loro  posto ?
No    non ho studiato  e  non sono  ciò  che non sono  cioè uno psicologo \ psichiatra  . ,  ma parlo attraverso il buon senso  , non si  può  endere   imposibile  la  vita , soprattutto in una età   simile  ad  un bambino\a  . Cosa  avrei fatto ?     Lo lascerei o  al 1  o  al  II  affido   ed  avrei fatto  tali cambiamenti   solo  dopo  una perizia  definitiva   , laciando  ai genitori di ei la possibiità  di  poter rimediare  ad  i  loro  precedenti errori  la  tossicodipendenza della madre . 

7.12.12

Claudio Scazza, dalla complicità nell’omicidio Ramelli al coinvolgimento negli esposti sui maltrattamenti a pazienti Posted: 06 Dec 2012 11:02 AM PST Tra i dieci condannati in via definitiva per l’omicidio di Sergio Ramelli c’era anche l’attuale vice-primario presso il reparto Psichiatria 3 dell’ospedale Niguarda Ca’ Grande di Milano: Claudio Scazza. Il 16 maggio 1987, dodici anni dopo la morte di Sergio Ramelli, Scazza è stato condannato in primo grado a 11 anni per omicidio preterintenzionale. In aula esibiva un elegante loden verde, era immobile e silenzioso: i tempi del servizio d’ordine di Avanguardia Operaia e delle Hazet 36 sembravano già lontani, dimenticati. In appello, il 2 marzo 1989, l’accusa è stata mutata in omicidio volontario, ma la pena ridotta in virtù del riconoscimento dell’attenuante del “concorso anomalo”: 6 anni e 3 mesi. Il 22 gennaio 1990 la Cassazione ha confermato la sentenza d’Appello, chiudendo la vicenda giudiziaria sull’omicidio Ramelli. Claudio Scazza non colpì materialmente Sergio Ramelli con le Hazet 36, ma fece parte del gruppo di squadristi che aggredirono il giovane missino in quel 13 marzo 1975, causandone la morte dopo 47 giorni di agonia. Inoltre il medesimo servizio d’ordine, appena un anno dopo l’aggressione a Ramelli, si rese protagonista dell’assalto del bar di largo Porto di classe, considerato covo di “neo-fascisti”. Dopo la condanna, Claudio Scazza non tornò in carcere: riuscì ad usufruire di un condono e di pene alternative grazie alla sua “condizione sociale” e alla “ridotta pericolosità”. Scazza si è poi pentito: assieme ad altri quattro complici decise di inviare una lettera di scuse alla madre di Ramelli, offrendo e depositando presso un notaio un risarcimento di 200 milioni di lire. La donna, con grande dignità, rifiutò. Nel frattempo Claudio Scazza si è laureato in Medicina e Chirurgia all’Università degli Studi di Milano, ha poi svolto per oltre 10 anni l’attività di terapeuta familiare ad indirizzo sistemico-relazionale e da 30 anni svolge attività clinica nei servizi psichiatrici pubblici. La sua biografia professionale è ben visibile sul sito dell’Ospedale Niguarda Ca’ Grande, dove è specificato che all’interno del Dipartimento di Salute Mentale dell’azienda ospedaliera, oltre e essere il responsabile della Struttura Semplice Territoriale 3, svolge funzioni di coordinamento nel Servizio di Diagnosi e Cura. Mancano ovviamente riferimenti al suo passato da rivoluzionario di sinistra, ma viste le gesta non c’è nulla di cui gloriarsi. Il passaggio da complice dell’omicidio Ramelli a psicoterapeuta presso una struttura pubblica sarebbe passato inosservato, non fosse per alcune anomalie che riguardano proprio il Dipartimento di Salute Mentale del Niguarda. Suicidi, maltrattamenti ai pazienti, morti sospette, contenzioni fisiche, documenti mancanti e mobbing. Pazienti legati al letto in maniera disumana, una deceduta perché soffocata dal cibo che stava mangiando, altri trovati morti nel loro letto di contenzione o sul pavimento accanto al letto. Trattamenti disumani documentati in due esposti inoltrati alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, il primo il 13 dicembre 2010 e il secondo il 22 marzo 2011. Ve li alleghiamo integralmente. Gli esposti si riferiscono a ricoveri avvenuti tra il 2005 e il 2011. ESPOSTO integrazione ESPOSTO Dal settembre 2010 è iniziato anche il mobbing ai danni della dottoressa Nicoletta Calchi, vicenda che si trascina da oltre 30 mesi e che è costata alla dottoressa 6 procedimenti disciplinari aziendali, di cui uno archiviato e gli altri 5 costati circa 365 giorni di sospensione lavorativa senza retribuzione; una denuncia in Procura immediatamente archiviata dalla stessa; 6 denunce all’Ordine dei Medici di Milano dalle quali la dottoressa è stata assolta dall’Ordine stesso; difficoltà economiche inimmaginabili. La dottoressa è stata abbandonata dalla Cgil a partire dal giorno stesso in cui il sindacato ha saputo della sua partecipazione alla conferenza stampa in cui veniva annunciata la presentazione in Procura del primo esposto. Una sorta di “cameratismo di sinistra”. Da luglio 2012 la dottoressa chiede di poter rientrare almeno per svolgere la sua attività in regime intramoenia, ricevendo sempre risposta negativa. La sua vicenda è documentata in due lettere, la prima scritta dalla madre di un paziente e la seconda dalla dottoressa stessa in occasione di un convegno organizzato dalla Cgil nel febbraio 2011. Lettera 1 lettera 2 Sugli esposti farà chiarezza, si spera, la Procura della Repubblica. Noi non possiamo fare a meno di ribadire che gli aspiranti medici che nel 1975 hanno spezzato una giovane vita in nome dell’odio politico sono poi diventati luminari di successo. Con qualche ombra.

 DA http://www.qelsi.it/ del 6\12\2012

Tra i dieci condannati in via definitiva per l’omicidio di Sergio Ramelli c’era anche l’attuale vice-primario presso il reparto Psichiatria 3 dell’ospedale Niguarda Ca’ Grande di Milano: Claudio Scazza. Il 16 maggio 1987, dodici anni dopo la morte di Sergio Ramelli, Scazza è stato condannato in primo grado a 11 anni per omicidio preterintenzionale. In aula esibiva un elegante loden verde, era immobile e silenzioso: i tempi del servizio d’ordine di Avanguardia Operaia e delle Hazet 36 sembravano già lontani, dimenticati. In appello, il 2 marzo 1989, l’accusa è stata mutata in omicidio volontario, ma la pena ridotta in virtù del riconoscimento dell’attenuante del “concorso anomalo”: 6 anni e 3 mesi. Il 22 gennaio 1990 la Cassazione ha confermato la sentenza d’Appello, chiudendo la vicenda giudiziaria sull’omicidio Ramelli Claudio Scazza non colpì materialmente Sergio Ramelli con le Hazet 36, ma fece parte del gruppo di squadristi che aggredirono il giovane missino in quel 13 marzo 1975, causandone la morte dopo 47 giorni di agonia. Inoltre il medesimo servizio d’ordine, appena un anno dopo l’aggressione a Ramelli, si rese protagonista dell’assalto del bar di largo Porto di classe, considerato covo di “neo-fascisti”. Dopo la condanna, Claudio Scazza non tornò in carcere: riuscì ad usufruire di un condono e di pene alternative grazie alla sua “condizione sociale” e alla “ridotta pericolosità”. Scazza si è poi pentito: assieme ad altri quattro complici decise di inviare una lettera di scuse alla madre di Ramelli, offrendo e depositando presso un notaio un risarcimento di 200 milioni di lire. La donna, con grande dignità, rifiutò. Nel frattempo Claudio Scazza si è laureato in Medicina e Chirurgia all’Università degli Studi di Milano, ha poi svolto per oltre 10 anni l’attività di terapeuta familiare ad indirizzo sistemico-relazionale e da 30 anni svolge attività clinica nei servizi psichiatrici pubblici. La sua biografia professionale è ben visibile sul sito dell’Ospedale Niguarda Ca’ Grande, dove è specificato che all’interno del Dipartimento di Salute Mentale dell’azienda ospedaliera, oltre e essere il responsabile della Struttura Semplice Territoriale 3, svolge funzioni di coordinamento nel Servizio di Diagnosi e Cura. Mancano ovviamente riferimenti al suo passato da rivoluzionario di sinistra, ma viste le gesta non c’è nulla di cui gloriarsi. Il passaggio da complice dell’omicidio Ramelli a psicoterapeuta presso una struttura pubblica sarebbe passato inosservato, non fosse per alcune anomalie che riguardano proprio il Dipartimento di Salute Mentale del Niguarda. Suicidi, maltrattamenti ai pazienti, morti sospette, contenzioni fisiche, documenti mancanti e mobbing. Pazienti legati al letto in maniera disumana, una deceduta perché soffocata dal cibo che stava mangiando, altri trovati morti nel loro letto di contenzione o sul pavimento accanto al letto. Trattamenti disumani documentati in due esposti inoltrati alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, il primo il 13 dicembre 2010 e il secondo il 22 marzo 2011. Ve li alleghiamo integralmente. Gli esposti si riferiscono a ricoveri avvenuti tra il 2005 e il 2011.


Dal settembre 2010 è iniziato anche il mobbing ai danni della dottoressa Nicoletta Calchi, vicenda che si trascina da oltre 30 mesi e che è costata alla dottoressa 6 procedimenti disciplinari aziendali, di cui uno archiviato e gli altri 5 costati circa 365 giorni di sospensione lavorativa senza retribuzione; una denuncia in Procura immediatamente archiviata dalla stessa; 6 denunce all’Ordine dei Medici di Milano dalle quali la dottoressa è stata assolta dall’Ordine stesso; difficoltà economiche inimmaginabili.
La dottoressa è stata abbandonata dalla Cgil a partire dal giorno stesso in cui il sindacato ha saputo della sua partecipazione alla conferenza stampa in cui veniva annunciata la presentazione in Procura del primo esposto. Una sorta di “cameratismo di sinistra”.
Da luglio 2012 la dottoressa chiede di poter rientrare almeno per svolgere la sua attività in regime intramoenia, ricevendo sempre risposta negativa. La sua vicenda è documentata in due lettere, la prima scritta dalla madre di un paziente e la seconda dalla dottoressa stessa in occasione di un convegno organizzato dalla Cgil nel febbraio 2011.

Sugli esposti farà chiarezza, si spera, la Procura della Repubblica. Noi non possiamo fare a meno di ribadire che gli aspiranti medici che nel 1975 hanno spezzato una giovane vita in nome dell’odio politico sono poi diventati luminari di successo. Con qualche ombra.

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...