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4.3.12

Fotografia

Testimone, dov'è il testimone?
Nel passato remoto della gioventù,
in quei tratti nervosi, nelle schegge degli occhi,
o nella sapienza dolente dei passi stanchi?
E' ritratta, in voi, la musica.
La fine dei padri. Le generazioni complicate.
Il sussulto dell'incerto domani.
L'ansia d'un Dio rinnegato e sfuggito.
L'età della perdita. Un diamante folle.
Troppo prezioso e fulgido per noi,
poveri carboni spenti.




Sopra: Renato Zero e Lucio Dalla davanti alle immagini di Tenco ed Endrigo. Sotto: Montreux, 29 febbraio 2012, l'ultimo concerto di Dalla, a poche ore dalla morte.




4.1.12

Tiziano Ferro, o della semplicità


Adesso è la consacrazione. Sempre piaciuto a tutti, amato da tutti, persino simpatico, umile, irresistibile con quel sorriso largo e comunicativo. “Bono”, anche. Questione di gusti. Non è il mio tipo, forse ha il naso troppo corto, non è eccessivamente alto, tende alla pinguedine. Ma chissà, un domani questi difetti potrebbero rivelarsi un pregio, rendere il suo aspetto più intenso. E poi si porta dietro, diciamo che ora sfoggia con un certo vezzo, quell’aria provinciale che presto entrerà, è già entrata, nella leggenda. Tutto normale e prevedibile. “Semplice”, direbbe lui, col lampo sornione negli occhi di chi sa che “tutto“, in realtà, è terribilmente complicato. Perché appartiene alla vita, è la vita stessa; forse la parte più interessante dello speciale a lui dedicato, ieri sera su Raidue, è stato proprio l’accenno alla felicità e alla possibilità di cantarla restando ispirati. Semplice? Macché, incasinatissimo: evitare la disperazione e le sere nere (pur nel loro abisso d’angosciante bellezza), aprirsi alle azzurrità potenti e meravigliate dell’affetto “puro”, o almeno realizzato, è impresa titanica. Perché poi subentra sempre quella dannata natura umana, insoddisfatta, alla ricerca dell’orizzonte, quindi dell’impossibile. Un amico scrittore ha confessato: scrivere è come camminare. Un cammino o, se si vuole, una maratona, lenta ed eterna, cosparsa di panorami e di soste, ma continua, acciottolata, fumigante di fatiche. Anche noiosa, prevedibile, ripetitiva. Racchiudere la variegata semplicità in pochi versi è dono di rari poeti. Ma un pizzico di poesia può annidarsi in ogni cuore, in qualsiasi professione, in sperduti e impreveduti scampoli d’esistenza. Non è ineffabile, ma pop - altro genere di cui Tiziano non si vergogna, ben consapevole, ormai, di poterselo permettere: il suo popular è, anch’esso, complesso, sincopato, soul, inattendibile e al tempo stesso ampio e tradizionale. E ha ragione il suo amico Jovanotti, a tratti ricorda un po’ Ranieri, ne ha la teatralità soprattutto nella possanza vocale come pure in certa enfasi saporosa. Ogni epoca ha il suo portavoce, e Ferro è diventato lo specchio delle ultime generazioni, ne ha saputo svelare l‘inaspettata intimità, la ricerca d‘un senso che non è, forse, voglia di cambiare il mondo, ma almeno, prima, di comprenderlo, e di darsi una direzione. Tiziano giunge tra le macerie di un paesaggio spersonalizzato, senza memoria, e cerca di costruirsene una. Nell‘ambiguità, naturalmente. Ovviamente. “Uno sorride di com’è, l’altro piange cosa non è/e penso sia un errore”, che poi si tramuta nel misterioso “e penso sia bellissimo”. Non si tratta di alta poesia, però è efficace nella molteplicità delle interpretazioni. Certo, è un errore la troppa sicurezza di sé così come il senso di colpa, ma può diventare “bellissimo” se ci si riconcilia con noi stessi, coi nostri errori, se accettiamo le stranezze della nostra affettività, e si sorride e si piange al tempo stesso, sensibili alle foglie come tutti i depressi - che non sono tristi, bensì spalancati alla vita, quindi capaci di gioie superlative - e inermi, pure. Il futuro ci dirà se quegli “issimi” saranno rivelazioni sabiane o sciatteria lessicale. Per ora, ci piacciono e ci rincuorano. L’ispirazione giunta al giovane Tiziano attraverso non solo il “nobile” gospelma anche dalla musica elettronica - e a me, personalmente, già aliena - degli anni Ottanta, conferma l’intuizione di Proust: “Detestate la cattiva musica, ma non disprezzatela”. E poi, chi non s’è emozionato con Forever young, sì, proprio quella degli Alphaville? Pur formatami in un diverso contesto, ne fui rapita anch’io, un giorno in Francia, nella pienezza del tumulto amoroso. A proposito di quest’ultimo, e della vicenda personale di Ferro, ieri sera solo confusamente accennata, ho scritto qualcosa altrove, e in futuro forse ne parlerò ancora. Per adesso, resta l’artista consacrato ma schivo, furbo la sua parte da non volersi trasformare in bandiera di nessuno (siamo avvertiti), protagonista di spettacoli coinvolgenti e caldi, perfettamente studiati - e supportati da uno staff abile ed efficiente - ma non showman né divo puro. Un minimalista affettivo nel senso migliore del termine, quasi tondelliano. Scopriamolo e lasciamolo auto-scoprirsi, senza attenderci nulla, ma quietamente, facendoci stupire dalle nuove, possibili invenzioni. Oggi, la diversità non s’esprime attraverso costumi particolari o atteggiamenti eccentrici, ci passeggia accanto e tutto resta mescolato, vicino a noi eppure distratto. A Tiziano il compito, non facile, ma semplice, di marcare quella differenza, di personalizzare l’intimo di ognuno. Se ci riuscirà, sarà il vero, significativo successo.



3.7.11

Mi svelo



Come al solito sperduta in un altrove, sempre troppo vicino, perché in me. Io Renato lo ritrovo, anche quando non vorrei e dove lui, forse, adesso non desidererebbe. Eccomi al Carroponte di Sesto S. Giovanni, uno di quegli spericolati e improbabili esperimenti d'un tempo dove la fabbrica diventava teatro, e protesta. Lo spettacolo verteva sulle diversità di genere. Nulla di ammiccante e modaiolo: umanità azzoppata e sbilenca, urticante e sulfurea. Insomma Zerofobia. Il contrappunto musicale era duro e ossessivo; un tappeto ritmico, non melodico. Ma l'azione non si svolgeva solo sulle assi del palcoscenico. S'allargava come un'onda, nel pubblico, nei fissi e metallici colori di vernice, nei volti scavati rosei svettanti e in sentori di pinosilvestre. Riesumati da chissà quale vecchio stralcio di cronaca... O non se n'erano mai andati? Anche lì, nell'attesa, diffondevano musica. La solita musica delle processioni drag: Raffaella Carrà, Abba... Un mix dal quale d'un tratto emerse, spumeggiante, una voce che mai mi era parsa così arrochita e graffiante, cupa e solenne, sbavata e senza orpelli: MERENDA DI FRAGOLE!!! E poi Sbattiamoci. L'hanno sempre definita goliardica; mai come ieri ne ho avvertito la lucidità implacabile, da (sti)letto. Quale goliardia? quale scherzo? Quei due brani non potevano che trovarsi lì. Si è loro grati, non per nostalgia dei tempi andati, ma perché quel tempo era l'unico tempo. Il presente. Non è cambiato nulla, o poco. Siamo ancora tutti nascosti, noi che credevamo di poter sortire senza barattare la nostra pelle. Ci hanno solo circondati di qualche eufemismo. Apparenza. Ma le note di Renato erano sostanza, pesante, mercuriale. E tutto il resto, il colossale edificio di cartapesta intessuto di melassa e incenso, nulla può contro la ironica durezza d'una fellatio buttata lì con noncuranza, a sgretolare le nostre tremebonde pruderie. Forse, anche, quelle attuali del protagonista. Che ormai è sazio a sé stesso. Ma ieri, su quelle note, ho provato un'emozione così forte, un profluvio di lacrime. Le aveva mixate un'affascinante, giovane signora incinta. "Pure Merenda di fragole hai messo? Sei un'esperta!", le ho detto poi. Eeeeh, hai visto, quanto siamo forti, è stata la sagace, cameratesca risposta. Forti, già. Malgrado te.








24.6.11

Sipario



E' ingeneroso ricordarti solo per quell'impermeabile giallo e sgualcito, per la palandrana che forse ti andava stretta, ma nella quale sguazzavi mezzo sciancato; per la gamba tesa e l'occhio guercio, da genio pazzo e proletario; per il cervello vagolante, inquinato da sigari e whisky di pessima marca; per la moglie invisibile (ma certo italiana, romantica, casalinga, struccata). Ma attraverso quelli, ho scoperto un attore generoso come il rovere, dal nome di gangster e dal cuore gentile. Addio, Frank Minghetti.

4.4.11

Principe timido

Ecco cosa succede quando si vuol recensire De Gregori: non si sa da che parte iniziare. Dannazione, le sue canzoni sono tutte belle.

Simile modo d'imprecare ricorre nel lessico dell'artista. E sembra d'udirvi uno stridore, un frizzo d'ira compressa, un tentativo di slegarsi, di togliersi di dosso una patina d'aurorale levità. Le sue origini aristocratiche, forse. Ho scelto un De Gregori ai primordi. Privo di barba. Con un'aria nebulosa da cherubino slungagnato, in un paesaggio più simile alla Bassa che alle campagne laziali. Ha un sentore di pioggia. E' un cowboy di periferia.

De Gregori è il Novecento e il suo contrario. Basterebbe un brano a confermarlo: I muscoli del capitano (tratto da uno dei suoi capolavori, il più che evocativo
Titanic).

Voce atona, s'è detto di lui. Esile come filo di lana, monotona, persino un po' svogliata, nasale, monocorde. Ne siamo sicuri?

Ne I muscoli del capitano, la voce di Francesco è semplicemente perfetta.
Epica, diremmo. Manifesta una sorta d'illune stupore, malinconia e scetticismo tipico degli degli esclusi dalla storia. Che assistono silenti all'avanzare sicuro e splendente del capitano vittorioso, emblema d'un'umanità superiore, scagliata come turbine verso radiose giornate. "I signori, si sa, hanno tutti un po' del matto" (A. Manzoni). Ed Edward Smith, il comandante del Titanic, moderno Ulisse dai baffi a manubrio, perde immediatamente la goffaggine ottocentesca per dar spazio a un monumento futurista e marinettiano, che "si leva l'ancora dai pantaloni e la getta nelle onde". E la voce di Francesco veramente vola: ci par quasi di vederla compiere una giravolta e accompagnare le braccia nerborute del superuomo. Dominio sui mari e sulla terra, su uno sfondo art nouveau che riechieggia danze, sicurezza, scintillii, guerre lampo, poesie, e il procedere muto di milioni di schiavi. Ma nel silenzio della notte, o meglio, quando quest'ultima si sperde, avanza un bagliore freddo, che tutto riduce, per lasciar spazio a una pietrificata timidezza. Tutto è concluso.

De Gregori ha celebrato la semplicità del genio (Pablo), l'atrocità della guerra (Generale , il pezzo preferito da mio padre), o l'elegia d'un paese fastoso e grottesco (Viva l'Italia) da osservatore interno, ma schivo e dimesso, improvvisandosi di volta in volta soldato, operaio, impiegato, studente. Adottando un lessico accuratissimo e al tempo stesso scevro da intellettualismi - dei quali, pure, è stato agli inizi accusato -. De Gregori è un viaggiatore. Un avventuriero gracile e indefesso, un po' brigante un po' giocoliere, in bilico su pezzi di vetro. "E, se devo esser ricordato, spero di esserlo per Buffalo Bill". Uno dei suoi pezzi più giustamente celebri. Non stupisce quest'affinità con l'uomo delle vaste praterie innevate, poco dissimili, in fondo, dai cascinali di campagna, dove si trascorrevano pomeriggi interi, in inverno, a leggere le avventure di Tex Willer.

Una delle prime registrazioni di Buffalo Bill. Alla chitarra, Ivan Graziani.

Pomeriggi che ritornano in
Diamante, il brano scritto per Zucchero. Con un video ben studiato: ambientazione bertolucciana, la sapida e grassa provincia padana, il sesso tra filari di pioppi e saliceti, castagne e peccato. E ancora militari, divise grigioverdi, foglie calpestate, nebbie. Aria tumida. Fertilità familiare. Il romano De Gregori, cavaliere pallido, sembrava trovarsi così a suo agio nella guazza emiliana.

Ed ecco la femminilità. Totale, densa, piena, scandagliata e assaporata fino a stordirsene. Il suo proclama d'amore più intenso e definitivo è stato l'inno per una "diversa": La donna cannone, dedicata (e regalata) a Mia Martini, protagonista dell'altrettanto intensa Mimì sarà . Spesso mi son chiesta cos'avessero in comune un raffinato corsivista come De Gregori con la figlia sgangherata d'un professore di lettere calabrese, scura, limacciosa, destinata a soccombere, e forse a immolarsi, in nome di quel disadattamento, di quell'andar sempre in direzione ostinata e contraria. La fatica, probabilmente. La tenerezza, sentimento tremebondo e ambiguo.


Ma Roma non manca; non può mancare. De Gregori non riesce mai a mostrarla totalmente sguaiata. Resta pur sempre un principe timido. E' Roma, senz'altro, La leva calcistica della classe '68; ma è, nel contempo, Zanzibar, Tunisi, o Harlem. E' la fine della guerra, è ricostruzione. Un paio di ginocchia puntute. Non oltrepassiamo quella soglia. Pasolini resta dietro l'angolo. Osserva. Francesco ne è consapevole, ma si arresta al prima. A un paio di guance sbaffate di terra.

Oggi il "principe" compie sessant'anni. Abbandonate le evoluzioni liceali dei primordi, si è fatto ancor più evanescente e riservato. Credo gli piaccia molto ridere in compagnia. D'una moglie mai vista e di due gemelli ormai adulti, e altrettanto invisibili. Mai un uomo pubblico è stato tanto privato.

E, se forse non è lecito attendersi le folgoranti intuizioni d'un tempo, percepiamo che può regalarci ancora qualche diamante grezzo, o frutto selvatico, ormai dimenticato dagli uomini. Così
Volavola è diventato strenna poetica. I vasci strascicati e lascivi delle ruvide terre abruzzesi sono un tocco appena accennato, un sorriso in punta di pennello. Saggezza indulgente. Tranquilla. Buona.

23.2.11

Mio padre, da giovane

Il restauro di Miracolo a Milano non è solo una bella notizia. E' la restituzione di un'infanzia, un viaggio a ritroso in una sarabanda di specchi, insegne, cieli sabiani in cui s'accendono parole, smaglianti bianco e nero densi di luce e gioia. E' un ritorno a scabri arenili e a corpi accesi nel rovente sole dei tardi anni Quaranta. E' uno sguardo nelle nostre origini, uno scrutare nel segreto, nell'inviolabile. Perché in quel film, così antico e fulgente e straccione, ho visto mio padre.

Anch'egli, come tanti, si trovava perso in quel marasma di ragazzetti dalle ginocchia sparute, che salutavano i poveri saliti al cielo a cavallo d'una scopa. Sopra il cielo finalmente vasto, e brilluccicante, in vortici e turbini di giocosa beatitudine.

Chissà cosa pensava, allora. Niente; si lasciava trascinare sotto il suo baschetto floscio. Le baracche milanesi erano del tutto simili a quelle romane. Lui non abitava lì. Viveva, o meglio passava, in via Angelo Mosso, tra Gorla e Turro, già allora ferrigna di ringhiere, ma comunque abitazione, conquistata chissà come. Mio padre, bambino, vi volteggiava. Ogni tanto. Non so se amasse le penombre lise della cucina e dell'acquaio. Ma era così aereo. Come quei poveri sulle scope, mio padre era, in realtà, nato sulla strada e in strada trovava la sua famiglia di compagni, o di monelletti, con nomi che avrebbero fatto la felicità di Gadda, o d'un Pasolini in trasferta: il Marietto, il Demi Demi, e, più di tutti, il Boia Faust di Chicago. Coi quali, un giorno, condivise il ritrovamento d'una banconota da mille lire, nei pressi d'una pasticceria. I cui profumi dolci s'erano limitati ad assaporare. Leccandosi le labbra secche e sporche. Quel giorno non cacciarono le lucertole né fecero rissa coi compagni, né sostarono al cinema ABC per giocare brutti tiri a qualche rancido "culatun". S'ingozzarono, invece, di paste, incuranti e avidi e materici e sgangherati, bambini per sempre, pervasi d'un'irrefrenabile allegria di naufragi, ebbri per un domani che si credeva prossimo, e tattile.



20.2.11

Instancabile amore

Vecchioni trionfa a Sanremo 2011

Grazie, Roberto! Grazie perché la tua vittoria a Sanremo è stata veramente meritata. Grazie perché ti chiamano professore, ma io non ti ho mai sentito così collega come adesso. Grazie perché le tue note mi scivolavano addosso rotonde, piene, ampie, logiche come l'acqua fresca, come un abbraccio rigenerante, come una finestra spalancata, attesa, agognata, eppure da sempre lì, e non ce ne eravamo mai accorti. Grazie per aver ricordato a tutti che la semplicità non è semplicismo, grazie per questa tua ballata antica e accorata, così tipicamente italiana, quell'Italia che tu ami svisceratamente - l'hai detto, e si capisce -, grazie per averla dedicata a tutte le donne e in particolare alla tua. Sì, hai rivendicato con quel tuo sorriso largo e quei gesti dinoccolati e, in certo senso, teneramente scomposti, Chiamami ancora amore è un brano "elettorale", cioè di parte, cioè di tutti, o forse di ognuno (ognuna).

Grazie perché la tua carnalità ha sempre qualcosa di legnoso. Quel legno resistente, bruno, di lunghi autunni, di sigari e di buone letture. Ecco, torniamo sempre lì. Sei aristocratico, Roberto. Questo forse t'imbarazza, ti duole, paziente ed esausto per non esser mai capito. Una pazienza d'imprecazioni. Di chi ama dannatamente il suo grande popolo, la sua immensa tradizione, e la vede immiserita, e resta quasi muto di fronte a tanto incredibile scempio...
Grazie perché, a quasi 70 anni, ti sei commosso e ci hai commosso. Non solo quando intonavi il tuo pezzo. Ma anche nell'esecuzione di 'O surdato 'nnammurato, perché ti pareva di masticare quell'Italia vera. Tu stesso, milanese figlio di napoletani, hai provato l'ebbrezza di unirla nel tuo canto e fra le tue braccia.

Mi sento di ringraziare anche Tricarico. Il suo Sanremo è andato così così. Ma i suoi Tre colori rimangono lì, sospesi, azzurri, intatti, puri come una celesta. Mi hanno ricordato un quadro di Mirò. Impreziositi poi dai bambini, anch'essi bambini autentici, non parodie dei peggiori adulti in miniatura. Trasognato Tricarico, la tua scontrosità infeltrita era toccante. Sempre fuori posto sul palco di Sanremo, chissà se il tuo pezzo farà strada, ma un sentiero o un varco luminoso, in una notte cloisonnée, l'hai comunque aperto…

E grazie all'Alieno Battiato, che ha accompagnato il bravo Luca Madonia in un brano che qualcuno ha definito "un auto-plagio" e che a me pare piuttosto una citazione, o una riedizione del sound del cantautore siciliano. E' il suo stile, ma se pure qualche nota di troppo è finita nella canzone sanremese, poco male: si tratta, alla fine, d'una pioggia di stelle, di sidereo respiro: a Sanremo, uno scorcio di qualche remota partitura d'archi, suona come una strana, aliena suggestione. Tra le nuove proposte, il più sanremese è stato senz'altro Raphael Gualazzi: ma, attenzione: sanremese, mica nazionalpopolare. Sanremese come Sanremo: città degli eleganti fiori, dei turisti inglesi, delle preziosità Art nouveau. In questa lunga e brillante tradizione europea si colloca Gualazzi, forse con una voce ancora incerta, ma con sicuro piglio di grande intrattenitore. Auguri.

La Crus & Nina Zilli hanno presentato un pezzo musicalmente raffinato, anche se dal testo poco originale e a tratti debole, con un pericoloso spostamento d'accento. Comunque, piacevoli. E poi è arrivato lui, l'altro Roberto (Benigni). In realtà si è esibito nel corso del secondo appuntamento, ma il Festival verrà ricordato, oltre che per Vecchioni, per la sua Fratelli d'Italia, pudica e lacrimata. Potrà parere incredibile, ma dall'altra sera mi ritrovo a canticchiare il verso sincopato "Stringiam'ci a coorte/siam pronti alla morte/siam pronti alla morte/ l'Italia chiamò..."; e nello stesso semitono esitante, che fa da contraltare all'esibita passione di Vecchioni: l'Italia inerme e sfilacciata, lascia intendere Benigni, va trattata con delicatezza, perché bella e giovane, fatta da giovani.

Così è. Un Roberto ha inaugurato la festa, un altro Roberto l'ha chiusa. Comprensibili nel tratto, intensi e articolati nel contenuto. Ragazzi per i ragazzi, tra i 60 e i 70 anni. Io sono fiera di esser stata giovane con loro, di averli conosciuti pungenti ed esagerati, nel bianco e nero a tinte forti di Stranamore e Televacca, o negli stracci folgoranti e blasfemi di Berlinguer ti voglio bene. Perché dall'amore si parte, e all'amore si torna. Adesso tocca "a quei ragazzi e a quelle ragazze che difendono un libro, un libro vero" prendere il testimone. Magari dalla biblioteca del professor-collega Vecchioni. Ma lo facciano. Per non trasformarsi in giovani-vecchi.

8.1.11

Il pittore della musica

Io ho conosciuto tardi Ziggy Stardust, nel senso che i primi scatti di David Robert Jones in arte Bowie non furono quelli dell'androgino e sublime ragno spaziale dal linguaggio complicato e allusivo, bensì la lunare marionetta di Heroes, dalla copertina essenziale e rétro, anni '40. Ma bastava: evocava Marlene Dietrich anche se ignoravo si trattasse del secondo album della "trilogia berlinese". Arrivava accompagnato da un gran chiasso, di voci, di rumors, nelle aule scolastiche sorgevano interminabili discussioni sui suoi dischi, portati di nascosto (e con gran fatica, vista la dimensione) da un compagno che conosceva a memoria tutti i suoi brani. E che pochi giorni dopo si presentò con il lp precedente, quel Low dalla sfacciata copertina arancione e il cui titolo mi sedusse per il suono, la brevità e l'intraducibilità: in Italia un album non avrebbe mai potuto chiamarsi Basso, o Profondo. Low era semplicemente Low e i colori vivaci non smorzavano un clima freddo, anzi, glaciale e spietato; erano spennellate di Munch, o dei fauves; eppure Low rimandava pure a qualcosa di serico e fumogeno, decaduto. Insomma, tiepido. Celestiale. E fu subito amore per Sound and Vision, un'incompiutezza geniale, dalla grammatica futurista, assolutamente priva di metrica, ancorché di logica: solo introduzione, con la voce che si affacciava timida e sballata nella parte finale, soffogata dai suoni (e visioni). E all'apparenza, del tutto accessoria, ininfluente. Un trionfo di tecnologia, l'assorbimento dell'uomo nella macchina. Eppure vi pulsavano tentacoli di vita imperiosi e potenti. Già elaborati dai monumentali e "anonimi" Pink Floyd. Dietro c'era Eno e anche in quel caso ero ignara di tutto. Eno lo avrei racchiappato, o meglio divorato, soltanto a 16-17 anni, anch'egli a ritroso: prima My life in a bush of ghosts, il frutto maturo; poi le radici, Before and after science, Another green world. Ma per tornare a Bowie, Ziggy mi apparve solo in seguito, e scattò il tripudio per la studiata raffinatezza di quello che pensavo un aristocratico dandy e invece proveniva da famiglia proletaria, con fratellastro pazzo, poi morto suicida. Ah, ecco, all'origine era rock'n'roll. E il rock'n'roll di Ziggy era davvero insuperabile. Una scatola visiva. Bowie era una proprio una macchina, una di quelle escavatrici - o centrifughe - che maciullano e condensano tutto. Ricco di citazioni e auto-citazioni. Da Lindsay Kemp (quello di Flowers, soprattutto, ma anche del sulfureo Sebastiane) ai Who, e naturalmente a Lester Bowie da cui prese il nome. E qui, lungi dall'artificio e dalle glaciazioni, eravamo davvero al calor bianco.

1972: David Bowie/Ziggy, 64 anni oggi, in una tipica posa.


L'intero linguaggio dell'arte e dell'espressività umana ne risultava stravolto e i confini esplodevano, rinsaldandosi poi in un bislacco mosaico inatteso e spaventevole. Così accadeva che il protagonista del Budda delle periferie di Hanif Kureishi si prendesse una solenne scuffia per il vaporoso amico nordico che si presentava a casa sua con le gambe infinite sugli stivali a fiore. Non solo fremiti d'adolescente, ma piuttosto risvegli di cacce ancestrali, rivalse di colonizzati, giochi d'istinto con impagabili prede. Kureishi avrebbe ammesso molto più tardi che per quella figura di amico si era ispirato a Bowie.
Già troppo attore nel viso per essere un grande anche nel cinema, Bowie, nella sua voracità così succulenta, conservava però un fondo ("low", appunto) troppo oscuro, sublime, tedesco - berlinese - per avvincermi del tutto. Era un gentiluomo, l'avrei visto passeggiare in Riviera alla fine dell'Ottocento assieme alla moglie (la prima, Angie) e sarebbe stato un pittore, avrebbe realizzato tele squisite dai colori rovesciati, ma come un alieno, sempre a qualche centimetro dal suolo, il suolo mattinale e cattolico delle terre italiane. Io avevo bisogno di lucori, fratellanza e mestizie, in cui dolcemente cullarmi.

7.12.10

Ricordi di Renato



Il primo: un transistor. La musica, un po' gracchiante, trascinava e dava corpo ai miei sogni di bambina già cresciuta e scarabocchiata dalla vita. Non avevo neanche dodici anni. Ed ero tanto curiosa. Troppo. Portavo lunghi capelli scomposti. La canzone s'intitolava Madame. Un pensiero: "Parla di sesso". Un'immagine: lo vedevo un marinaio, un Querelle ante-litteram. Non era un brano tratto dall'album Trapezio, in fondo? Come il film del '56 con Tony Curtis, Burt Lancaster e Gina Lollobrigida. Il primo d'una serie di titoli circensi, cinematografici, poetici, "rubati" da altre opere, persino da preghiere: da I migliori anni della nostra vita ad Amore dopo amore, a La vita è un dono...

Poi il corso della mia città. Estate. Però quel corso era sempre grigio. Grigio come le parole della canzone. La corsa affannosa per trovare un suo disco: non era facile allora. Mi sormontava un condominio. Compatto. Elevato. Elevatissimo. Una cattedrale di sofferenza. Un monumento alla marginalità. Lì dentro, io immaginavo vite, silenzi a mezzofumo, camere di ragazzi, o ragazzi senza camere, in malsana promiscuità; cuscini, parole non dette, verità inconfessabili e inconfessate. Lì non c'era mai voce. A chi interessavano esistenze dozzinali? Vi si consumavano amori, forse amori segreti. Forse malati. Forse, da quelle parti poteva abitare non tanto un marinaio, quanto uno sterratore, muratore, travestita, drogato, un anonimo senza futuro. Era un universo chiuso, casalingo, dalle luci fredde. Se si apriva un pianeta, era dentro una stanza perché solo dal pertugio delle moquette stinte potevano nascere trovate, ribellioni, fantasie...

Poi il mare, l'apertura ariosa degli azzurri sconfinati. In quell'occasione lo vidi per la prima volta. Ma lui era sempre cittadino, sempre grigio. I colori, erano la lotta su quel grigio. Come Pasolini, incarnava "una realtà talmente concretizzabile che, sfogliando le pagine, mi sfregai le dita più volte per togliere la sporcizia". Questo mi avrebbe confidato, molti anni dopo, una giovane amica. Io non mi sfregai le dita, ma la sporcizia c'era. Se l'uomo non può resistere a troppa realtà, quella era davvero insopportabile. Eppure a me piaceva. Perché, malgrado tutto, non si esauriva in quella dura concretezza. Tragico samba. C'era un interno scuro, una "famiglia" con fratello incestuoso, una sorella fin troppo disinvolta, che passava di aborto in aborto. E questa dolente figura di amante che la invitava a non ammazzarsi, perché c'erano tante cose belle in tv. Non era ironico, era un sogno molto meschino, ma ancora uno sprazzo di umanità nel cinismo in cui si soffocava. (Come nell'ultima scena di Salò: quando i due adolescenti repubblichini, dopo aver assistito impassibili alle peggiori stragi, si ritrovano a chiacchierare delle loro semplici passioni: "Hai la ragazza?", "Sì". "Come si chiama?", "Margherita".)    

A cantare quest'intruglio, queste (o)scene di famiglia, un incrocio tra Freddie Mercury e Basquiat. Un'altra foto lo ritrae con la calzamaglia e gli stivali, accanto all'uomo con lo striminzito soprabito dimesso, a leggere un giornale, il quotidiano. Quella era la Romanina dalla squillante ed elegiaca amoralità. Il travaso dall'uomo antico al nuovo, non senza sofferenza e con un cerchio alla testa, reduce da nottate. Che confusione, ma il mondo così com'era non reggeva più.

Un mondo di uomini, comunque. Quasi e totalmente uomini. Non è che prima m'interessassero molto, anzi, li temevo, così rigidi ed esterni e vincenti. Io amavo la cavità profonde e in loro mi pareva non ci fosse nulla da scoprire. Sbagliavo. Gli uomini diventavano viscere, come quelle pareti anonime. Diventavano corpi, erano nudi, spogliati, seducenti e inermi. Erano maschi totali, perché non temevano la loro femminilità. Forse per questo, malgrado quelle note che descrivevano donne negative, o pupe dei boss, io non mi sentivo più ferita, stavo bene, con un'infusione di calma, tepida come infuso, e buona, buona. Stavo fuori del tempio, e vi trovavo Gesù in cattiva compagnia o Jesus of Montreal.

Poi, ecco, c'era anche uomo e camion. Un'evocazione, dopo aver ascoltato i racconti di E., classe 1951, che mi ospitava a casa sua offrendomi cioccolata bollente: e la musica di Renato sempre in sottofondo, fra tubetti di mascara e giornali, riviste alternative, Fuori, giornaletti. Giornalacci. E. raccontava le sue avventure. Dài, salta su. E il camionista accompagnava lo strano ragazzo e poi, dopo bevute e donne, magari una carezza scivolava anche sul giovane, così con una vena di malinconia e senza attese. E, dopo... le rande perfette dei due profili si stagliavano nel nero dell'abitacolo, soddisfatti e rilassati, e "tutto sommato è bello anche così... gli uomini sono più generosi". Non c'era da aspettarsi alcuna durata da quegli incontri, eppure quanta passione ci si metteva, quanto grido d'amore, quasi infantile.



In un'altra immagine ancora, sempre vista nei pomeriggi con E., Renato apponeva un bacio rapito e casto sulle labbra d'un giovane amico; la foto suscitò uno scandalo inimmaginabile, eppure era un ritratto elusivo, un fraseggio accennato. Il turbamento non stava nel gesto, ma negli occhi: chiusi, travolti, così puramente passionali. Composto e borghese, il ragazzo ricordava la danza di Carlo Cecchi con un altro compagno, ritratta negli anni Sessanta. E questo non era accettabile. Si poteva tollerare la trasgressione, non il sentimento.



Il resto? Ma il resto, le madri, i figli, le amicizie, i bambini, la fede, erano già racchiusi in quelle storie, in quegli squarci di volti, in quelle note secche come fuoco, in quella sfronzolata e sghemba follia.

























1.1.10

Renato è l'unico

Giornata Mondiale della Pace

***

Mi sento stanca, di quella stanchezza buona, profonda, lineare, fisicamente intatta e indisturbata, che si compiace del suo molle sopore. L'automobile mi riporta a casa. E' sufficiente socchiudere gli occhi, ed eccomi sola. Con un unico accompagnatore: Renato Zero e la sua musica.

Il mio amore per lui, che dura ormai da oltre trent'anni, nacque in sventagliate oasi di luce: al mare, in estate, lo ascoltai la prima volta; sempre al mare, tempo dopo, lo vidi in tv: ed era proprio Capodanno, un Capodanno del '78 trascorso ancora in famiglia, assieme a un cugino già adolescente. Poi ancora al mare, finalmente dal vivo. Allora esilissimo, irriverente, sfacciato, fin troppo provocatorio, un capolavoro di glam e di follia, il giovanotto nudo, come in seguito l’avrei chiamato, portava avanti una protesta tutta intima dove il sesso celava una spiritualità inattesa, da bimbo ferito.

Quel desiderio di colore non era nato forse in un’anima troppo costretta al buio? Di “anime buie” avevo appunto parlato in un post del maggio scorso ispirato a Salvami, brano antichissimo riproposto anche nell'ultimo tour di Zero, conclusosi poco prima di Natale. Lo scorso dicembre milanese è stato, a tutti gli effetti, un mese "renatesco", iniziato con l’imprevedibile Zero Day allo Iulm e suggellato da tre trionfali concerti. Renato – anche coreografo - ha concepito il palcoscenico come un immenso ventaglio, che si apriva e si chiudeva con la maestosità e la leggiadria di enormi ali di farfalla, dal ritmo cadenzato, solenne e mellifluo insieme; e impreziosito da ologrammi dove comparivano gli antichi costumi di scena e le copertine dei suoi numerosi album. Uno show essenziale ma ricco, di musica e di voce, talora potente talora carezzevole, sofferta e grintosa, ma mai invasiva, sempre calibrata.
Con la maturità Zero, che non è mai stato immune da certi barocchismi, sembra voler rinunciare all’orpello con la consapevolezza che, su quel palco, basta davvero solo lui. E avanza, anche. È significativo che abbia aperto questo suo nuovo percorso con Vivo, tratto da quell’album fatale che, da solo, gli avrebbe comunque regalato un spicchio d’eternità nel mondo della musica moderna: Zerofobia. Si trattava, già dal lontano ’77, d’un manifesto programmatico, tanto più efficace quanto involontario.

Renato è vissuto e sopravvissuto, spingendosi oltre sé stesso, accettando qualche compromesso secondo alcuni suoi detrattori, i quali però ignorano sempre il tributo che l’artista deve pagare all’uomo, soprattutto nel caso di Zero, nel quale i due momenti sono spesso mescolati. Ho percepito onestà in questo spettacolo, che ha voluto essere popolare ma non piacione, ammiccando al pubblico senza però arruffianarselo troppo. Unica concessione al Renato “per tutti” (mi verrebbe da dire: “per famiglie”), I migliori anni della nostra vita, fra l’altro interpretata con classe, e una spruzzata, di cui invero non si avvertiva il bisogno, del Dono con Mentre aspetto che ritorni. Ma chi sperava nei grandi classici da stadio, Cercami, Magari, Amico da intonare sventolando cuoricini luminosi – e sempre prescindendo dalla vena inquieta che quei pezzi pure presentano –, è rimasto a bocca asciutta. Non c’è stato spazio nemmeno per Il cielo, pensata come il naturale compimento di Salvami e sbocciata, inattesa e commossa, da un groppo di sfrenatezze disperate, ma tramutata poi, con gli anni, in una liturgia da stadio, più chiesastica che religiosa; per il Renato “asciutto” che si avvicina ai sessanta, un po’ acciaccato ma con la voglia, ancora disarmante e fanciullesca, di confidarci i suoi timori, simili (auto)celebrazioni non hanno più molto senso.

“Poco zucchero”, direbbe Faust’O; poiché il Renato autentico sta altrove, in un remoto ma mai sopito antro da sibilla. E sa ancora graffiare, irridere e provocare. Non più un’ambigua libellula dalle ali di nerofumo, ma l’ormonauta del sesso senza perifrasi, diretto e prosaico; quindi, inerme. Non un nuovo crooner come ha inopinatamente azzardato qualcuno, ma il soul man che si diverte davvero a duettare con Mario Biondi (Non smetterei più) e Fiorella Mannoia (quest’ultima, interprete anche di una personale versione di Cercami).

Un’altra gioventù non è una replica. Renato ha una solidità ancestrale, da bravo figlio della terra. È vitale come un sessantenne, non vispo come un ragazzino. Non gli saremo mai abbastanza grati per questa sua ostinazione a non parodiarsi, a rimanere sempre e comunque ciò che è, nel bene e nel male.
Nonostante abbia già tutto scritto. Giunto al successo nel ’77, il suo in verità era già un approdo. Nella sua precedente gipsoteca musicale, incompiuta, e perciò geniale e fascinosa, aveva ormai affastellato di tutto: il primo (e l’unico) ad aver affrontato in termini appropriati la pedofilia, con un brano restituito in questo tour, grazie al chitarrista Fabrizio “Bicio” Leo, all’originaria matrice rock, nervosa e tragica, cronachistica e smembrante, accompagnato da un video in cui migliaia di occhi infantili dalla consistenza di molluschi si disfacevano sotto mani tramutate via via in artigli e adunchi rami secchi. E, su tutto, il lungo lamento di Renato, straziante ma senza dolorismo, cristallino e lesivo come una vetta aguzza.

Era comparsa la già ricordata Salvami, ma pure bislacchi provini incisi chissà come, un po’ nonsense, un po’ futuristici, un po’ nevrastenici come 113 che qui Renato ha rivestito da canzone “vera”, con accompagnamento carioca e relativo poncho-volant incorporato. E il Cristo che si sfarina di Potrebbe essere Dio risale al 1980.

Tutto si conclude con Gli unici, una dedica al pubblico, o anche a sé stessi, per essere ancora qui, soddisfatti e ammaccati, ma tutto sommato integri. E curiosi della vita. Con Mi vendo, nel modo in cui l'aveva presentata, Renato avrebbe potuto benissimo chiudere la sua avventura artistica: in effetti, in seguito, nulla è rimasto più uguale nella musica italiana. Ma quel personaggio che poteva vivere, o ansimare, solo di frenesia (M. Del Papa), che "piaceva ai camionisti" come lui stesso ha ricordato, era necessariamente destinato a durare nei cupi bagliori d’una notte, dopo averne assorbito i miasmi incrostati e bituminosi. “Ho sempre avuto la sensazione che se fossi arrivato fino ai 18 anni avrei avuto un mazzo così – ha dichiarato Renato in una recente intervista -, poi, quando ho visto che arrivavo a trenta, ho detto sarò come Gesù, me ne andrò a 33. Passati i 33, mi sono reso conto che stava succedendo qualcosa di strano. Poi, ora che ho festeggiato i 59 anni, non so più spiegarmelo”. E grazie al cielo resta questo stupore, e la grandezza e la fatica del tempo che avanza. Senza che il Nostro sia diventato un umorista. Intanto, sono giunta a casa. Ho concluso il mio viaggio e mi sono accorta di non essere affatto sola, come pensavo all'inizio; con me ho portato volti, ma anche case, marciapiedi, fermate del metrò, rimpianti. Vapori. Lo devo a lui, agli amici che hanno condiviso questa mia passione, nonché ai compagni di viaggio di Renato (Giampiero, Roberto, Mariano) che mi hanno permesso di condividere con tanti questa nuova, erratica avventura.

10.12.09

Renato Zero, un artista singolare

Un'"affabulazione" sull'incontro di stasera tenutosi allo Iulm di Milano tra il cantautore, gli universitari e i fans.

Bentornato a Milano, Renato, anche se non hai avuto l'accoglienza che ti aspettavi. Non bisognerebbe mai aspettarsi niente. Tu stesso hai esordito paragonando la parola "sicurezza" a "ovvietà, piattume, pigrizia". Ebbene, qui non sei stato sicuro, sei stato colto un po' di sorpresa, ti hanno spiazzato.Esordirei così, se potessi trovarmi a faccia a faccia con lui, adesso. Qualcuno l'avrà seguito per fargli la posta, questa sera. Io non ho voluto. A parte il fatto che sono debilitata e voglio mantenermi in forze per domani. E poi, dato l'umore del Nostro, ho ritenuto più saggio lasciarlo tranquillo, lui aspettava altre persone, non noi. Non i "soliti noti".

Insomma l'incontro allo Iulm di Milano si è rivelato, da questo punto di vista, al di sotto delle aspettative: sala mezzo vuota, e quel mezzo riempito in gran parte di fans. E lui, giunto col solo fido Giorgio Lamberti (ma mi hanno poi riferito che Roberto e Mariano aspettavano fuori, li hanno incrociati tutti e quattro, più tardi, in via Montenapo...), era aggrondato già all'ingresso, alle 16 circa. Ha deplorato moltissime volte l'assenza degli studenti universitari, voleva domande diverse dalle solite, ha manifestato una intenzione di comunicare e di essere stimolato a mio avviso in gran parte sincera; non so, forse parlo da fan accanita, ma a me sembra molto assetato di umanità autentica, al punto che, quando sono riuscita ad afferrare quel microfono per rivolgermi a lui (dalla terza fila, vicinissima!), all'inizio sono scoppiata a ridere e me ne sono scusata (replica: "Ma sai, io è dall'inizio che rido!!!". Mi è tornata alla mente quella battuta di Montesano: "C'è chi piange di gioia, e io rido di dolore!"). Ma poi ho tenuto a informarlo che, benché non (più) studentessa, lo ero però stata, e ora sono prof, con alcuni studenti al seguito ("Braaaavaaaa!", mi ha elogiato col suo vocione da camionista), l'ho informato di un prossimo ciclo di incontri dove ci sarà spazio per una sua monografia e gli ho espresso il mio provocatorio compiacimento nel vederlo così imbizzito (ed è lì che mi ha corretto con "Nooo, dispiaciuto! Ma per loro che non ci sono e che si sono persi la possibilità di dialogare con l'artista che non è solo spettacolo ma anche vita ecc."). Ho replicato, o meglio, ho cercato di replicare che proprio questa sua reazione era la cifra del vero artista, ma lui era irrefrenabile e non sono più riuscita a reinserirmi nel mare magnum di ricordi di Mastroianni, Panelli e Valori a Castoglioncello, del suo innamoramento per Dalì ignorando all'inizio chi fosse, e così per Pasolini passando dai detenuti/detenute di Sollicciano dove si è intrattenuto anche con trans brasiliane che gli hanno comunicato la loro difficile situazione. Renato ha lamentato la scarsa attenzione verso gli artisti da parte del pubblico/cultura italiana in generale, e finalmente ha chiarito il suo pensiero su certi temi scottanti. E' stato molto bravo, sensibile. Si è scagliato con parole di rara efficacia contro il consumismo e il voyeurismo televisivi che involgariscono il sesso "mentre io sono... pùdico (come ha detto) o pudìco (come ha chiesto)", e, alla mia risposta: "pudìco", ha borbottato: "Aoh me cambiate tutti gl'accenti, prima si diceva èdile e mo' se dice edìle, poi pùdico e adesso pudìco...". Le battute servono sempre a smorzare un clima che soprattutto nella seconda parte è diventato davvero incandescente. Insomma Renato ha proclamato a chiare lettere che la trasgressione, "che poi non ho capito mai chi fosse il trasgressore", come la intendevano quelli della sua generazione era l'esatto contrario dell'appiattimento attuale, dove si mostrano vicende anche crude e violente (non è mancato un appello accorato contro gli stupri e l'abuso del corpo femminile) in modo del tutto decontestualizzato e "appiattito", senza nessun rispetto per chi le vive, per gli spesso disgraziati protagonisti, deprivati del loro dramma e della loro umanità. Un degrado che infierisce sulla solitudine delle famiglie, e qui si riferiva proprio a quelle dei personaggi coinvolti in torbide vicende: "Bisogna conoscere i disperati, i trans, le persone per poterle capire e non esibire". Non così ovvio come potrebbe apparire, se ci riflettiamo.

E tutto va detto ma non tutto nello stesso modo, volgare, violento, disumano. "Perché tutto resta così in superficie? E poi che si fa, si va al confessionale di Vespa?". Non si trattava di una semplice boutade, mi è parso davvero angosciato. E voleva sapere se 'sti giovani sono davvero intenzionati a ricercare un senso. "Altrimenti non chiedano aiuto, peggio per loro", ha sentenziato, duro.Se è questo l'andazzo, "che è, la cultura attuale?" ha domandato al disorientato interlocutore che avrebbe dovuto moderare il dibattito divenuto presto monologo... "Il mondo si sposta a destra? Allora, mi scanso!". Applausi.

Ognuno deve rimettere in moto la coscienza (intendeva l'interiorità), perché solo quest'ultima sa discernere la parte buona dell'altro (qui alludeva alla fiducia, a non seguire le apparenze, a considerare il prossimo nella sua interezza ecc.). Il contrario di quanto avviene oggi, in tempi di strani razzismi riemergenti. "E la coscienza non è solo la fede religiosa, anche perché poi le fedi devono confrontarsi tra loro e cercare le analogie, che esistono" ecc. Renato ecumenico. Ma non ipocrita né accomodante.

Poi, a un certo punto, gli studenti si sono materializzati. Mica tutti, eh. Alcuni erano zerofolli "camuffati". Altri provenivano effettivamente dallo Iulm, e Renato li ha invitati sul palco con lui, e a quel punto avrebbe gradito un interscambio tra noi fans e loro. Ma, da subito, la faccenda si è trasformata in un faccia a faccia tra gli studenti e Renato, a volte con accenti decisamente sulfurei, soprattutto quando è intervenuto Riccardo Vitanza, il convulso responsabile dell'ufficio stampa, che si è praticamente impadronito del microfono per una buona mezz'ora lagnando la scarsa preparazione di certi universitari e la leggerezza con cui vengono trattati alcuni artisti. Che era anche vero, ma sarebbe stato opportuno lasciar spazio ai diretti interessati più che alle sue intemerate (io avrei voluto chiedere ai ragazzi cosa ne pensassero della famigerata lettera di Celli, rettore dello Iulm romano, nella quale si esortava il figlio a lasciare l'Italia...), infatti poi i ragazzi si sono reimpossessati della scena, con Renato visibilmente felice di star in mezzo a loro. Quando è emersa un'altra novità: sembra che l'incontro fosse stato poco pubblicizzato, il moderatore ha borbottato che l'avevano previsto per novembre poi era slittato per ragioni tecniche e oggi era l'ultimo giorno utile per la sessione d'esami ecc. Non una splendida figura. Al punto che Renatino, un po' nel pallone, si è rivolto ai ragazzi riconoscendo: "Stando così le cose, io vi chiedo scusa". Ma il senso di trascuratezza e d'improvvisazione che permeava l'evento non gli è sfuggito: "E la prossima volta - ha ghignato, ironico ma non troppo - io con me vorrò soltanto loro (indicando i ragazzi) e non altri", alludendo ai docenti che non l'avrebbero valorizzato. Questi ultimi lo guardavano talvolta come un bimbo bizzoso. Renato ogni tanto i capricci li fa, però è autentico. E questo secondo me lo assolve ampiamente. Sarà che gli voglio troppo bene, ma quando rivendica la sua caratura d'artista, il suo bisogno quasi fisico di contatti umani, io sono disposta anche a lasciarmi trascurare come fan. E se volete "cogliere" qualcosa di lui, non contate troppo su giornali e riviste, spessissimo sbagliano prospettiva e ne fraintendono il pensiero. Ascoltate le sue canzoni, in primis; perché lì c'è veramente un uomo che poco riesce a scindere dall'artista. E poi, quando ne avete la possibilità, sfruttate occasioni come queste. Che difficilmente si dimenticano, Renato l'ex travestito è quello che ha meno maschere di tutti...



(Nelle foto, dall'alto in basso, alcuni momenti della serata milanese: Renato con gli studenti, la sottoscritta con l'amica Graziana e altri due scatti dell'artista... dall'espressione molto eloquente!).

24.11.09

Maggiorenni senza te

A Freddie Mercury

Vitalità? Tanta. Frenesia? Ancor di più. Innocenza? Forse. Ma un'innocenza ambigua, sfuggente e arcana come il San Giovanni di Leonardo. Quindi, magari, in ultima analisi. Non tanto innocente. Ma nel contempo bella, forte, barocca, icona dei nostri tempi sommossi. Eccessiva, sicuramente. Eri tu, Freddie, quello delle tutine sgargianti, perché così mi apparisti, in un televisore ancora in bianco e nero, malgrado fossi l'emblema dei colori. Colori forti, senza contrasti, aggressivi, perché simbolo di un'età svagheggiante, neopagana e divertita. Un uomo sexy, finalmente, che non temeva la fisicità; e che del suo corpo aveva fatto il veicolo per trasmettere, semplicemente, gioia e piacere. Dicevi che i Queen erano i Cecil B. De Mille del rock, per me eravate il liberty eclettico d'una stagione dove queste commistioni erano possibili. Dove il cielo sembrava raggiungibile, anzi, si era steso sulla terra con la sua fantasmagoria di astri. E noi potevamo srotolarci sopra, allegri e spensierati.

Il messaggero degli dèi, col suo agglomerato di citazioni (allucinazioni?) pittoriche, letterarie, cinematografiche e più smaccatamente pop (News of the world, che contrasto: nome d'una rivista e livida copertina alla Fritz Lang!), aveva in realtà un compito prometeico: portare il fuoco agli uomini. Tu ce ne hai regalato veramente tanto. Lo hai reso vulnerabile, e noi fiammanti. Eri inglese? Armeno? Persiano? Rock? Disco? Classico? Etero o gay? Oh, che noia, avresti tagliato corto, e lo dicesti anche. "Definirmi? Tutti commenterebbero: pure Freddie che si dichiara, per avere un po' di titoli sui giornali". Eh no, malgrado tutto non eri proprio uomo da titoli urlati. Perché soffrivi il peso d'un universo rotante che contenevi tuo malgrado. Avevi tante cose da dire e da cantare ancora, è vero; ma chissà come ti saresti trovato qui e ora, in questi anni, non più semplici ma facili, troppo cinici per la malizia e l'ambiguità. Forse, per te, non ci sarebbe stato più spazio. Non è tempo d'artisti, questo.

Ma, sparendo, ci hai costretti a un risveglio penoso. Siamo stati obbligati a crescere senza il tuo aiuto. Senza la tua compagnia, i tuoi giochi. Che, come tutti i giochi, sottendevano un cupo rimpianto. Una tragica melodia. Ma di piccole, carnali tragedie è trapunto il cammino umano. Rimasti così, in preda a fantasmi amorfi, diventati adulti senza esser stati grandi, ci siamo sentiti privare dell'aria. Come bimbi in un campo giochi vuoto. In periferie grigie della nostra debole fantasia. Però la tua musica, quella è rimasta, quella c'infonde ancora rabbia, e voglia di mandare al diavolo l'ingiustizia che ti ha strappato a noi. L'ingiustizia, l'ingiustizia. Questo sentimento è ancora, pertinace, uno sguardo oltre la periferia, oltre il vuoto di quel campo. E' un grido di riappropriazione. Tu eri eccezionale, insostituibile. Ma ci hai insegnato che ciascuno di noi può esserlo, e rinunciare a questa speranza, allora sì, sarebbe tradirti e dimenticarti per sempre.

9.10.09

Le donne al tempo dei berluscones...

...sono femmine. Ammirate di cosa è capace questa qui, una ex concorrente del Grande Fratello, dicono, sotto lo sguardo compiaciuto e assatanato di Chiambretti che, con la scusa di prenderla per i fondelli, intanto la ospita nel suo programma tutto a base di sesso e di squinzie.




P. S.: Pochi giorni fa a due donne è stato assegnato il Premio Nobel per la Medicina, esattamente come alla Montalcini. Ma a Chiambretti & soci fa un baffo. Ben altre sono le femmine che gl'interessano, e che vogliono mostrare.

18.2.09

Benigni sulle strade di Corinto

D'accordo: gustosissima, a Sanremo, la satira su Berlusconi, Mastella, Alfano & Co., una frecciata allo sfacelo veltroniano ci poteva pure stare, ma non importa. Importa il "dopo".

Quando ha parlato degli omosessuali (mai definiti gay, e non a caso). Il bersaglio non era quel gocciolone di Povia, ma Ratzinger e i suoi epigoni. Li ha stracciati sul loro stesso terreno [cfr. il video completo]. La citazione "L'amore è superiore alla fede" è tratta infatti dall'Inno alla carità di san Paolo. Senza nominare niente e nessuno, con le semplici e sublimi armi dell'arte e della cultura, Roberto ha fatto capire dove sta la verità.

12.1.09

La nostra vita a Zero - "Quattro dischi e un po' di whisky" in scena a Roma

Rossana è schietta, determinata, volitiva. Gestisce un cocktail-bar dal nome curioso: Quattro dischi e un po’ di whisky. La vita sembra averla resa disincantata, talora cinica, ma dietro la maschera si nasconde un grande bisogno d’amore e di tenerezza. Lorenzo è un giovane e fascinoso prete dall’inquieta vocazione che, dopo aver gettato la tonaca alle ortiche, cadrà tra le braccia di Paola, la bella del gruppo, aspirante attrice. Camillo, infine, è il più estroso dei quattro: gay frizzante negli anni ’80, più pacato oggi, ma sempre sottilmente pervaso da guizzi inattesi, scrive con poca fortuna favole per bambini: “È la rappresentazione del puer, il bimbo eterno”, spiega Roberto Biondi.

Si deve a lui la stesura di Quattro dischi e un po’ di whisky: “Una commedia leggera e ironica – spiega – che prende spunto da un un verso di Triangolo, canzone-simbolo di un’icona nazional-popolare come Renato Zero, cui tutti i protagonisti sono affettivamente legati. Accompagnati dalle sue canzoni, che appartengono all’immaginario collettivo di svariate generazioni, i quattro amici ripercorrono vicende di nevrosi e dubbi, ma anche di tanti aspetti comici, e mettono in luce il coraggio di essere sé stessi e di poter affermare i propri sogni”.

Quarantatré anni, romano, diplomato alla Silvio D’Amico e con diversi premi all’attivo, Biondi ha scritto anche Fiesta! per Fabio Canino (“Ci univa la passione per Raffaella Carrà e Paolo Lanfredini, in passato collaboratore dello stesso Renato, combinò il nostro incontro”), Good as you (andato in scena per due anni a Roma e a Milano) e Fiori al plasma, spettacolo in occasione della Giornata mondiale contro l’Aids per la regia di Fabrizio Raggi (Il bacio della donna ragno, lavori con Albertazzi, Patroni Griffi, Proietti, Branciaroli, Scaparro…). “E Fabrizio dirige anche questo mio nuovo testo”, aggiunge Biondi.
- Quando hai scritto la commedia?
"Circa un anno fa. Nella mia mente hanno preso forma le fisionomie dei quattro personaggi che scandiscono un passaggio temporale di venticinque-trent’anni, a partire ovviamente da Triangolo, che risale al 1978".
- I brani di Renato Zero accompagnano le vite dei protagonisti, giungendo fino ai giorni nostri. Eppure l’attenzione è catalizzata intorno a un periodo magico ma ancor poco studiato: l’ultimo scorcio dei ’70. Quando Renato è esploso.
"Il periodo della consapevolezza per molti di noi. I protagonisti sono molto giovani, alcuni ancora bambini, nel momento in cui vengono investiti dalla zerofollia. Come tanti loro coetanei non si riconoscono nei valori tradizionali dominanti, non nei sentimenti a uso esclusivamente 'privato' come le magliette fine di baglioniana memoria, ma non riescono a identificarsi totalmente nemmeno nella cosiddetta controcultura dell’epoca, rappresentata dai cantautori 'impegnati'”.
- In passato scrissi che Zero è stato l’unico artista italiano a proporre e a proporsi, anche fisicamente, come personaggio di rottura compiendo, però, un percorso opposto a quello dei cantautori. In un periodo in cui tutto doveva essere collettivo e politico, Renato è partito dall’intimo per fare un discorso sociale, aperto, innovativo e rivoluzionario.
"Ed è uno dei motivi per cui tanti si sono identificati in lui. È accaduto anche a me. Lo vedevo 'diverso', a volte una sorta di alieno caduto sulla terra, altre volte vicinissimo, quasi carnale. Il suo messaggio era libertario e liberatorio: una vera boccata d’ossigeno per quanti si percepivano emarginati e disadattati. Esortava a seguire ognuno la propria natura, perché la natura è varia, molteplice, non univoca; nulla di sorprendente, quindi, che sia poi riuscito ad arrivare a tutte le realtà sociali".
A lato: Roberto Biondi.
- Anche alle famiglie…
"Sì, perché un artista vero si rivolge necessariamente a tutti e ad ognuno".
- Proponendo fra l'altro, in prima serata, esibizioni oggi inimmaginabili. Nessuno, che io ricordi, avrebbe più il coraggio di cantare un brano come La fregata a un Fantastico, con quell'inquadratura di lanciamissili che non pareva esattamente una citazione di Eisenstein...
"[Risate] Per noi era un gioco. Più ingenui? Non so. So che adesso sto riscoprendo quel periodo in modo più cosciente e mi rendo conto di quanto certi atteggiamenti fossero davvero all'avanguardia".
- Ricordo di aver letto, nel ’79, il commento d’un fan: “Renato canta per noi operai”. Potrebbe stupire.
"Invece no. Renato era, è, tanto etereo quanto realista, anzi, espressionista.
- Espressionista?
"Scuoteva, cantava in italiano, non usava filtri. Le sue canzoni parlavano chiaro: Mi vendo, Baratto, Uomo no… Attraverso la metafora del realismo, Renato obbligava a pensare, a riflettere su di sé, senza cercare alibi all’esterno, fossero anche nobilissimi. Un altro che aveva capito che occorreva scavare all'interno di noi stessi per sovvertire le false regole della società è stato Pasolini".
- Guarda caso, uno dei “miti” di Renato stesso.
"Ma filtrato dalla sua sensibilità squisitamente teatrale".
- Ho letto un bell’articolo: Quante strade portano al camp. Recensiva un libro “serio”, ma esordiva proprio con l’analisi del “fenomeno Zero”. Spesso sottovalutato, anche da chi avrebbe dovuto capirlo meglio, accusato persino di frivolezza…
"Frivolezza e leggerezza non sono sinonimi. Non tutti si rendono conto che si possono affrontare temi, come dici tu, seri, anche col sorriso sulle labbra. Il mio teatro è così: semplice, diretto, popolare. Ma ha la pretesa di non essere stupido: voglio divertire, ma anche spingere a porsi delle domande, a non dar nulla per scontato e immutabile".
- Anche i protagonisti di Quattro dischi… sembrano alla ricerca di autenticità.
"E la trovano, pur attraversando conflitti talvolta dolorosi. Solo così, del resto, si cresce".
- Hai scelto come incarnazione della sorcina doc una donna: è un caso?
"Beh, ovviamente no… Non nascondo una certa autoidentificazione. Va pure ricordato che, drammaturgicamente, la figura femminile rende molto: Fassbinder, Almodovar, lo stesso Pasolini hanno sempre prediletto le donne per le loro opere. Sono il nostro lato segreto: fantasioso, nascosto. Con le donne si può 'osare'. Giulia Cantore poi è bravissima nella parte della sorcina 'attempata': ha lavorato con me in Good as you e la nostra intesa è ormai consolidata".
- E gli altri attori?
"Anche Diego Longobardi, il mio Camillo, mi ha affiancato nell’avventura di Good as you e Fiesta. Ma non ha certo bisogno di presentazioni. Era perfetto per la parte perché non volevo un imitatore di Renato, bensì un ragazzo autentico, coi suoi vizi, i suoi tic, il suo carattere insomma. Quando si concia come lui lo recita infatti a volte 'male', in modo stralunato. Deve scaturire il suo 'io', non una copia più o meno fedele di Zero".
- E arriviamo a Francesco De Angelis e a Linda Santaguida…
"Francesco è il sacerdote in crisi vocazionale che, all’inizio, si presenta come il classico individuo al di sopra di ogni sospetto. Poi, vinte le chiusure, abbandona la tonaca improvvisandosi idraulico, quindi allenatore di rugby, infine s’innamora di Paola/Linda Santaguida. Linda è alla prima esperienza teatrale e mi è piaciuta perché umile, volonterosa, appassionata.
- Il prete e il gay: due figure apparentemente agli antipodi, eppure presenti tra il pubblico di Renato Zero.
"Non è così strano: l’afflato spirituale non è mai mancato nei brani di Renato. Ma d’altronde si tratta di due figure in un certo senso 'ai margini': costrette a vivere da minoranza in un mondo che ha compiuto scelte diverse. E, al tempo stesso, vittime dell’ipocrisia, dell’ostracismo. Certo, oggi le cose vanno molto meglio: gli omosessuali hanno raggiunto traguardi impensabili solo pochi anni prima, la Chiesa vive questa forte contraddizione tra il conformismo e la ricerca della verità. Ciò provoca tensioni acutissime, cui assistiamo ogni giorno".
- Esiste un altro tipo di conformista, però: il provocatore di professione. Costui non vuole in realtà cambiare nulla, infatti ogni televisione ne propone uno. Il risultato è la noia, se non il rigetto.
"Certo, anche la 'diversità' può rimanere assorbita da una logica consumistica e vendersi a meccanismi mercificatori. Uno dei motivi del prolungato successo di Renato credo sia proprio questo: ha sempre dato l’idea di vivere le esperienze sulla propria pelle. Contraddittorio, problematico, angelico e demoniaco quanto si vuole, ribelle e pacificato, ma sempre e comunque lui, non un prodotto di serie".
Zero canta Triangolo (dal film Ciao Nì!, 1978)
- Renato conosce lo spettacolo?
"Abbiamo scritto una lettera al suo ufficio stampa per informarlo del progetto e per invitarlo ad assistere. se vorrà, alla nostra performance. In ogni caso, aspettiamo tanti suoi fans e non solo, per divertirci e 'scambiare assieme' qualche brandello di vita. Cominciando da Roma, ma sperando d'incontrare presto tutta l'Italia".
Quattro dischi e un po’ di whisky, dal 13 gennaio al 1° febbraio. Roma, Colosseo Nuovo Teatro (via Capo d’Africa, 29). Info e prenotazioni 06/700.49.32 - 320.3814625.

La nostra vita a Zero -

Rossana è schietta, determinata, volitiva. Gestisce un cocktail-bar dal nome curioso: Quattro dischi e un po’ di whisky. La vita sembra averla resa disincantata, talora cinica, ma dietro la maschera si nasconde un grande bisogno d’amore e di tenerezza. Lorenzo è un giovane e fascinoso prete dall’inquieta vocazione che, dopo aver gettato la tonaca alle ortiche, cadrà tra le braccia di Paola, la bella del gruppo, aspirante attrice. Camillo, infine, è il più estroso dei quattro: gay frizzante negli anni ’80, più pacato oggi, ma sempre sottilmente pervaso da guizzi inattesi, scrive con poca fortuna favole per bambini: “È la rappresentazione del puer, il bimbo eterno”, spiega Roberto Biondi.
Si deve a lui la stesura di Quattro dischi e un po’ di whisky: “Una commedia leggera e ironica – spiega – che prende spunto da un un verso di Triangolo, canzone-simbolo di un’icona nazional-popolare come Renato Zero, cui tutti i protagonisti sono affettivamente legati.
Accompagnati dalle sue canzoni, che appartengono all’immaginario collettivo di svariate generazioni, i quattro amici ripercorrono vicende di nevrosi e dubbi, ma anche di tanti aspetti comici, e mettono in luce il coraggio di essere sé stessi e di poter affermare i propri sogni”.
Quarantatré anni, romano, diplomato alla Silvio D’Amico e con diversi premi all’attivo, Biondi ha scritto anche Fiesta! per Fabio Canino (“Ci univa la passione per Raffaella Carrà e Paolo Lanfredini, in passato collaboratore dello stesso Renato, combinò il nostro incontro”), Good as you (andato in scena per due anni a Roma e a Milano) e Fiori al plasma, spettacolo in occasione della Giornata mondiale contro l’Aids per la regia di Fabrizio Raggi (Il bacio della donna ragno, lavori con Albertazzi, Patroni Griffi, Proietti, Branciaroli, Scaparro…). “E Fabrizio dirige anche questo mio nuovo testo”, aggiunge Biondi.


- Quando hai scritto la commedia?

"Circa un anno fa. Nella mia mente hanno preso forma le fisionomie dei quattro personaggi che scandiscono un passaggio temporale di venticinque-trent’anni, a partire ovviamente da Triangolo, che risale al 1978".

- I brani di Renato Zero accompagnano le vite dei protagonisti, giungendo fino ai giorni nostri. Eppure l’attenzione è catalizzata intorno a un periodo magico ma ancor poco studiato: l’ultimo scorcio dei ’70. Quando Renato è esploso.

"Il periodo della consapevolezza per molti di noi. I protagonisti sono molto giovani, alcuni ancora bambini, nel momento in cui vengono investiti dalla zerofollia. Come tanti loro coetanei non si riconoscono nei valori tradizionali dominanti, non nei sentimenti a uso esclusivamente 'privato' come le magliette fine di baglioniana memoria, ma non riescono a identificarsi totalmente nemmeno nella cosiddetta controcultura dell’epoca, rappresentata dai cantautori 'impegnati'”.

- In passato scrissi che Zero è stato l’unico artista italiano a proporre e a proporsi, anche fisicamente, come personaggio di rottura compiendo, però, un percorso opposto a quello dei cantautori. In un periodo in cui tutto doveva essere collettivo e politico, Renato è partito dall’intimo per fare un discorso sociale, aperto, innovativo e rivoluzionario.

"Ed è uno dei motivi per cui tanti si sono identificati in lui. È accaduto anche a me. Lo vedevo 'diverso', a volte una sorta di alieno caduto sulla terra, altre volte vicinissimo, quasi carnale. Il suo messaggio era libertario e liberatorio: una vera boccata d’ossigeno per quanti si percepivano emarginati e disadattati. Esortava a seguire ognuno la propria natura, perché la natura è varia, molteplice, non univoca; nulla di sorprendente, quindi, che sia poi riuscito ad arrivare a tutte le realtà sociali".

- Anche alle famiglie…

"Sì, perché un artista vero si rivolge necessariamente a tutti e ad ognuno".

- Proponendo fra l'altro, in prima serata, esibizioni oggi inimmaginabili. Nessuno, che io ricordi, avrebbe più il coraggio di cantare un brano come La fregata a un Fantastico, con quell'inquadramento di lanciamissili che non pareva esattamente una citazione di Eisenstein...


"[Risate] Per noi era un gioco. Più ingenui? Non so. So che adesso sto riscoprendo quel periodo in modo più cosciente e mi rendo conto di quanto certi atteggiamenti fossero davvero all'avanguardia".
A lato, Roberto Biondi.



- Ricordo di aver letto, nel ’79, il commento d’un fan: “Renato canta per noi operai”. Potrebbe stupire.



"Invece no. Renato era, è, tanto etereo quanto realista, anzi, espressionista.

- Espressionista?

"Scuoteva, cantava in italiano, non usava filtri. Le sue canzoni parlavano chiaro: Mi vendo, Baratto, Uomo no… Attraverso la metafora del realismo, Renato obbligava a pensare, a riflettere su di sé, senza cercare alibi all’esterno, fossero anche nobilissimi. Un altro che aveva capito che occorreva scavare all'interno di noi stessi per sovvertire le false regole della società è stato Pasolini".



- Guarda caso, uno dei “miti” di Renato stesso.

"Ma filtrato dalla sua sensibilità squisitamente teatrale".

- Ho letto un bell’articolo: Quante strade portano al camp. Recensiva un libro “serio”, ma esordiva proprio con l’analisi del “fenomeno Zero”. Spesso sottovalutato, anche da chi avrebbe dovuto capirlo meglio, accusato persino di frivolezza…

"Frivolezza e leggerezza non sono sinonimi. Non tutti si rendono conto che si possono affrontare temi, come dici tu, seri, anche col sorriso sulle labbra. Il mio teatro è così: semplice, diretto, popolare. Ma ha la pretesa di non essere stupido: voglio divertire, ma anche spingere a porsi delle domande, a non dar nulla per scontato e immutabile".


- Anche i protagonisti di Quattro dischi… sembrano alla ricerca di autenticità.

"E la trovano, pur attraversando conflitti talvolta dolorosi. Solo così, del resto, si cresce".

- Hai scelto come incarnazione della sorcina doc una donna: è un caso?

"Beh, ovviamente no… Non nascondo una certa autoidentificazione. Va pure ricordato che, drammaturgicamente, la figura femminile rende molto: Fassbinder, Almodovar, lo stesso Pasolini hanno sempre prediletto le donne per le loro opere. Sono il nostro lato segreto: fantasioso, nascosto. Con le donne si può 'osare'. Giulia Cantore poi è bravissima nella parte della sorcina 'attempata': ha lavorato con me in Good as you e la nostra intesa è ormai consolidata".

- E gli altri attori?

"Anche Diego Longobardi, il mio Camillo, mi ha affiancato nell’avventura di Good as you e Fiesta. Ma non ha certo bisogno di presentazioni. Era perfetto per la parte perché non volevo un imitatore di Renato, bensì un ragazzo autentico, coi suoi vizi, i suoi tic, il suo carattere insomma. Quando si concia come lui lo recita infatti a volte 'male', in modo stralunato. Deve scaturire il suo 'io', non una copia più o meno fedele di Zero".
- E arriviamo a Francesco De Angelis e a Linda Santaguida…

"Francesco è il sacerdote in crisi vocazionale che, all’inizio, si presenta come il classico individuo al di sopra di ogni sospetto. Poi, vinte le chiusure, abbandona la tonaca improvvisandosi idraulico, quindi allenatore di rugby, infine s’innamora di Paola/Linda Santaguida. Linda è alla prima esperienza teatrale e mi è piaciuta perché umile, volonterosa, appassionata.

- Il prete e il gay: due figure apparentemente agli antipodi, eppure presenti tra il pubblico di Renato Zero.
"Non è così strano: l’afflato spirituale non è mai mancato nei brani di Renato. Ma d’altronde si tratta di due figure in un certo senso 'ai margini': costrette a vivere da minoranza in un mondo che ha compiuto scelte diverse. E, al tempo stesso, vittime dell’ipocrisia, dell’ostracismo. Certo, oggi le cose vanno molto meglio: gli omosessuali hanno raggiunto traguardi impensabili solo pochi anni prima, la Chiesa vive questa forte contraddizione tra il conformismo e la ricerca della verità. Ciò provoca tensioni acutissime, cui assistiamo ogni giorno".
- Esiste un altro tipo di conformista, però: il provocatore di professione. Costui non vuole in realtà cambiare nulla, infatti ogni televisione ne propone uno. Il risultato è la noia, se non il rigetto.

"Certo, anche la 'diversità' può rimanere assorbita da una logica consumistica e vendersi a meccanismi mercificatori. Uno dei motivi del prolungato successo di Renato credo sia proprio questo: ha sempre dato l’idea di vivere le esperienze sulla propria pelle. Contraddittorio, problematico, angelico e demoniaco quanto si vuole, ribelle e pacificato, ma sempre e comunque lui, non un prodotto di serie".





Zero canta Triangolo (dal film Ciao Nì!)

- Renato conosce lo spettacolo?

"Abbiamo scritto una lettera al suo ufficio stampa per informarlo del progetto e per invitarlo ad assistere. se vorrà, alla nostra performance. In ogni caso, aspettiamo tanti suoi fans e non solo, per divertirci e 'scambiare assieme' qualche brandello di vita. Cominciando da Roma, ma sperando d'incontrare presto tutta l'Italia".


Quattro dischi e un po’ di whisky, dal 13 gennaio al 1° febbraio. Roma, Colosseo Nuovo Teatro (via Capo d’Africa, 29). Info e prenotazioni 06/700.49.32 - 320.3814625.


                                         Daniela Tuscano

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...