Ecco cosa succede quando si vuol recensire De Gregori: non si sa da che parte iniziare. Dannazione, le sue canzoni sono tutte belle.
Simile modo d'imprecare ricorre nel lessico dell'artista. E sembra d'udirvi uno stridore, un frizzo d'ira compressa, un tentativo di slegarsi, di togliersi di dosso una patina d'aurorale levità. Le sue origini aristocratiche, forse. Ho scelto un De Gregori ai primordi. Privo di barba. Con un'aria nebulosa da cherubino slungagnato, in un paesaggio più simile alla Bassa che alle campagne laziali. Ha un sentore di pioggia. E' un cowboy di periferia.
De Gregori è il Novecento e il suo contrario. Basterebbe un brano a confermarlo: I muscoli del capitano (tratto da uno dei suoi capolavori, il più che evocativo Titanic).
Voce atona, s'è detto di lui. Esile come filo di lana, monotona, persino un po' svogliata, nasale, monocorde. Ne siamo sicuri?
Ne I muscoli del capitano, la voce di Francesco è semplicemente perfetta.Epica, diremmo. Manifesta una sorta d'illune stupore, malinconia e scetticismo tipico degli degli esclusi dalla storia. Che assistono silenti all'avanzare sicuro e splendente del capitano vittorioso, emblema d'un'umanità superiore, scagliata come turbine verso radiose giornate. "I signori, si sa, hanno tutti un po' del matto" (A. Manzoni). Ed Edward Smith, il comandante del Titanic, moderno Ulisse dai baffi a manubrio, perde immediatamente la goffaggine ottocentesca per dar spazio a un monumento futurista e marinettiano, che "si leva l'ancora dai pantaloni e la getta nelle onde". E la voce di Francesco veramente vola: ci par quasi di vederla compiere una giravolta e accompagnare le braccia nerborute del superuomo. Dominio sui mari e sulla terra, su uno sfondo art nouveau che riechieggia danze, sicurezza, scintillii, guerre lampo, poesie, e il procedere muto di milioni di schiavi. Ma nel silenzio della notte, o meglio, quando quest'ultima si sperde, avanza un bagliore freddo, che tutto riduce, per lasciar spazio a una pietrificata timidezza. Tutto è concluso.
De Gregori ha celebrato la semplicità del genio (Pablo), l'atrocità della guerra (Generale , il pezzo preferito da mio padre), o l'elegia d'un paese fastoso e grottesco (Viva l'Italia) da osservatore interno, ma schivo e dimesso, improvvisandosi di volta in volta soldato, operaio, impiegato, studente. Adottando un lessico accuratissimo e al tempo stesso scevro da intellettualismi - dei quali, pure, è stato agli inizi accusato -. De Gregori è un viaggiatore. Un avventuriero gracile e indefesso, un po' brigante un po' giocoliere, in bilico su pezzi di vetro. "E, se devo esser ricordato, spero di esserlo per Buffalo Bill". Uno dei suoi pezzi più giustamente celebri. Non stupisce quest'affinità con l'uomo delle vaste praterie innevate, poco dissimili, in fondo, dai cascinali di campagna, dove si trascorrevano pomeriggi interi, in inverno, a leggere le avventure di Tex Willer.
Una delle prime registrazioni di Buffalo Bill. Alla chitarra, Ivan Graziani.
Pomeriggi che ritornano in Diamante, il brano scritto per Zucchero. Con un video ben studiato: ambientazione bertolucciana, la sapida e grassa provincia padana, il sesso tra filari di pioppi e saliceti, castagne e peccato. E ancora militari, divise grigioverdi, foglie calpestate, nebbie. Aria tumida. Fertilità familiare. Il romano De Gregori, cavaliere pallido, sembrava trovarsi così a suo agio nella guazza emiliana.
Ed ecco la femminilità. Totale, densa, piena, scandagliata e assaporata fino a stordirsene. Il suo proclama d'amore più intenso e definitivo è stato l'inno per una "diversa": La donna cannone, dedicata (e regalata) a Mia Martini, protagonista dell'altrettanto intensa Mimì sarà . Spesso mi son chiesta cos'avessero in comune un raffinato corsivista come De Gregori con la figlia sgangherata d'un professore di lettere calabrese, scura, limacciosa, destinata a soccombere, e forse a immolarsi, in nome di quel disadattamento, di quell'andar sempre in direzione ostinata e contraria. La fatica, probabilmente. La tenerezza, sentimento tremebondo e ambiguo.
Ma Roma non manca; non può mancare. De Gregori non riesce mai a mostrarla totalmente sguaiata. Resta pur sempre un principe timido. E' Roma, senz'altro, La leva calcistica della classe '68; ma è, nel contempo, Zanzibar, Tunisi, o Harlem. E' la fine della guerra, è ricostruzione. Un paio di ginocchia puntute. Non oltrepassiamo quella soglia. Pasolini resta dietro l'angolo. Osserva. Francesco ne è consapevole, ma si arresta al prima. A un paio di guance sbaffate di terra.
Oggi il "principe" compie sessant'anni. Abbandonate le evoluzioni liceali dei primordi, si è fatto ancor più evanescente e riservato. Credo gli piaccia molto ridere in compagnia. D'una moglie mai vista e di due gemelli ormai adulti, e altrettanto invisibili. Mai un uomo pubblico è stato tanto privato.
E, se forse non è lecito attendersi le folgoranti intuizioni d'un tempo, percepiamo che può regalarci ancora qualche diamante grezzo, o frutto selvatico, ormai dimenticato dagli uomini. Così Volavola è diventato strenna poetica. I vasci strascicati e lascivi delle ruvide terre abruzzesi sono un tocco appena accennato, un sorriso in punta di pennello. Saggezza indulgente. Tranquilla. Buona.
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
4.4.11
Principe timido
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