Cronaca Regionale
unione sarda Sabato 02 aprile 2011SAMUGHEO Dopo i carboni ardenti, il telaio. Prendi un gruppo di manager alla ricerca di spinte motivazionali, ormai annoiati dalle scottature ai piedi, e buttali davanti a fili e spolette. Tema del giorno: l'arazzo sardo. Svolgimento: impegnativo, a dare istruzioni severe, Elisabetta Barra ci si vede benissimo. A 74 anni è dritta come un fuso, con una voce imperiosa, una saetta in movimento su e giù per una casa immensa.a
«Potrebbe essere uno dei modi con cui si salva una tradizione immensa. Una scuola per giovani apprendiste, un corso per manager. Gli enti pubblici devono solo decidere di tutelare i tappeti sardi e noi siamo qui per loro». A dispetto delle apparenze, la signora vanta titoli che le consentono di non passare da visionaria. In giro in autobus per la Sardegna di mezzo secolo fa, una donna sola, carica di tessuti, alla ricerca di clienti? L'ha fatto. Impegnata lungo una linea immaginaria, lastricata di lane sarde, che va diretta da Samugheo agli Stati Uniti? Pure questo, mangiato e digerito (salvo portare sul corpo i segni di qualche scottatura economica che continua a bruciare). Far parte del drappello illuminato di artigiani che cancellarono di colpo la paccottiglia con pezzi d'arte e aprirono squarci di gloria che ancora illuminano la Sardegna? Anche questo sperimentato, e fino in fondo. Ecco perché l'idea di un istituto di tessitura, nelle sua mani, ha un certo fascino. E, nella terra delle occasioni sprecate, perfino una certa credibilità.
L'ONORE DEI PIZZI Il concetto lo chiarisce subito e con parole nette: chi cerca l'anziana artigiana di paese in vena di amarcord, non bussi alla sua casa. «Io ero e resto un'imprenditrice che ha sacrificato tutto per il lavoro, eccetto dignità e onestà». Il logo resta, E. Barra scritto con grafia piana di bambina, gli scatti patinati degli anni Settanta e Ottanta. Poi l'ultimo periodo è stato funestato da rogne giudiziarie, processi, il Consorzio che doveva esportare l'artigianato tessile negli Usa si è rivelato un clamoroso flop. Ma alle spalle c'era una storia - personale - che, a raccontarla, non sembra vera. «I miei erano piccoli proprietari di paese, si tesseva per l'artigianato familiare, i sacchi per portare il grano dall'aia, il corredo, il costume in orbace. Ogni ragazza di allora, per essere considerata un buon partito, doveva saper lavorare al telaio». Figli, marito? «Non avrei potuto fare tutto quello che ho fatto, sarebbero venuti prima». Possidenti mediamente agiati, una casa di sette stanza cinque per cinque, non ricchi secondo il concetto in voga oggi ma abbastanza da distinguere, democraticamente s'intende, le figure di padrona e zeracca : «A casa nostra abbiamo sempre lavorato fianco a fianco, eravamo gente che viveva del proprio dando lavoro agli altri». Altro dettaglio: per una del suo livello era socialmente riprovevole lavorare per qualcun altro e il problema si porrà di qui a poco.
LA GRANDE CRISI Inizio anni Sessanta, Samugheo (ma un altro paese dell'interno potrebbe essere uguale), fuga a gambe levate dalle campagne e agricoltura in rovina. «Bisognava esserci per capire quel che è successo in quel periodo». Racconta di un'autentica emigrazione di massa, di ragazzine di 12 anni avviate a diventare domestiche nelle case padronali di mezza Italia. L'Isola (Istituto sardo organizzazione del lavoro artigiano) sta muovendo i primi passi, non è ancora un carrozzone, conta su figure di livello mai più raggiunto. Si parte con l'organizzazione di corsi di tessitura spalmati in tutta la Sardegna intorno ai poli tradizionali, da Villamassargia a Nule, da Santulussurgiu a Zeddiani. E, quando si dice il caso, la direttrice è la madrina, «una delle più capaci del paese». Senonché per le ragazze a modo è considerato un disonore fare un lavoro subordinato e il padre non vuole neanche sentire la proposta della figlia perché senz'altro danneggia il prestigio di famiglia. «Poi ho avuto un colpo di genio. I corsi ce li pagavano cento lire l'ora quando la giornata di un bracciante agricolo ne valeva 500. Gli ho detto: se mi fai andare a scuola di telaio, ti mando due operai in campagna. In più, mi rendo disponibile ad andare comunque a governare il bestiame». L'ipotesi non è rifiutabile ed Elisabetta Barra si guadagna la sua sedia da aspirante tessitrice («anche 14 ore»). Non prima, naturalmente, di essersi alzata alle 4 per fare su e giù dalla campagna.
UN MONDO A PARTE L'Isola commissiona lavori per due mesi l'anno, chilometri di tappeti mezzo pieni, di arazzi. Gli interlocutori si chiamavano Ubaldo Badas (uno dei grandissimi dell'architettura), il pittore Antonio Corriga, Eugenio Tavolara («alle riunioni ci diceva sempre, ricordatevi che vi sto affidando un patrimonio di tradizioni di valore inestimabile, non è vostro ma per le generazioni future»). Siccome la signora, - a dispetto delle apparenze da anziana di paese rasserenata, col berrettino di lana calato sulla fronte - ha viaggiato e letto e frequentato, da sola sforna la definizione del periodo: «Oggi lo chiameremmo design colto contemporaneo ma già allora avevamo chiaro che stavamo facendo qualcosa di speciale». È il '61 quando Elisabetta Barra decide che la commessa dell'Isola non è sufficiente per il suo potenziale produttivo. E la risolve a modo suo.
IN TRASFERTA I mezzi pubblici ci sono e la Sardegna è misteriosa e inesplorata. Detto fatto: riempie tutte le valigie possibili di tappeti, compra un biglietto dell'autobus, e parte. «In paese si diceva che ad Alghero c'erano i turisti. Mi metto in contatto con una suora che viveva lì per chiederle di cercarmi alloggio e vado. Non sapevo che il loro dialetto è diverso dal nostro sardo, sentivo che tutti parlavano questa lingua e mi dicevo: caspita, qui sono tutti turisti. Primi clienti, il negozio dei Simula, Sigaretta, in centro». In una manciata di anni, arriveranno ordini da Olbia, Sassari, Castelsardo, La Maddalena. Nel frattempo qualche altra signora, per suo conto, gira casa per casa nell'Oristanese alla ricerca di clienti. Con i disegni tradizionali è brava, si permette qualche variazione sul tema e applica il talento anche altrove. Per esempio, diventa la più celebre decoratrice di torte per i matrimoni, la chiamano ovunque. «Ho sempre avuto la cultura del fare, senza paura della stanchezza». Un momento di gloria a caso: il rientro da un tour nel Nord Sardegna dove impazzava questo strano fenomeno del turismo: «Avevo guadagnato settecentomila lire, un'enormità».
SALTO DI CATEGORIA Un momento di crisi: una figlioccia sta per prendere la via di Milano, carriera da domestica. «Ero disperata, mi sembrava ingiusto. La prima volta che ero stata a Milano un nostro paesano mi aveva portata a vedere una ragazza che era andata via da Samugheo per andare a servizio: invece era finita in strada e quell'immagine non l'avevo dimenticata». Elisabetta Barra convoca le fanciulle che lavorano per lei: «Dico loro, vado a Cagliari, pare che paghino il tappeto annodato in contanti. Volevo mettere su un grande laboratorio e mi presento da Genca, il massimo per il design. Mi ricordo questo signore in jeans e camicia celeste, non avevo mai visto nessuno vestito così. Era il signor Enis, il proprietario. Speravo che mi desse un acconto sui tappeti che gli avrei consegnato in modo da potermi permettere un nuovo telaio meccanico a spoletta volante. Non avevo nulla per garantire, solo la mia parola. Bene, si è fidato e mi ha dato centomila lire». Questo commerciante, così avanti sui tempi, le regala anche qualche consiglio prezioso. I suoi tappeti stanno girando per le case branché d'Italia e la Rinascente da Milano le propone un maxi-ordine: «Sarei diventata miliardaria. Ma lui mi disse: se li vende un grande magazzino, nessun arredatore li prenderà più. Declinai l'offerta». Il sogno del laboratorio comunque ha preso forma e decine di ragazze di Samugheo passano per quelle stanze. «Ero cresciuta con la mentalità delle banche, dell'imprenditrice. Una volta alla Regione facevano melina, dalle carte era scomparsa una licenza esecutiva. Mi sono presentata a Cagliari e sono entrata negli uffici dalla scala antincendio, a quel punto mi hanno dovuta ricevere».
LE AMAREZZE Da metà degli anni '80 a oggi, si parla di successi ma anche di rogne. Elisabetta Barra è un punto di riferimento nelle fiere che contano, sul tavolino ci sono decine di giornali, foto posate nelle cerimonie, lei col presidente, lei col Papa. C'è l'intuizione arguta di presidiare direttamente la Costa Smeralda: le propongono uno spazio a Portisco, lei si trasferisce lì con la cugina, casa e bottega, quando i clienti lasciano il negozio aprono il divano-letto per andare a dormire. Ma il problema più grande è quel Consorzio che avrebbe dovuto portare i tappeti sardi in America. Non si scende nei dettagli, l'argomento è una ferita aperta. «Hanno voluto privare il prodotto della sua identità e il Consorzio è fallito subito, praticamente appena costituito. E io sono stata truffata». Anni di processi, tribunali, quattrini in uscita. Nel frattempo, nel laboratorio sotto casa, i telai lentamente si fermano, i disegni bizantini si accatastano in piccole pile. Fino al silenzio. Lei comunque ha tenuto il punto, rinnovato l'iscrizione alla Camera di commercio, coltivato piccole produzioni. E si è aggiornata: «Oggi ripartirei da Internet». Ripensa alla lezione di Tavolara, alle tradizioni da consegnare alle generazioni future: «Sarebbe un peccato se tutto finisse così».
paolini@unionesarda.it
4 commenti:
E' una mia compaesana
Elisabetta Barra è un fulgido esempio della migliore Sardegna, quella che coniuga testardaggine con talento, manualità con idealità, visione nel futuro con coscienza delle radici. Io l'ho incontrata più di quindici anni fà, per qualche ora solamente. Di quell'incontro rimane a casa mia un tappeto basato su un disegno di Costantino Nivola. Un giorno lo lascero' ai miei figli dicendo loro che sono il frutto del lavoro e del genio di due grandi sardi.
Elisabetta Barra ha riempito la mia casa di tappeti stupendi ed invidiabili da tutti i miei amici.Il suo senso del colore e la sua passione mi hanno reso ed ancora mi rendono felice.Vorrei poterne acquistare qualcuno per mio figlio visto che i miei hanno più di cinquant'anni.ma i loro disegni ed il loro colore resistono ancora ad addolcire i miei pensieri ed il ricordo di mio padre che me li ha lasciati.
E'un onore averli in casa Annalisa Orrù
Ho già scritto a Febbraio quanto io ammiri il lavoro di Elisabetta Barra e quanto la mia famiglia sia felice di avere in casa dei suoi tappeti.Nel mio soggiorno ne ho uno del 1972 ed è ancora bellissimo.Mi piacerebbe sapere se il laboratorio ancora è aperto e se ha mantenuto i disegni eccezionali della tradizione.Con tutta la stima Annalisa Orrù
Posta un commento