Unione sarda 16\4\2011
Vive a Senorbì, frazione di Arixi, presta servizio a Cagliari e ha partecipato alle missioni in Kosovo, Iraq e Afghanistanl caporalmaggiore Federico Boi congedato per ragioni fisiche: sono contento di non aver più rapporti con certe persone
Sabato 16 aprile 2011
DAL NOSTRO INVIATO
PAOLO PAOLINI
PAOLO PAOLINI
ARIXI La strage di Nassirya è un angolo buio tra i pensieri di Federico Boi.
Il caporalmaggiore sopravvissuto al tritolo che ha fatto a pezzi diciannove compagni d'armi è diventato suo malgrado un santino da esibire nella festa delle Forze armate o negli studi tv. «Ora basta, vado via dalla Brigata Sassari». Congedato per ragioni fisiche, finalmente. «Dopo l'attentato la mia vita in divisa era diventata terribile, l'Esercito dava l'impressione di avercela con me. Detto con onestà: sono contento di non avere più a che fare con certe persone».
Dall'Iraq all'Afghanistan e nell'inferno kosovaro, non s'è mai tirato indietro. Sul corpo e nell'anima le cicatrici delle guerre che una bugia consolidata ha nobilitato al rango di missioni di pace. «Hanno chiuso tutte le porte, una dietro l'altra. Niente più trasferte per me perché la psicologa - anche se non ho mai avuto il piacere di incontrarla - era contraria. Partecipavo all'addestramento, ma al momento della partenza me lo impedivano. Mi hanno lasciato indifeso: davanti agli attacchi dei giornalisti, dei registi, e di chi non aveva idea di cosa significasse la guerra. Non voglio la medaglia d'oro e non la chiederò mai. Per la Brigata Sassari ero un testimonial, riacquistavo un ruolo solo davanti alle telecamere: “Signore e signori, ecco uno dei sopravvissuti di Nassiriya”. Mi telefonavano dal Comando: “Domani devi essere a Roma”, una volta lì mi spedivano in tivù”. A telecamere spente non valevo più nulla».
Specializzato nel calibrare i missili anti carrarmato, al rientro dall'Iraq ha chiesto e ottenuto una nuova qualifica: «Mi hanno inserito nel nucleo comando: furiere, autista e responsabile delle cucine da campo. Ero un vagabondo, senza destinazione. Ripetevano: “Non sappiamo come reagiresti con un'arma in mano”. Allora perché a Cagliari mi inserivate nei turni delle guardie armate?».
A Nassirya cosa non ha funzionato?
«I grandi capi durante i processi hanno giurato che la protezione era sufficiente. Peccato che avessimo la base nel centro del paese, una scelta che non garantiva la sicurezza. Scarseggiavano anche le protezioni legali: non eravamo assicurati contro gli attentati terroristici».
Quindi?
«Dall'orecchio destro non sento quasi nulla, ho una bella cicatrice e la mano s'inceppa, schiena e gambe si rattrappiscono col freddo, mi sveglio di soprassalto mentre rivivo quei momenti. Robetta che mi è stata liquidata con ventiquattromila euro».
In quei giorni fradici di retorica vi chiamavano eroi.
«Non so dire quanto abbiano gradito i colleghi morti. L'Esercito mi ha dato l'encomio solenne. Eroe non mi sento, non voglio esserlo e non lo auguro a nessuno. Quel maledetto giorno mi sono svegliato nell'ospedale da campo degli americani e nel braccio avevo il cartellino con scritto deceased , deceduto. Un cartoncino plastificato pungeva il braccio e mi ha svegliato: erano più spaventati i medici di me. In quattro si sono avventati con la mascherina dell'ossigeno e le flebo. I primi ufficiali italiani li ho visti dopo tante, troppe ore».
L'ultimo incarico?
«Mi hanno offerto - perché lo prevede la legge - un ruolo in ufficio, ma sarei dovuto restare a Cagliari, nella caserma Monfenera. Preferivo cambiare vita. Volevo il trasferimento. Quando ho capito che non sarebbe mai arrivato, ho fatto una scelta».
Ripagata con una ricca buonuscita?
«Un medico legale ha accertato il triplo dell'invalidità stabilita dai suoi colleghi militari. Oggi l'unico beneficio che mi dà la legge sono dieci anni di anzianità da sommare agli undici che ho maturato, così avrò forse qualche centinaio di euro di pensione».
L'hanno avvertita del rischio uranio impoverito?
«In undici anni di esercitazioni ho visto sparare solo proiettili depotenziati, però non posso essere certo di quello che utilizzavano in zone di guerra. La percentuale dei militari che si sono ammalati è bassissima, da ignorante potrei pensare che fossero geneticamente predisposti».
Anche nel poligono di Quirra?
«Ho letto che il procuratore di Lanusei sta chiedendo l'elenco delle armi utilizzate dagli aerei stranieri, e forse lì qualche sorpresa potrebbe esserci».
Perché si è arruolato?
«Sono figlio di militare e ho sempre avuto la passione per la divisa. Nel 2000 non c'era lavoro, dovevo fare il servizio di leva per centosettantamila lire al mese. Mi è piaciuto e ho deciso di restare, credo che questo lavoro mi abbia fatto crescere».
La prima ragione che spinge ad andare in guerra?
«Le missioni ti fanno guadagnare soldi e punteggio per ottenere un contratto a tempo indeterminato. Volevo costruirmi un futuro. In Kosovo siamo andati a sistemare un Paese che avevano rotto, tenendo separati i serbi dai kosovari. Dovevamo costruire scuole, portare l'acqua. In Iraq avevamo lo stesso spirito, ma la situazione era diversa».
Ma non era una missione di pace?
«Sì, puntini puntini».
La guerra contro Gheddafi è fatta per il petrolio?
«È un conflitto politico. Tutti dicono: siamo costretti a partecipare, ma poi sgomitano per essere in prima fila: chi primo arriva meglio alloggia ».
Rischi per la Sardegna?
«C'è sempre un margine di incertezza. Un missile lanciato dalla Libia può sempre sfuggire al controllo e finire, chessò, nel centro di Cagliari, magari al Poetto».
Crede nel mantra della destra americana, cioè esportare la democrazia armi in pugno?
«Gli arabi sono molto diversi da noi, non gli si può imporre la nostra logica a suon di bombe».
Quanto conta la politica nella carriera?
«Siamo pedine nelle loro mani, sono i politici a decidere linee e strategia».
Che lavoro farà?
«Mi butto in politica o faccio il giornalista, almeno potrò punzecchiare gli altri senza pagare pegno».
ppaolini@unionesarda.it
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