dopo aver letto questa storia , e a pochi passi dalla laurea mi vengono in mente delle elucubrazioni mentali del tipo a che servela laurea ? ma poi mi dico ripetendo questo verso di Guccini << (...) mia madre non aveva poi sbagliato a dir che un laureato conta più d' un cantante: (....mia madre non aveva poi sbagliato a dir che un laureato conta più d' un cantante (.... continua qui ).
dall'unione sarda del 10 aprile 2011
di GIORGIO PISANO Qualcuno di buon cuore gli darà conto di questa intervista. E lui ascolterà, come ha fatto mille e mille altre volte: Orfeo Cireddu ( foto a sinistra non sa leggere. E nemmeno scrivere. Non ne fa una tragedia per il semplice motivo che «in paese non ero affatto l'unico». A Las Plassas, trecento anime in tutto, ce n'erano perfino più di quanti si chiamino oggi Orfeo: «Strano nome, vero? Non so perché me l'hanno messo. Eravamo in tre a chiamarci così. Siamo rimasti in due».
Mai aperto un libro, mai sfogliato un giornale «anche perché le cose che contano le ho imparate in famiglia». Dice tra l'altro che l'analfabetismo ha qualche ricaduta positiva: la memoria, per esempio. «Io mi ricordo tutto. Mi ricordo di aver visto Puskas in campo nel 1950, mi ricordo una storica Italia-Argentina che ci avevo portato anche mie figlie piccole. Potrei elencare le formazioni». Nelle ampissime panoramiche sul passato vede ancora molti dettagli della vita di ieri. Uno su tutti: «Sono andato servo a dieci anni».
Cosa vuol dire? «Vuol dire che mio padre, che lavorava in campagna, e mia madre, che andava a servizio, avevano deciso di mandarmi a guardare il bestiame di questi due fratelli».
Alla fine della giornata tornava a casa? «Mai. Però mi capitava di vedere mamma in strada. Babbo no, perché babbo faceva la transumanza a Siliqua».
Come si stava dai due fratelli? «Bene e così così. Eravamo io e un altro ragazzo servo. Con uno dei fratelli mangiavamo a tavola insieme alla sua famiglia. Con l'altro in una stanzetta a parte. Con uno ti passava la fame, con l'altro non tutta. Però una soddisfazione me la sono presa».
Quale? «La casa dove facevo il servo era questa. L'ho comprata quarant'anni fa perché io non ho fatto solo il servo. Anche il padrone».
E perfino il consigliere comunale. «Si poteva. Legislatura del 2004. Eletto con sei preferenze, praticamente i miei familiari».
Sessantaquattro anni, Orfeo Cireddu campa della pensione di reversibilità dell'amatissima moglie, Carmela. «Fanno 460 euro e devo essere onesto: ci vivo senza grandi problemi». Con lui - in un'abitazione che sembra sponsorizzata da un'azienda di alluminio anodizzato - non ci sono più le due figlie: una, ragioniera, lavora in Comune. L'altra, «diplomata maestra», è infermiera in Piemonte. «Sono contento, hanno sposato due bravi ragazzi che fanno i muratori».
Orfeo sarebbe solissimo se non fosse per il cagnolino che vive con lui. Cagnolino che non si chiama, nel senso che «non gli ho messo nome. Tanto, cosa se ne fa?». Astemio, non fumatore, ha allevato pecore da quando era bambino. «E anche con qualche risultato. Le vede quelle coppe sulla credenza? Vinte. A mostre, a sagre, a feste. Avrò venduto, chessò, cinquecento arieti in Toscana, in Umbria, nel Lazio. Non erano tempi di restare con le mani in mano. E io non restavo».
Non si poteva. I fratelli erano sei, lui il quarto: bisognava darsi da fare. «Adesso è tutta un'altra musica». Povertà da vendere all'ingrosso «ma era un mondo migliore. Lo so, lo so che non ci credete. Certe volte è diventato difficile capirsi. Faccio una domanda, per esempio: che gliene importa di uno che non sa scrivere e non sa leggere?, a chi interessa? Ah, perché ho fatto il consigliere comunale, ecco perché. Ma ho fatto anche molte altre cose. Sempre senza sapere leggere e scrivere».
Conosce qualche lettera dell'alfabeto? «No».
Firma con una croce? «No. So fare la mia firma. Mi sono allenato con le cambiali e non ho più dimenticato come si fa».
Quando è andato al pascolo la prima volta? «Avevo quattro anni. Babbo mi ha portato e io mi sono incantato davanti alle pecore».
Che erano più grandi di lei. «Allora sì. Da grande ne ho avuto anche trecento. Le riconoscevo una per una, mica guardavo il cartellino che avevano all'orecchio».
Anche perché non sapeva cosa c'era scritto. «I numeri li so, invece. Li ho dovuti imparare a forza, per sapere quando dovevano pagarmi il latte che portavo al caseificio. Carmela, mia moglie, che se n'è andata a 52 anni d'età lasciandomi solo, restava sbalordita perché io tenevo un libretto con tutte queste cifre».
Errori? «Mai. Quando sai poche cose sbagliare diventa più difficile».
Una scuola l'ha mai vista? «Vista e entrato, ci sono. Due mesi, poi me ne sono andato. Prima elementare. Mi ricordo la maestra, una signorina di Barumini: ci faceva mettere le mani dritte dritte e ferme sul banco e lei ce le pestava con un bacchetta durissima. È rimasta signorina. Io, a scuola, ci andavo per giocare, mica per finire picchiato».
Perciò se n'è andato. E i suoi? «Ho detto a babbo che volevo fare il pastore e lui ha accettato. Anche perché in questo modo era un altro di noi che lavorava».
Altri analfabeti in famiglia? «Mia sorella, la più grande. Ha 72 anni. Ma perché le interessa tanto la storia di un uomo che non ha studiato?»
Per capire come si è difeso. «Benissimo. L'unica cosa che mi manca è Carmela. Era... era, come si dice?, il mio braccio destro. Lei, tra l'altro, c'aveva anche la scuola: ha fatto la quinta. Quando aveva tredici anni è andata a servizio a Cagliari da quell'avvocato che ha il figlio scrittore. Avvocato Abate si chiamava».
Mai preso in giro? «Se è successo non me ne sono accorto. I miei compagni di scuola di allora oggi giocano a pinella con me al bar. Giochiamo anche in sei: punteggio a 1.150 o in quattro: allora a 1.350. Niente soldi, ci scommettiamo la birra. Sa giocare a pinella?»
Come se l'è cavata col Catechismo? «Ho fatto tutto che avevo sette anni. Il catechismo c'era ma non si studiava come succede adesso che devi prendere un libro e imparare e ti interrogano».
Fosse successo? «Mi sarei regolato come sempre. Ascolto gli altri e memorizzo. Con questo voglio dirle che non so leggere e scrivere ma non sono ignorante».
No? «Al pascolo avevo la radietta sopra il bidone della mungitura. E ascoltavo, ascoltavo. Mi è sempre rimasto tutto in testa. Dopo, molto dopo, è arrivata la televisione. E anche dalla televisione ho imparato».
Mai desiderato andare a scuola? «Sarei bugiardo se dico sì. A parte il fatto che non avevo tempo, non mi piaceva, non mi interessava».
Avrebbe potuto recuperare più tardi. «Guardi che io avevo un gregge da badare fino a pochi anni fa. E capi iscritti all'Albo genealogico. Vuol dire che erano di qualità. Della scuola non m'importava niente. E il tempo, se proprio lo dovevo trovare, me lo prendevo per andare a vedere le partite. Solo».
In che senso? «Non mi piace la gente che urla, gli striscioni, non mi piacciono quelli che vanno allo stadio per bisticciare. A me mi piace riflettere su quello che vedo. Ci vuole silenzio. Sono milanista».
È in grado di leggere qualche parola? «Neanche una e non ci ho nemmeno provato».
Scrivere, proprio nulla? «Solo la firma. Non ho neanche la patente. Ma la scuola, in questo caso, non c'entra: la patente te la davano anche da analfabeta».
Mai sfogliato un giornaletto? «Sapendo che potevo guardare soltanto le figure, non ne ho mai avuto la curiosità».
Sta dicendo che non ha mai visto un Tex, un Capitan Miki... «Esatto. Quello che mi doveva servire per vivere me lo hanno dato, senza passare in un'aula, i miei genitori. Le ho detto di quella volta che avevo 22 anni e sono tornato tardi a pranzo?»
No. «Ero al bar per una partitina dopo dodici-tredici ore di lavoro. Arriva mia sorellina: dice mamma che siamo a tavola, torna a casa. Ho aspettato di finire la partita».
Saltato il pasto? «Proprio. Avevano anche già sparecchiato e la chiave dell'armadio del pane la teneva mamma sotto il cuscino. Quindi non c'era più niente da fare. A mia madre non gliene importava nulla che fossi un uomo di 22 anni».
Orfeo Cireddu è bassottino, capelli grigi ben pettinati, pancetta che mette a durissima prova maglione e camicia. Non lo dice mai apertamente ma la sensazione è che viva il suo analfabetismo come un fatto privatissimo e comunque senza conseguenze nella vita di tutti i giorni. Tiene molto, forse per giustificare la fuga dalla scuola, a raccontare la storia della sua famiglia, i sei mesi trascorsi ogni anno a Siliqua durante la transumanza. Sei mesi senza rivedere la famiglia, solo in una capannuccia giorno e notte. Quando una delle due figlie voleva abbandonare la scuola a un passo dal diploma, l'ha folgorata: benissimo, da domani cerchiamo scale da lavare, così porti il pane a casa. «A nessuno è consentito di vivere senza lavorare». Il seguito di questa vicenda lo racconta con gli occhi lucidi: «Il giorno che m'ha portato il diploma a casa, mia figlia era felice. Quando le ho ricordato cosa stava per fare, è rimasta zitta, ma zitta zitta che non le usciva parola per giustificarsi».
Come passava i momenti morti in campagna? «Non ce n'erano di momenti morti. Per diciotto anni sono andato in transumanza a Siliqua».
Solo? «Spesso. Ma non avevo paura. In campagna non devi averne mai altrimenti non ci puoi vivere. E non è che Siliqua fosse sempre un posto raccomandabile».
Rischi? «Ce ne sono. Bisogna saperli evitare. Non sarà un caso se sono arrivato alla mia età senza aver preso neppure una denuncia. Anche coi delinquenti occorre avere un certo modo».
Cioè? «Ognuno al suo posto. Poi, è chiaro che l'uomo di campagna guarda ma non vede. È la regola».
Si è sentito a disagio in Consiglio comunale? «No, e perché?, sempre per quella storia di leggere e scrivere?»
Le avranno passato una mozione da firmare. «Più di una. Sapevo da prima di cosa si trattava. Oppure ascoltavo quello che dicevano gli altri».
Sta dicendo che non ha mai chiesto a un collega: per favore, puoi leggermela? «Proprio. È come quando andavo al cinema: sentivo il titolo ma non è che poi, quando salivano in quattordici su una Millecento per andare a Barumini, chiedevo di ripetermi un titolo che non avevo letto. Bello, il cinema. Mi ricordo Un dollaro bucato ».
Dunque in politica... «Quando sono stato eletto era la seconda volta che mi candidavo. E, a dire il vero, c'è stata anche una terza ma non abbiamo raggiunto il quorum: la maggioranza per l'elezione valida era 134 ma sono andati al seggio solo 127».
Le piace la politica? «Molto. Penso che ai tempi miei c'erano quelli che si chiamavano con disprezzo politicanti ma poi c'erano anche Berlinguer, Andreotti, Moro, Pajetta. Oggi è peggio: li comprano e li vendono come le pecore».
Peggio che essere analfabeti. «Direi. Nella mia vita mi sono sempre comportato da uomo onesto. Non c'era da divertirsi ma tutto aveva un senso. Carmela mi ha aiutato moltissimo. Io avevo ventisei anni quando ci siamo sposati, lei venti. Siamo stati una famiglia unita».
Ora ammazza il tempo giocando a carte. «Ora sì, ma per due anni ho fatto da baby sitter a due nipotini. Bellissimo vederli crescere. Uno, lo vede?, è nella fotografia a colori su quel muro... una meraviglia».
Una volta, una volta sola nella vita, è diventato rosso? «Per la solita storia, vuol dire? No. Non mi crederà ma se torno indietro rifaccio la vita che ho fatto meno i due mesi alle elementari con la signorina di Barumini».
pisano@unionesarda.it
Mai aperto un libro, mai sfogliato un giornale «anche perché le cose che contano le ho imparate in famiglia». Dice tra l'altro che l'analfabetismo ha qualche ricaduta positiva: la memoria, per esempio. «Io mi ricordo tutto. Mi ricordo di aver visto Puskas in campo nel 1950, mi ricordo una storica Italia-Argentina che ci avevo portato anche mie figlie piccole. Potrei elencare le formazioni». Nelle ampissime panoramiche sul passato vede ancora molti dettagli della vita di ieri. Uno su tutti: «Sono andato servo a dieci anni».
Cosa vuol dire? «Vuol dire che mio padre, che lavorava in campagna, e mia madre, che andava a servizio, avevano deciso di mandarmi a guardare il bestiame di questi due fratelli».
Alla fine della giornata tornava a casa? «Mai. Però mi capitava di vedere mamma in strada. Babbo no, perché babbo faceva la transumanza a Siliqua».
Come si stava dai due fratelli? «Bene e così così. Eravamo io e un altro ragazzo servo. Con uno dei fratelli mangiavamo a tavola insieme alla sua famiglia. Con l'altro in una stanzetta a parte. Con uno ti passava la fame, con l'altro non tutta. Però una soddisfazione me la sono presa».
Quale? «La casa dove facevo il servo era questa. L'ho comprata quarant'anni fa perché io non ho fatto solo il servo. Anche il padrone».
E perfino il consigliere comunale. «Si poteva. Legislatura del 2004. Eletto con sei preferenze, praticamente i miei familiari».
Sessantaquattro anni, Orfeo Cireddu campa della pensione di reversibilità dell'amatissima moglie, Carmela. «Fanno 460 euro e devo essere onesto: ci vivo senza grandi problemi». Con lui - in un'abitazione che sembra sponsorizzata da un'azienda di alluminio anodizzato - non ci sono più le due figlie: una, ragioniera, lavora in Comune. L'altra, «diplomata maestra», è infermiera in Piemonte. «Sono contento, hanno sposato due bravi ragazzi che fanno i muratori».
Orfeo sarebbe solissimo se non fosse per il cagnolino che vive con lui. Cagnolino che non si chiama, nel senso che «non gli ho messo nome. Tanto, cosa se ne fa?». Astemio, non fumatore, ha allevato pecore da quando era bambino. «E anche con qualche risultato. Le vede quelle coppe sulla credenza? Vinte. A mostre, a sagre, a feste. Avrò venduto, chessò, cinquecento arieti in Toscana, in Umbria, nel Lazio. Non erano tempi di restare con le mani in mano. E io non restavo».
Non si poteva. I fratelli erano sei, lui il quarto: bisognava darsi da fare. «Adesso è tutta un'altra musica». Povertà da vendere all'ingrosso «ma era un mondo migliore. Lo so, lo so che non ci credete. Certe volte è diventato difficile capirsi. Faccio una domanda, per esempio: che gliene importa di uno che non sa scrivere e non sa leggere?, a chi interessa? Ah, perché ho fatto il consigliere comunale, ecco perché. Ma ho fatto anche molte altre cose. Sempre senza sapere leggere e scrivere».
Conosce qualche lettera dell'alfabeto? «No».
Firma con una croce? «No. So fare la mia firma. Mi sono allenato con le cambiali e non ho più dimenticato come si fa».
Quando è andato al pascolo la prima volta? «Avevo quattro anni. Babbo mi ha portato e io mi sono incantato davanti alle pecore».
Che erano più grandi di lei. «Allora sì. Da grande ne ho avuto anche trecento. Le riconoscevo una per una, mica guardavo il cartellino che avevano all'orecchio».
Anche perché non sapeva cosa c'era scritto. «I numeri li so, invece. Li ho dovuti imparare a forza, per sapere quando dovevano pagarmi il latte che portavo al caseificio. Carmela, mia moglie, che se n'è andata a 52 anni d'età lasciandomi solo, restava sbalordita perché io tenevo un libretto con tutte queste cifre».
Errori? «Mai. Quando sai poche cose sbagliare diventa più difficile».
Una scuola l'ha mai vista? «Vista e entrato, ci sono. Due mesi, poi me ne sono andato. Prima elementare. Mi ricordo la maestra, una signorina di Barumini: ci faceva mettere le mani dritte dritte e ferme sul banco e lei ce le pestava con un bacchetta durissima. È rimasta signorina. Io, a scuola, ci andavo per giocare, mica per finire picchiato».
Perciò se n'è andato. E i suoi? «Ho detto a babbo che volevo fare il pastore e lui ha accettato. Anche perché in questo modo era un altro di noi che lavorava».
Altri analfabeti in famiglia? «Mia sorella, la più grande. Ha 72 anni. Ma perché le interessa tanto la storia di un uomo che non ha studiato?»
Per capire come si è difeso. «Benissimo. L'unica cosa che mi manca è Carmela. Era... era, come si dice?, il mio braccio destro. Lei, tra l'altro, c'aveva anche la scuola: ha fatto la quinta. Quando aveva tredici anni è andata a servizio a Cagliari da quell'avvocato che ha il figlio scrittore. Avvocato Abate si chiamava».
Mai preso in giro? «Se è successo non me ne sono accorto. I miei compagni di scuola di allora oggi giocano a pinella con me al bar. Giochiamo anche in sei: punteggio a 1.150 o in quattro: allora a 1.350. Niente soldi, ci scommettiamo la birra. Sa giocare a pinella?»
Come se l'è cavata col Catechismo? «Ho fatto tutto che avevo sette anni. Il catechismo c'era ma non si studiava come succede adesso che devi prendere un libro e imparare e ti interrogano».
Fosse successo? «Mi sarei regolato come sempre. Ascolto gli altri e memorizzo. Con questo voglio dirle che non so leggere e scrivere ma non sono ignorante».
No? «Al pascolo avevo la radietta sopra il bidone della mungitura. E ascoltavo, ascoltavo. Mi è sempre rimasto tutto in testa. Dopo, molto dopo, è arrivata la televisione. E anche dalla televisione ho imparato».
Mai desiderato andare a scuola? «Sarei bugiardo se dico sì. A parte il fatto che non avevo tempo, non mi piaceva, non mi interessava».
Avrebbe potuto recuperare più tardi. «Guardi che io avevo un gregge da badare fino a pochi anni fa. E capi iscritti all'Albo genealogico. Vuol dire che erano di qualità. Della scuola non m'importava niente. E il tempo, se proprio lo dovevo trovare, me lo prendevo per andare a vedere le partite. Solo».
In che senso? «Non mi piace la gente che urla, gli striscioni, non mi piacciono quelli che vanno allo stadio per bisticciare. A me mi piace riflettere su quello che vedo. Ci vuole silenzio. Sono milanista».
È in grado di leggere qualche parola? «Neanche una e non ci ho nemmeno provato».
Scrivere, proprio nulla? «Solo la firma. Non ho neanche la patente. Ma la scuola, in questo caso, non c'entra: la patente te la davano anche da analfabeta».
Mai sfogliato un giornaletto? «Sapendo che potevo guardare soltanto le figure, non ne ho mai avuto la curiosità».
Sta dicendo che non ha mai visto un Tex, un Capitan Miki... «Esatto. Quello che mi doveva servire per vivere me lo hanno dato, senza passare in un'aula, i miei genitori. Le ho detto di quella volta che avevo 22 anni e sono tornato tardi a pranzo?»
No. «Ero al bar per una partitina dopo dodici-tredici ore di lavoro. Arriva mia sorellina: dice mamma che siamo a tavola, torna a casa. Ho aspettato di finire la partita».
Saltato il pasto? «Proprio. Avevano anche già sparecchiato e la chiave dell'armadio del pane la teneva mamma sotto il cuscino. Quindi non c'era più niente da fare. A mia madre non gliene importava nulla che fossi un uomo di 22 anni».
Orfeo Cireddu è bassottino, capelli grigi ben pettinati, pancetta che mette a durissima prova maglione e camicia. Non lo dice mai apertamente ma la sensazione è che viva il suo analfabetismo come un fatto privatissimo e comunque senza conseguenze nella vita di tutti i giorni. Tiene molto, forse per giustificare la fuga dalla scuola, a raccontare la storia della sua famiglia, i sei mesi trascorsi ogni anno a Siliqua durante la transumanza. Sei mesi senza rivedere la famiglia, solo in una capannuccia giorno e notte. Quando una delle due figlie voleva abbandonare la scuola a un passo dal diploma, l'ha folgorata: benissimo, da domani cerchiamo scale da lavare, così porti il pane a casa. «A nessuno è consentito di vivere senza lavorare». Il seguito di questa vicenda lo racconta con gli occhi lucidi: «Il giorno che m'ha portato il diploma a casa, mia figlia era felice. Quando le ho ricordato cosa stava per fare, è rimasta zitta, ma zitta zitta che non le usciva parola per giustificarsi».
Come passava i momenti morti in campagna? «Non ce n'erano di momenti morti. Per diciotto anni sono andato in transumanza a Siliqua».
Solo? «Spesso. Ma non avevo paura. In campagna non devi averne mai altrimenti non ci puoi vivere. E non è che Siliqua fosse sempre un posto raccomandabile».
Rischi? «Ce ne sono. Bisogna saperli evitare. Non sarà un caso se sono arrivato alla mia età senza aver preso neppure una denuncia. Anche coi delinquenti occorre avere un certo modo».
Cioè? «Ognuno al suo posto. Poi, è chiaro che l'uomo di campagna guarda ma non vede. È la regola».
Si è sentito a disagio in Consiglio comunale? «No, e perché?, sempre per quella storia di leggere e scrivere?»
Le avranno passato una mozione da firmare. «Più di una. Sapevo da prima di cosa si trattava. Oppure ascoltavo quello che dicevano gli altri».
Sta dicendo che non ha mai chiesto a un collega: per favore, puoi leggermela? «Proprio. È come quando andavo al cinema: sentivo il titolo ma non è che poi, quando salivano in quattordici su una Millecento per andare a Barumini, chiedevo di ripetermi un titolo che non avevo letto. Bello, il cinema. Mi ricordo Un dollaro bucato ».
Dunque in politica... «Quando sono stato eletto era la seconda volta che mi candidavo. E, a dire il vero, c'è stata anche una terza ma non abbiamo raggiunto il quorum: la maggioranza per l'elezione valida era 134 ma sono andati al seggio solo 127».
Le piace la politica? «Molto. Penso che ai tempi miei c'erano quelli che si chiamavano con disprezzo politicanti ma poi c'erano anche Berlinguer, Andreotti, Moro, Pajetta. Oggi è peggio: li comprano e li vendono come le pecore».
Peggio che essere analfabeti. «Direi. Nella mia vita mi sono sempre comportato da uomo onesto. Non c'era da divertirsi ma tutto aveva un senso. Carmela mi ha aiutato moltissimo. Io avevo ventisei anni quando ci siamo sposati, lei venti. Siamo stati una famiglia unita».
Ora ammazza il tempo giocando a carte. «Ora sì, ma per due anni ho fatto da baby sitter a due nipotini. Bellissimo vederli crescere. Uno, lo vede?, è nella fotografia a colori su quel muro... una meraviglia».
Una volta, una volta sola nella vita, è diventato rosso? «Per la solita storia, vuol dire? No. Non mi crederà ma se torno indietro rifaccio la vita che ho fatto meno i due mesi alle elementari con la signorina di Barumini».
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