da diario di Repubblica del 2\2\2012
Tre anni fa mi trovavo a Toronto, in Canada, per un festival internazionale di letteratura. Ricordo, in particolare, un incontro interessante con un simpatico musicista. Mi disse che aveva da poco ottenuto la cittadinanza italiana con estrema facilità, era bastato il certificato di nascita del bisnonno immigrato dal Veneto all’inizio del secolo scorso. Niente esame di lingua, di storia, di cultura, di costituzione,per misurare la sua italianità. «Non parlo l’italiano – ripeteva ridendo – e non sono mai stato in Italia, Paese di cui conosco pochissime cose. Per essere sincero mi sento completamente canadese». Gli chiesi: «Allora perché hai deciso di diventare cittadino italiano?». Mi rispose: «Per far felice la nonna, l’unica in famiglia che parla ancora qualche parola di italiano».
Gli raccontai la mia storia per ottenere la cittadinanza italiana, una cittadinanza “sudata”, non regalata. Un lungo percorso durato 12 anni di residenza, una maturazione profonda e una lenta italianizzazione fatta con la mente, la lingua, la conoscenza, il dialogo, la scrittura e soprattutto con il cuore.
Mi torna in mente spesso la storia del “canadese” quando incontro ragazze e ragazzi nati in Italia e con genitori immigrati. Mi colpisce la loro determinazione e maturità: non hanno dubbi identitari, si sentono italiani a tutti gli effetti. Capiscono che il problema non sono loro, ma il contesto in cui si trovano, fatto di propaganda, ipocrisia, cattiveria e mancanza di buon senso. Ricordo che una volta una ragazza nata a Roma, di origine marocchina, mi spiegò con poche parole la grande frustrazione e ingiustizia in cui vivono giovani come lei: «Quando sono a Roma mi chiamano la marocchina, e quando vado in Marocco mi chiamano l’italiana». Non parla arabo, però va fiera del suo romanesco, si considera una grande tifosa della nazionale di calcio e conosce a memoria le canzoni di Lucio Battisti. Poi, con un tono pieno di tristezza e di sofferenza: «Sono un’italiana con il permesso di soggiorno!». È umiliante e assurdo chiamarli “immigrati di seconda generazione”. Sono i genitori che sono immigrati, non loro. Aveva ragione il grande scrittore arabo Abu Hayyan Al-Tawhidi (morto nel 1023) quando sosteneva che «lo straniero più straniero in assoluto è quello che vive da straniero nella propria patria». In questi ultimi anni è stata concessa la cittadinanza italiana a tanti, soprattutto all’estero, in base solo allo ius sanguinis. Molti di loro votano anche se non pagano le tasse e possono condizionare la vita politica italiana. Invece i figli di immigrati nati in Italia sono esclusi perché non hanno un antenato italiano nel loro albero genealogico, cioè qualche goccia di sangue italiano nelle vene. Così si vedono costretti al diciottesimo anno a chiedere il permesso di soggiorno. L’Italia non dovrebbe essere il loro Paese? Perché continuare a rigettarli e a trattarli come figli illegittimi? Ne conoscono la cultura, la cucina, la storia, la geografia, lo sport e la politica. Ne parlano la lingua e i dialetti locali. Condividono con gli italiani “puri” felicità e dolori, pregi e difetti, caratteri e umori. Insomma amano questo Paese e vogliono essere amati.Non dare la cittadinanza a chi è nato in Italia è semplicemente “vergognoso
qui il resto del numero dedicata appunto al tema della cittadinanza e sul diritto dei figli di immigrati nati nel nostro paese a non essere discriminati per le loro origini e la loro provenienza http://download.repubblica.it/pdf/diario/2012/02022012.pdf
dato che ci sono ne approfitto per rispondere anche ai fanatici di forza nuova .
da quando ho configurato la mia email redbeppe@gmail.com su blogspost contattami ( a disposizione per chi volesse scrivermi ) ho ricevuto diverse email di gente vicino a tali elementi o di tali elementi stessi vedere titolo e post su Altan e gli insulti di Forza Nuova ( nuovo mascherato da vecchio )
e affini .Lo so che direte , cancella e cestina , vero ma non sempre è possibile con gente ipocrita e bugiuarda che nega l'evidenza dei fatti come dimostra l'articolo che