Nel labirinto del Sol Levante: da Nuoro a Tokyo, sola andata
di GIORGIO PISANO
Adesso fa la 'soressa di italiano nella televisione di Stato del Giappone, un po' come faceva con noi il maestro Manzi negli anni Sessanta. Prima di tutto questo, destinazione finale di un cammino iniziato molti anni prima, Eva Cambedda era una ragazzina di sedici anni che girava per Nuoro, capelli rasati a zero e tribali di cinque colori. Una volta in piazza Italia una comare non ha resistito: non ti vergogni ad andare in giro conciata così? Fortunatamente no, difatti ha tirato dritto senza degnarla.
In famiglia, d'altra parte, era considerata «una che fa di testa sua». Figlia di un bancario e di una donna che ancora oggi insegue la pensione sulle macerie dell'Enichem Fibre di Ottana, ha annunciato la partenza verso l'altra parte del mondo con la stessa naturalezza di quando s'è messa in testa un futuro speciale, magari cominciando dall'Istituto universitario Orientale di Napoli. La famiglia è rimasta a guardarla mentre faceva con calma la valigia, nemmeno una parola che potesse far vacillare una decisione che in ogni caso non prevedeva Appello.
Peccato che la strada da Nuoro a Tokyo, sola andata e scalo intermedio in Campania, non sia semplicissima. Nel bagaglio dev'esserci molta testardaggine, un pizzico di autostima e la certezza che alla fine - quando il portellone dell'aereo si spalancherà su un mondo nuovo - non mancherà l'happy end
Trentaquattro anni, sposata ad un napoletano che l'ha seguita in questa avventura, Eva Cambedda ( foto a sinistra presa dalla sua pagina di facebok) non ha figli «ma un centinaio di studenti, tra i 18 e gli 85 anni, da accudire». A voler essere precisi, nella casa del quartiere dove abita - su un lungofiume presidiato dai ciliegi - ci sono anche quattro pesci che il marito confida di trasferire in un acquario più ampio per infoltire i residenti. «Stiamo al quinto piano di una zona molto tranquilla, un passo da Shibuya, che è il quartiere più vivace della città. Quando esco, saluto qualche vicino... cosa abbastanza insolita per i giapponesi. A un passo c'è un ristorante sardo, Tharros, dove mi fermo anche solo per un caffè. E la mia giornata può finalmente decollare».
La storia di Eva si racconta in poche righe: dopo aver inutilmente cercato un'occupazione legata alla sua laurea, ha deciso di abbandonare Napoli e cercare un'alternativa a Tokyo. Entrata con un visto studentesco, ha trovato lavoro (molto pesante) in un'azienda di vini. Il salto lo ha fatto arrivando poi in cattedra alla Berlitz School, scuola di lingue dove attualmente insegna. Nel frattempo l'ha chiamata la tivù per proporle un corso di lingua italiana. Tra poco inizierà a girare un telefilm che è una sorta di traduttore applicato alla quotidianità: come ordinare in un ristorante (italiano ovviamente), dove e a chi chiedere informazioni, come comportarsi in hotel eccetera.Senza scomodare la felicità, termine troppo impegnativo e ferocemente selettivo, cosa le manca? «Ci stavo riflettendo giusto un mese fa. Dovessi dirlo in una parola: la Sardegna. Ma è scontato, ovvio. Vorrei invece una casa più grande, per esempio con un giardino. Però so già che poi mi lamenterei perché non avrei tempo per starle dietro».
Sette anni in Giappone: quante volte è rientrata in Sardegna?
«Ci sono tornata tre volte. Purtroppo amo molto il mio lavoro e ho difficoltà a staccarmene».
Quante lingue parla?
«Giapponese e inglese correntemente. Parlavo molto bene anche francese e spagnolo ma non utilizzandoli da anni li ho un po' persi, comunque me la cavo».
Marito napoletano, lavoro giapponese: una nuorese dalla mentalità aperta.
«Ho avuto la fortuna di avere una famiglia molto severa che mi ha però sempre lasciata libera di fare le mie scelte. Fin dall'adolescenza avevo tendenze poco convenzionali ma allo stesso tempo ho sempre amato la tradizione. Non sono andata via da Nuoro perché non era abbastanza, me ne sono andata perché la Eva del tempo non mi bastava, dovevo crescere».
Appassionata di Storia antica del Giappone: come nasce questo interesse?
«È stato un processo graduale, come tutto nella mia vita: non sono una persona che si fa folgorare, ho bisogno di metabolizzare gli eventi per dargli il giusto peso. Forse però tutto è cominciato quando facevo judo. Mi affascinava il concetto del rispetto dell'avversario dettato dal Codice dei samurai».
Vivere a Tokyo.
«Tutto dipende dal lavoro che si fa ma in linea di massima Tokyo non dorme mai, milioni di persone si spostano ogni giorno sempre con una meta e spesso in solitudine. Vedere persone che mangiano o bevono da sole nei ristoranti o nei bar è all'ordine del giorno. I giapponesi non amano vivere la casa come noi, quindi la città diventa un vero teatro della vita quotidiana: lavoro, relazioni sociali, amore...».
Dà l'impressione d'essere un popolo felice?
«So che il Giappone figura tra i Paesi col maggior numero di suicidi. Felici? Non ne ho idea, probabilmente lo sono secondo i loro canoni. Che non sono affatto i nostri».
Dovesse descrivere in sintesi telegrafica i giapponesi?
«Popolo complesso difficilmente riassumibile in due parole. Il loro comportamento varia a seconda del contesto in cui si trovano. Li definirei sicuramente stoici, pervasi dal senso dell'effimero, impeccabili nel processo produttivo, carenti in quello decisionale».
Somiglianze e differenze.
«Coi sardi hanno in comune l'insularità e questo li porta per natura ad una chiusura caratteriale e a una generica diffidenza verso l'esterno. Siamo diversi nella spiccata curiosità che hanno nei confronti delle altre culture. Viaggiano ovunque e seguono corsi su qualsiasi cosa e a qualsiasi età. Basti dire che ho studenti ultraottantenni, tra l'altro i migliori direi, ricchi di storia e vivacità. Decisamente un po' lontani dallo stereotipo italiano».
Qual è l'atteggiamento comune verso l'Italia e gli italiani?
«Siamo fortunati, direi: amano l'Italia anche quando noi italiani non facciamo nulla per farci voler bene. Senza il loro estremo amore per il nostro Paese non avrei la possibilità di fare il mio lavoro. I ristoranti italiani e i centri di cultura italiani crescono come funghi. Permane un pochino l'immagine negativa dell'italiano fanfarone ma c'è anche quella dell'italiano ottimista e capace di arrangiarsi con il sorriso anche nelle situazioni più critiche».
Comportamento verso gli immigrati.
«Domanda alla quale preferirei non rispondere per la complessità dei contenuti poco riassumibili in due parole che porterebbero a fraintendimenti. Sicuramente non amano un'assoluta presenza straniera nel loro Paese. Le regole sull'immigrazione sono molto severe e spesso ce ne sono di speciali per gli stranieri, specialmente per quelli asiatici coinvolti nella seconda guerra mondiale. Giapponesi si nasce, non si diventa. Nel momento in cui sai di non voler diventare giapponese ma semplicemente essere italiano nel loro Paese rispettandone in tutto e per tutto tradizioni e regole, la vivi in modo molto positivo. Comunque noi italiani facciamo parte di una categoria speciale, appena sanno che siamo italiani gli brillano gli occhi».
Cosa non sopporta del Giappone?
«Non sopporto il loro disinteresse, almeno apparente, nei confronti dei temi politico-sociali. Sembra sempre che non abbiano curiosità o un'opinione su quello che succede. Il fatto che si viva bene li porta a non pensare che possa cambiare qualcosa. Si adagiano sulle decisioni altrui, soprattutto quelle della classe politica».
Qualunquismo o disinteresse?
«Credo sia solo indifferenza. Sono abituati a rispettare le regole e non metterle in discussione. Ne consegue una carenza di capacità critica».
Dopo la laurea ha fatto per un anno la commessa: avvilente?
«Avvilente certo, ma non per il lavoro in sé, che va rispettato. Avvilente come qualsiasi lavoro che non si sia scelto e per il quale si viene sfruttati. Ad ogni modo facevo del mio meglio e mi riusciva bene, forse avrei fatto carriera».
A quante porte ha bussato prima di partire?
«Troppe. Ricordo che avevo un'e-mail preimpostata con dentro gli indirizzi di centinaia di aziende italiane che avevano rapporti con il Sol Levante. Ogni mese la spedivo e ogni mattina accendevo il Pc con la speranza che qualcuno araccogliesse il mio sos ma, a parte le solite risposte automatiche prive del mio stesso nome nell'intestazione della lettera, nulla di nulla. Era quello che più mi spaventava dopo anni di studi».
Appena arrivata in Giappone ha invece trovato subito lavoro.
«Sì. In un'azienda che importava vini da tutto il mondo. Io mi occupavo della promozione locale e fungevo da interprete durante le manifestazioni con i produttori che venivano dall'estero».
Orari massacranti, giusto?
«Si comincia tardi rispetto all'Italia, di solito alle 9.30, ma non si sa quando si finisce. Se il superiore non va via nessuno va via, anche se non si ha niente da fare. Quante ore? Anche dodici, quattordici al giorno, spesso anche il fine settimana e dopo il lavoro a cena con il capo e i colleghi. Sembra comunque che ora le cose stiano cambiando: i giovani preferiscono essere assunti part-time anziché impiegati a tempo indeterminato in quelle che sembrano aziende-famiglia».
Lei parla di grande stress psicologico. Cioè?
«Mai una gratifica. Si deve sempre fare di più, sempre di più, non è mai abbastanza. Psicologicamente ti uccide».
Ottenuto il visto di lavoro, piovono offerte: come mai?
«Il punto sta nell'azienda per la quale lavoravo e tuttora lavoro, la Berlitz. È una scuola molto stimata, prestigiosa e super-cara (tipo: 40 minuti di lezione 80 euro) che ti apre le porte».
Insegnante alla Berlitz e ora prof nella tivù di Stato.
«Lavoro ancora per la Berlitz. In realtà sono una libera professionista. Di solito ho contratti annuali che si rinnovano automaticamente ogni anno. Mi piace decidere per quanto e per chi lavorare, non amo essere dipendente di un'azienda. La tv pubblica, la Nhk, è arrivata quasi per caso. Mi trovavo a registrare le voci per il corso di italiano della radio di Stato ed era presente, a mia insaputa, un produttore televisivo col quale ho parlato per un po'. Dopo qualche giorno mi arriva la sua e-mail in cui mi chiede di presentarmi per un colloquio: era stato colpito dalla mia vitalità e dal mio lavoro alla Berlitz».
Contraria all'idea del posto fisso?
«Non sono contraria, semplicemente non la ritengo indispensabile. Qui il salario minimo è di 1.500 euro: in una città come Tokyo ci si vive dignitosamente. Io tuttavia preferisco essere una libera professionista e decidere quali lavori mi vanno bene e a quali condizioni. In Giappone si può scegliere tra le due soluzioni».
È stata la televisione di Stato a chiamarla?
«Sì, non è qualcosa che ho cercato e in questo ho avuto fortuna. Ero nel posto giusto al momento giusto».
E sta pure girando un telefilm, adesso.
«Una serie di storielline che insegnano le regole della lingua italiana senza la pesantezza accademica che tende alla mera spiegazione grammaticale. Il mio motto sul lavoro è studiare divertendosi».
La tivù l'ha fatta diventare un personaggio popolare.
«Nell'ambito di chi studia o ama l'Italia sono conosciuta. Mi fermano per strada, oppure mi chiedono autografi e foto da fare insieme, per loro sono Eva dell'Nhk».
Voglia di tornare?
«Idealmente sì. Praticamente però è difficile lasciare il Paese che ti ha accolto a braccia aperte e ti ha dato quello che volevi. Amo il mio lavoro e amo farlo in un luogo che lo rispetta molto. Difficile lasciare qualcosa per cui si è lottato tanto».